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Claudio Malacarne – Le navigazioni esistenziali
Mostra personale di Claudio Malacarne dal titolo “Le navigazioni esistenziali “dove vengono presenatte le recenti opere sul tema dell’acqua.
Comunicato stampa
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Si inaugura la mostra personale Claudio Malacarne dal titolo “Le navigazioni esistenziali “.
In occasione della presentazione del catalogo “Le navigazioni esistenziali” curato da Floriano De Santi, l’artista Claudio Malacarne presenta i suoi ultimi lavori.
[..] Nei suoi quadri – a partire da Federica in blu del 2001 e da Tuffatrice dell’anno seguente – la figura, che è una vera e propria temperantia della realtà, si scompone, sopravvive in frammenti, si ricompone, unendosi ad altri frammenti, ad altre immagini ancora, in cui prende il sinolo di visibile e invisibile. Poiché lo sguardo penetrante non si arresta alle configurazioni date ma sa scorgere i mondi possibili, ampliando così l’esperienza attraverso la moltiplicazione dei significati, Malacarne giudica la possibilità creativa una categoria di pensiero ontologicamente superiore a quella della mera impressione fenomenica. Per estensione, nella sua produzione figurativa, potremmo ipotizzare che persino la singola immagine sia già di per sé una costellazione di immagini, qualcosa che porta in sé l’informe da cui si è generata, il tempo che ha attraversato, il presente che illumina il futuro con il suo improvviso lampeggiare.
[…] L’orientamento essenziale della poiesis pittorica di Malacarne è nell’attesa, l’incertezza della dimora nella quale l’assenza è da considerarsi una vera e propria Leitwort, un destino di silenzio dopo ogni figura, dopo ogni scheggia, fino a giungere alla possibilità di far entrare nello spazio di rappresentazione il silenzio. In effetti, nel silenzio dell’acqua in una piscina, si rintraccia il puro inizio, il puro pensiero per immagini: ecco perciò la difficoltà fondamentale per la pittura simboleggiata dal vuoto della tela o del foglio. Se pienezza del colore e vuoto della superficie potessero consistere nella medesima natura, allora ci sarebbe l’incontro dell’origine dell’oblio, della lotta della “parola” contro il silenzio, come nel mito di Orfeo ed Euridice. Ma per fare questo occorre attraversare il caos delle forme, risalire il pendio dell’autotes, dell’“essere per sé”, senza necessariamente negare che la risalita nella scaturigine ontologica consenta uno sguardo retrospettivo verso il disordine che si lascia alle spalle.
Al pari di uno specchio la cui superficie lucida trattenga l’apeiron della luce, la sua epifania, l’acqua in Riflessi del 2006, Controluce dello stesso anno e Swimming pool del 2009, è una metafora visiva dei “confini del mondo”, dove non c’è verità oggettiva né tempo, perché il passato è presente e avvenire. Nella pittura di Malacarne tutto passa, cambia e si trasforma, proprio come hanno sempre fatto i narratori visionari dell’epoca di Omero, quando le sorti del racconto erano nelle mani di due personaggi colorati, multiformi e simulatori, come Odisseo e Proteo.
[…] Nel lavoro più recente di Malacarne – da Relax sincronizzato a Fare il morto, da Bagnanti allo Squalo –, pur nel suo riflesso speculativo, operano due spinte uguali e contrarie: una orientata all’interiorizzazione di un tempo breve (al quale si addice l’istantaneità del flash) in sostanziale sintonia con il “credo artistico” di un Willy Sitte o di un Vladimir Velickovic; la seconda, una volta acquisito quel temperamento mediterraneo che, come nella theoria di Nietzsche, stempera il freddo espressionismo nordico e indulge all’empatia, approdando ad una figurazione che esplora il visibile, che lo genera senza avvalersi di un modello da riprodurre, e lascia affiorare sulla superficie della tela la configurazione simbolica suggerita inconsciamente dalla “necessità interiore”. Ma in Giochi d’estate e in Verde acqua c’è contemporaneamente, sebbene meno palese, la posizione del voyant, del contemplare. E mentre il voyeur ad esempio di Amiche non sa ciò che sta per scoprire, il voyant sa quello che guarda: la registrazione sensoria di uno sguardo di verità totale lungo i vortici degli istinti che scompaginano, erodono, esaltano le forme.
