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Christian Zucconi – Nella fragilità del marmo
Questa volta gli spazi con i quali l’artista relazionerà le proprie opere sono quelli del Museo dell’Opera del Duomo a Prato, dove a partire dal chiostro romanico per arrivare alle “Volte” sotto la Cattedrale quattro opere di grandi dimensioni accompagneranno il visitatore alla visione del Cristo deposto nella cappella sotterranea. In omaggio al pulpito di Donatello custodito nelle sale dell’antico Palazzo dei Preposti, sarà inoltre esposta un’opera inedita direttamente ispirata all’artista dai putti danzanti del fregio donatelliano.
Comunicato stampa
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Dopo aver messo in relazione con l’antico le proprie sculture in poli museali come quello del Castello Sforzesco a Milano e di Palazzo Farnese a Piacenza ed aver sondato la religiosità contemporanea con l’opera Cena in Emmaus esposta alla 54° Biennale di Venezia, Christian Zucconi torna a riflettere sul senso del sacro con la mostra “Nella fragilità del marmo” a cura di Luca Beatrice. Questa volta gli spazi con i quali l’artista relazionerà le proprie opere sono quelli del Museo dell’Opera del Duomo a Prato, dove a partire dal chiostro romanico per arrivare alle “Volte” sotto la Cattedrale quattro opere di grandi dimensioni accompagneranno il visitatore alla visione del Cristo deposto nella cappella sotterranea. In omaggio al pulpito di Donatello custodito nelle sale dell’antico Palazzo dei Preposti, sarà inoltre esposta un’opera inedita direttamente ispirata all’artista dai putti danzanti del fregio donatelliano.
«Il corpo di Gregor Samsa è quello di uno scarafaggio», scrive a tal proposito il curatore Luca Beatrice. «La sua metamorfosi è solo visiva: un involucro, nulla più, imprigiona i desideri e le emozioni che restano pur sempre quelli di un uomo. Per quanto egli si dimeni e tenti di spiegare, i familiari che provano a guardarlo con compassione non vedono altro che un disgustoso insetto.
L’incomunicabilità di quella prigione di forme ribalta i valori psicologici del dramma. Chi è il vero mostro? L’umanità è difficile da trovare dove non c’è più e laddove dovrebbe esserci non si manifesta. Più quello scarafaggio soffre, e si svela in tutta la sua bestialità, più il nobile sentimento di chi è umano si tramuta in derisione, repulsione, incomprensione del diverso.
Facile è la morale.
Fedele a questa lettura del corpo come contenitore Christian Zucconi lo smembra, fino a scavarne le viscere. Da qualche anno lo scultore emiliano ha abbandonato la terracotta per esplorare le proprietà del travertino persiano, che sparge le sue vene di rosso sul candido marmoreo. Non contento dei risultati ottenuti da una rappresentazione che unisce la monumentalità del maestro Michelangelo con la modernità di Rodin, Zucconi mette in atto una metamorfosi tecnica che rinnova la scultura dalla sua gravità classica.
Nel 2005 una diversa “Metamorfosis” inscenava la nudità dei sentimenti umani per esplorare con la schizofrenia di un monologo l’angoscia di un uomo di fronte a se stesso, ovvero tra il sé corporeo e la propria anima. Con il modus operandi che ha reso la compagnia teatrale catalana la Fura dels Baus una delle realtà più interessanti del teatro contemporaneo, il corpo è usato in tutte le sue possibilità performative. Messo a nudo, l’uomo svela la sua grandezza, o miseria, animale.
Il protagonista nella “Metamorfosis” della Fura, rinchiuso entro quattro pareti di vetro, stava lì, privato degli strumenti suoi primari di accettazione sociale. Involucro di un’emotività pronta a esplodere.
L’uso e l’abuso del nudo spezza la convenzione teatrale della quarta parete tra spettatore e attore, rompendo un equilibrio e rendendo omaggio alla tragedia greca in una nuova forma di mimesi.
Paragonato al ridisegno del rapporto sul quale gioca la Fura, nello scandalo dell’esperienza collettiva che ne condivide una altrimenti intima, la novità del linguaggio di Zucconi è capace di rivitalizzare il tema classico della figurazione con un intervento d’ordine performativo.
Stravolge il senso del manifesto “non finito” michelangiolesco adoperandolo nel ventre della scultura sia da un punto di vista tecnico che concettuale.
La trasfigurazione del corpo, interno al soggetto, fa sì che lo scoglio della classicità venga aggirato, meglio ancora, dominato. Si placa il facile rischio, così temuto dai giovani scultori, di cadere nell’autocritica che fu di Arturo Martini, “scultura lingua morta”.
Ora, è partendo dall’iconografia biblica – la Deposizione, la Vergine, il sacrificio di Erode – che Zucconi decide di muoversi per scoprire possibilità mai esplorate del materiale. Trattato alla stregua di un massello di legno, il travertino persiano viene aggredito in superficie e scavato da dentro. Forte della padronanza tecnica derivatagli dall’uso della terra, applica lo stesso procedimento alla pietra. Scelta insolita, sicuramente riuscita quando, trovandosi di fronte alle sue sculture, sembrerà di toccare la venatura viva del legno o la porosità della ceramica piuttosto che la fredda consistenza del marmo.
Al gesto, quasi pittorico, di un Medardo Rosso, si aggiunge la semplificazione lineare di Marino. Una sofferenza di matrice cristiana converge nella lettura dissacrante dell’uomo moderno.
In “Depositio Christi”, della “Deposizione” del Mantegna conservata a Brera resta solo il rimando a un’icona ormai prosciugata, filtrata attraverso l’immagine fotografica del corpo morto di Che Guevara steso su una branda. L’umanità del Cristo (o del mito guerriero) supera quella classica perché ricolloca la dimensione mortale del corpo in decomposizione.
Efebica ballerina in tutù è invece la versione contemporanea della “Virgo Lactans”: una giovane madre, un cigno bianco, come nella recente interpretazione della grazia e della bellezza nel talento cinematografico di Aronofsky (“The Black Swan”, 2010), rivela tutta la fragilità di una donna imprigionata nel corpo di una bambina. Impotente più che prosperosa.
L’agnello sacrificale poi, simbolo dei figli di Dio uccisi per volere di Erode, rafforza nella “Veneratio Herodis” la versione laica della formula nietzschiana “Dio è morto”. Questo piccolo uomo è anch’esso fantasma del desiderio atavico di libertà e verità volatilizzato in quel grembo vuoto.
Lo spettacolo di corpi, spogliato di riferimenti ideali con il bello classico teorizzato dal Vasari, si nutre di un canone similmente sperimentato dai videoartisti e dai perfomer, da Bill Viola a Marina Abramovic. Verrebbe da pensare anche alla furia dell’austriaco Hermann Nitsch che, generando prima un senso di disgusto orgiastico e dissacrante, spinge poi a una volontaria catarsi e purificazione nello spettatore che assiste alle sue azioni.
Con Zucconi, l’impianto, che potremmo definire drammaturgico più che liturgico, si compie nella contrapposizione di opposti così dissonanti da generare uno choc emotivo nel pubblico.
E di spettacolo si può parlare, sia per chi ha avuto il piacere di vedere Zucconi al lavoro – a scavare, a spaccare, a lacerare il marmo per poi ricomporlo in frammenti persistenti di materia – sia guardando la violenza espressiva di questi corpi nudi ben oltre l’evidenza.
All’interno della Cattedrale di Santo Stefano di Prato, il teatro “urbano” di Zucconi stabilisce atmosfere quasi gotiche, dark. Le sue sculture si collocano nello spazio come elementi di un Medioevo post-atomico. L’espressione corporale delle forme diventa più simbolica del soggetto stesso rappresentato. Vediamo l’anima che è più viva della materia morta usata per raffigurare il corpo. La dimensione è più intima e psicologica. Nella sua condivisione pubblica all’interno della Basilica, l’operazione assume le sembianze di una performance visiva studiata per quadri iconici dove crediamo di guardare a un incubo, in una società che sembra abitata da fantasmi assediati dal senso di colpa, dalla frustrazione, dalla vergogna.