“Tanta anima mi cresce nella carne, che mi sembra di non avere quasi più carne”, afferma D’Annunzio. Anche Malacarne nel polittico Animal feeling del 2008 ha la sensazione di vivere a metà: tra l’estremo del corpo e il limitare dell’anima: tra la sensualità che si sfibra e lo spirito che sogna i propri sogni smisurati. Tutto lì, sembra senza limiti: lo spirito senza riva, il corpo senza forma; i confini dell’anima si perdono (gli eraclitei psyches peirata), i confini del corpo si cancellano. La vita è qualcosa di fluttuante e d’inesplicabile: trasognata, inquieta, indifferente; e l’invisibile gli viene incontro e gli penetra in cuore, come quello che il poeta di Alcyone attribuisce a Narciso. Ma anche l’occhio di Malacarne è pieno d’acqua dolce e marina: la pioggia che cade “pianamente, quasi melodiosamente” sui roseti notturni; il torrente che scorre sopra la pietra, odorando di fresco, mentre la ripa erbosa è intenta al fluire; la fontana del giardino che trabocca di tazza in tazza; la marea che strepita contro le rive levigate del Mediterraneo. Poi, come in trance, il pittore comincia a dipingere ombre, meandri, angoli, arabeschi, ondulazioni, colori azzurri e verdi come quelle delle antiche mattonelle persiane. Tutto sembra fermo per un istante; se non che ogni pennellata tracciata si spegne, si cancella, si dilegua nello spessore della materia, come nella rapidità di una corrente scura.
Testo di Floriano De Santi
BIOGRAFIA
Claudio Malacarne nasce a Mantova nell’estate del 1956, quando il sole è già entrato nella costellazione del cancro. Fin dalle prime opere in lui il disegno si configura come un ambito d’azione e di riflessione privilegiato: vastissimo, autonomo e complementare al contempo alla pratica pittorica. È un laboratorio ininterrotto, un diario continuo in cui si assolve la necessità interiore, l’urgenza esistenziale di possedere la realtà attraverso l’immagine che la ricrea. Frequentando l’atelier del maestro Enrico Longfils si muove attraverso sperimentazioni di “mezzi diversi”, dalla matita, con cui soprattutto nello studio di animali insiste sulla plasticità dei soggetti, alla penna con inchiostro di china, prima a segni minuti e spezzati, poi a tratti più densi e continui, spesso sciolti in liquide acquarellature, preludio alla Natura morta con bottiglia, frutta e sveglia del 1970 in cui il disegno si dissolve nell’impulso pittorico.
A partire dai dipinti a olio degli anni Ottanta s’intravede la lezione post-impressionista di Gauguin e di Van Gogh, di Bonnard e di Matisse, con una materia pittorica plein lumière, piuttosto che plein soleil: nelle ombre tanto sottilmente colorate da non essere neppure leggibili in quanto ombre, nel lampo fluorescente ed opalescente dei bulbi accesi nei suoi “giardini incantati” che spargono luce in tutto il paesaggio. C’è uno zampillio di colori che rimbalza sulle palme, sull’acqua del mare e sulle facciate delle case, quadruplicando il climax luminoso, nella precisa sensazione che questo – come nella narrativa di Proust o nella musica di Debussy – sia un istante sperduto nello spazio e nel tempo, irripetibile al pari di un candido pensiero, sostanziato di quiete, che solca la mente d’una fanciulla nel Ritratto della figlia Federica del 1989.