Ma non siamo ancora all’ultimo atto. La tragedia umana è terreno irrisolto e la pratica di Christian Zucconi ci permetterà ancora di stupirci, convinti che un nuovo tassello si potrà aggiungere al suo spettacolo del reale».
Promossa dalla Diocesi di Prato in collaborazione con il Museo dell’Opera del Duomo e Die Mauer Arte Contemporanea, la mostra gode del patrocinio del Comune di Prato e si pone come evento culminante dell’annuale “Memoria del Beato Angelico”.
«Il corpo di Gregor Samsa è quello di uno scarafaggio», scrive a tal proposito il curatore Luca Beatrice. «La sua metamorfosi è solo visiva: un involucro, nulla più, imprigiona i desideri e le emozioni che restano pur sempre quelli di un uomo. Per quanto egli si dimeni e tenti di spiegare, i familiari che provano a guardarlo con compassione non vedono altro che un disgustoso insetto.
L’incomunicabilità di quella prigione di forme ribalta i valori psicologici del dramma. Chi è il vero mostro? L’umanità è difficile da trovare dove non c’è più e laddove dovrebbe esserci non si manifesta. Più quello scarafaggio soffre, e si svela in tutta la sua bestialità, più il nobile sentimento di chi è umano si tramuta in derisione, repulsione, incomprensione del diverso.
Facile è la morale.
Fedele a questa lettura del corpo come contenitore Christian Zucconi lo smembra, fino a scavarne le viscere. Da qualche anno lo scultore emiliano ha abbandonato la terracotta per esplorare le proprietà del travertino persiano, che sparge le sue vene di rosso sul candido marmoreo. Non contento dei risultati ottenuti da una rappresentazione che unisce la monumentalità del maestro Michelangelo con la modernità di Rodin, Zucconi mette in atto una metamorfosi tecnica che rinnova la scultura dalla sua gravità classica.
Nel 2005 una diversa “Metamorfosis” inscenava la nudità dei sentimenti umani per esplorare con la schizofrenia di un monologo l’angoscia di un uomo di fronte a se stesso, ovvero tra il sé corporeo e la propria anima. Con il modus operandi che ha reso la compagnia teatrale catalana la Fura dels Baus una delle realtà più interessanti del teatro contemporaneo, il corpo è usato in tutte le sue possibilità performative. Messo a nudo, l’uomo svela la sua grandezza, o miseria, animale.
Il protagonista nella “Metamorfosis” della Fura, rinchiuso entro quattro pareti di vetro, stava lì, privato degli strumenti suoi primari di accettazione sociale. Involucro di un’emotività pronta a esplodere.
L’uso e l’abuso del nudo spezza la convenzione teatrale della quarta parete tra spettatore e attore, rompendo un equilibrio e rendendo omaggio alla tragedia greca in una nuova forma di mimesi.
Paragonato al ridisegno del rapporto sul quale gioca la Fura, nello scandalo dell’esperienza collettiva che ne condivide una altrimenti intima, la novità del linguaggio di Zucconi è capace di rivitalizzare il tema classico della figurazione con un intervento d’ordine performativo.
Stravolge il senso del manifesto “non finito” michelangiolesco adoperandolo nel ventre della scultura sia da un punto di vista tecnico che concettuale.
La trasfigurazione del corpo, interno al soggetto, fa sì che lo scoglio della classicità venga aggirato, meglio ancora, dominato. Si placa il facile rischio, così temuto dai giovani scultori, di cadere nell’autocritica che fu di Arturo Martini, “scultura lingua morta”.
Ora, è partendo dall’iconografia biblica – la Deposizione, la Vergine, il sacrificio di Erode – che Zucconi decide di muoversi per scoprire possibilità mai esplorate del materiale. Trattato alla stregua di un massello di legno, il travertino persiano viene aggredito in superficie e scavato da dentro. Forte della padronanza tecnica derivatagli dall’uso della terra, applica lo stesso procedimento alla pietra. Scelta insolita, sicuramente riuscita quando, trovandosi di fronte alle sue sculture, sembrerà di toccare la venatura viva del legno o la porosità della ceramica piuttosto che la fredda consistenza del marmo.