Pur nel teso, coerente, ineccepibile linguaggio formale, le opere sul Concerto jazz del 2003-2008 grondano di umori esistenziali, come se il pittore lasciasse nelle serrate maglie di un’agguerrita sintassi simbolista i brani vivi, carnosi e sanguigni, della propria natura primordiale, inutilmente nascosta, perfino camuffata con ostinato pudore. Anche con le sue teste di animali nel Polittico del 2007, egli ha sempre lottato tra un proprio ideale mondo platonico, lucidamente dialettico e squisitamente mentale, e il gran flusso del suo sangue oscuro e tumultuoso, dei suoi sensi in agguato. Ed è appunto a causa di questo divario che si manifesta e determina la “fatica del pittore”, il tormento dei suoi quadri, espresso nel vigore del colore, nell’aggrovigliarsi delle immagini, nel sovrapporsi ed alternarsi dei dati naturalistici ed espressionistici sull’ordito logico di un’architettura figurativa neo-metafisica.
Dopo aver scoperto il realismo spagnolo di Joaquín Sorolla, il suo occhio indagatore, il detective del colore dei Fauves, diventa nell’ultimo decennio, il puntuto, amaro artista dei “bagnanti” e dei “nuotatori”. Egli ha addirittura ingaggiato una battaglia contro il personaggio e sulla linea di un suo pirandelliano “uno, nessuno e centomila” ha puntato sulla presenza fisica della figura umana immersa nell’acqua di una piscina, divenendo dapprima il realista di una vita moderna perlustrata con una torcia al vetriolo, poi trasformandosi – lui ironico e scettico taglieggiatore di ritratti e di animali equiparati gli uni e gli altri da una comune, insopprimibile matericità – in una specie di perduto visionario suo malgrado. C’è in questi quadri tutta la sontuosa e avida eredità di Matisse, ma anche l’incanto, la sospensione, l’ansioso stupore di Rimbaud e di Valéry.
Testo di Floriano De Santi
In occasione della presentazione del catalogo “Le navigazioni esistenziali” curato da Floriano De Santi, l’artista Claudio Malacarne presenta i suoi ultimi lavori.
[..] Nei suoi quadri – a partire da Federica in blu del 2001 e da Tuffatrice dell’anno seguente – la figura, che è una vera e propria temperantia della realtà, si scompone, sopravvive in frammenti, si ricompone, unendosi ad altri frammenti, ad altre immagini ancora, in cui prende il sinolo di visibile e invisibile. Poiché lo sguardo penetrante non si arresta alle configurazioni date ma sa scorgere i mondi possibili, ampliando così l’esperienza attraverso la moltiplicazione dei significati, Malacarne giudica la possibilità creativa una categoria di pensiero ontologicamente superiore a quella della mera impressione fenomenica. Per estensione, nella sua produzione figurativa, potremmo ipotizzare che persino la singola immagine sia già di per sé una costellazione di immagini, qualcosa che porta in sé l’informe da cui si è generata, il tempo che ha attraversato, il presente che illumina il futuro con il suo improvviso lampeggiare.
[…] L’orientamento essenziale della poiesis pittorica di Malacarne è nell’attesa, l’incertezza della dimora nella quale l’assenza è da considerarsi una vera e propria Leitwort, un destino di silenzio dopo ogni figura, dopo ogni scheggia, fino a giungere alla possibilità di far entrare nello spazio di rappresentazione il silenzio. In effetti, nel silenzio dell’acqua in una piscina, si rintraccia il puro inizio, il puro pensiero per immagini: ecco perciò la difficoltà fondamentale per la pittura simboleggiata dal vuoto della tela o del foglio. Se pienezza del colore e vuoto della superficie potessero consistere nella medesima natura, allora ci sarebbe l’incontro dell’origine dell’oblio, della lotta della “parola” contro il silenzio, come nel mito di Orfeo ed Euridice. Ma per fare questo occorre attraversare il caos delle forme, risalire il pendio dell’autotes, dell’“essere per sé”, senza necessariamente negare che la risalita nella scaturigine ontologica consenta uno sguardo retrospettivo verso il disordine che si lascia alle spalle.
Al pari di uno specchio la cui superficie lucida trattenga l’apeiron della luce, la sua epifania, l’acqua in Riflessi del 2006, Controluce dello stesso anno e Swimming pool del 2009, è una metafora visiva dei “confini del mondo”, dove non c’è verità oggettiva né tempo, perché il passato è presente e avvenire. Nella pittura di Malacarne tutto passa, cambia e si trasforma, proprio come hanno sempre fatto i narratori visionari dell’epoca di Omero, quando le sorti del racconto erano nelle mani di due personaggi colorati, multiformi e simulatori, come Odisseo e Proteo.