Al gesto, quasi pittorico, di un Medardo Rosso, si aggiunge la semplificazione lineare di Marino. Una sofferenza di matrice cristiana converge nella lettura dissacrante dell’uomo moderno.
In “Depositio Christi”, della “Deposizione” del Mantegna conservata a Brera resta solo il rimando a un’icona ormai prosciugata, filtrata attraverso l’immagine fotografica del corpo morto di Che Guevara steso su una branda. L’umanità del Cristo (o del mito guerriero) supera quella classica perché ricolloca la dimensione mortale del corpo in decomposizione.
Efebica ballerina in tutù è invece la versione contemporanea della “Virgo Lactans”: una giovane madre, un cigno bianco, come nella recente interpretazione della grazia e della bellezza nel talento cinematografico di Aronofsky (“The Black Swan”, 2010), rivela tutta la fragilità di una donna imprigionata nel corpo di una bambina. Impotente più che prosperosa.
L’agnello sacrificale poi, simbolo dei figli di Dio uccisi per volere di Erode, rafforza nella “Veneratio Herodis” la versione laica della formula nietzschiana “Dio è morto”. Questo piccolo uomo è anch’esso fantasma del desiderio atavico di libertà e verità volatilizzato in quel grembo vuoto.
Lo spettacolo di corpi, spogliato di riferimenti ideali con il bello classico teorizzato dal Vasari, si nutre di un canone similmente sperimentato dai videoartisti e dai perfomer, da Bill Viola a Marina Abramovic. Verrebbe da pensare anche alla furia dell’austriaco Hermann Nitsch che, generando prima un senso di disgusto orgiastico e dissacrante, spinge poi a una volontaria catarsi e purificazione nello spettatore che assiste alle sue azioni.
Con Zucconi, l’impianto, che potremmo definire drammaturgico più che liturgico, si compie nella contrapposizione di opposti così dissonanti da generare uno choc emotivo nel pubblico.
E di spettacolo si può parlare, sia per chi ha avuto il piacere di vedere Zucconi al lavoro – a scavare, a spaccare, a lacerare il marmo per poi ricomporlo in frammenti persistenti di materia – sia guardando la violenza espressiva di questi corpi nudi ben oltre l’evidenza.
All’interno della Cattedrale di Santo Stefano di Prato, il teatro “urbano” di Zucconi stabilisce atmosfere quasi gotiche, dark. Le sue sculture si collocano nello spazio come elementi di un Medioevo post-atomico. L’espressione corporale delle forme diventa più simbolica del soggetto stesso rappresentato. Vediamo l’anima che è più viva della materia morta usata per raffigurare il corpo. La dimensione è più intima e psicologica. Nella sua condivisione pubblica all’interno della Basilica, l’operazione assume le sembianze di una performance visiva studiata per quadri iconici dove crediamo di guardare a un incubo, in una società che sembra abitata da fantasmi assediati dal senso di colpa, dalla frustrazione, dalla vergogna.
Ma non siamo ancora all’ultimo atto. La tragedia umana è terreno irrisolto e la pratica di Christian Zucconi ci permetterà ancora di stupirci, convinti che un nuovo tassello si potrà aggiungere al suo spettacolo del reale».
Promossa dalla Diocesi di Prato in collaborazione con il Museo dell’Opera del Duomo e Die Mauer Arte Contemporanea, la mostra gode del patrocinio del Comune di Prato e si pone come evento culminante dell’annuale “Memoria del Beato Angelico”.
18
febbraio 2012
Christian Zucconi – Nella fragilità del marmo
Dal 18 febbraio al 30 aprile 2012
arte contemporanea
Location
MUSEO DELL’OPERA DEL DUOMO
Prato, Piazza Duomo, 49, (Prato)
Prato, Piazza Duomo, 49, (Prato)
Orario di apertura
lunedì, giovedì e venerdì dalle 9.00 alle13.00 e dalle 14.30 alle18.30; mercoledì dalle 9.00 alle13.00; sabato dalle 10.00 alle13.00 e dalle14.30 alle18.30; domenica dalle10.00 alle13.00; martedì chiuso
Vernissage
18 Febbraio 2012, ore 16.00 alla presenza dell’artista.
Autore
Curatore