[…] Nel lavoro più recente di Malacarne – da Relax sincronizzato a Fare il morto, da Bagnanti allo Squalo –, pur nel suo riflesso speculativo, operano due spinte uguali e contrarie: una orientata all’interiorizzazione di un tempo breve (al quale si addice l’istantaneità del flash) in sostanziale sintonia con il “credo artistico” di un Willy Sitte o di un Vladimir Velickovic; la seconda, una volta acquisito quel temperamento mediterraneo che, come nella theoria di Nietzsche, stempera il freddo espressionismo nordico e indulge all’empatia, approdando ad una figurazione che esplora il visibile, che lo genera senza avvalersi di un modello da riprodurre, e lascia affiorare sulla superficie della tela la configurazione simbolica suggerita inconsciamente dalla “necessità interiore”. Ma in Giochi d’estate e in Verde acqua c’è contemporaneamente, sebbene meno palese, la posizione del voyant, del contemplare. E mentre il voyeur ad esempio di Amiche non sa ciò che sta per scoprire, il voyant sa quello che guarda: la registrazione sensoria di uno sguardo di verità totale lungo i vortici degli istinti che scompaginano, erodono, esaltano le forme.
“Tanta anima mi cresce nella carne, che mi sembra di non avere quasi più carne”, afferma D’Annunzio. Anche Malacarne nel polittico Animal feeling del 2008 ha la sensazione di vivere a metà: tra l’estremo del corpo e il limitare dell’anima: tra la sensualità che si sfibra e lo spirito che sogna i propri sogni smisurati. Tutto lì, sembra senza limiti: lo spirito senza riva, il corpo senza forma; i confini dell’anima si perdono (gli eraclitei psyches peirata), i confini del corpo si cancellano. La vita è qualcosa di fluttuante e d’inesplicabile: trasognata, inquieta, indifferente; e l’invisibile gli viene incontro e gli penetra in cuore, come quello che il poeta di Alcyone attribuisce a Narciso. Ma anche l’occhio di Malacarne è pieno d’acqua dolce e marina: la pioggia che cade “pianamente, quasi melodiosamente” sui roseti notturni; il torrente che scorre sopra la pietra, odorando di fresco, mentre la ripa erbosa è intenta al fluire; la fontana del giardino che trabocca di tazza in tazza; la marea che strepita contro le rive levigate del Mediterraneo. Poi, come in trance, il pittore comincia a dipingere ombre, meandri, angoli, arabeschi, ondulazioni, colori azzurri e verdi come quelle delle antiche mattonelle persiane. Tutto sembra fermo per un istante; se non che ogni pennellata tracciata si spegne, si cancella, si dilegua nello spessore della materia, come nella rapidità di una corrente scura.
Testo di Floriano De Santi
BIOGRAFIA
Claudio Malacarne nasce a Mantova nell’estate del 1956, quando il sole è già entrato nella costellazione del cancro. Fin dalle prime opere in lui il disegno si configura come un ambito d’azione e di riflessione privilegiato: vastissimo, autonomo e complementare al contempo alla pratica pittorica. È un laboratorio ininterrotto, un diario continuo in cui si assolve la necessità interiore, l’urgenza esistenziale di possedere la realtà attraverso l’immagine che la ricrea. Frequentando l’atelier del maestro Enrico Longfils si muove attraverso sperimentazioni di “mezzi diversi”, dalla matita, con cui soprattutto nello studio di animali insiste sulla plasticità dei soggetti, alla penna con inchiostro di china, prima a segni minuti e spezzati, poi a tratti più densi e continui, spesso sciolti in liquide acquarellature, preludio alla Natura morta con bottiglia, frutta e sveglia del 1970 in cui il disegno si dissolve nell’impulso pittorico.
A partire dai dipinti a olio degli anni Ottanta s’intravede la lezione post-impressionista di Gauguin e di Van Gogh, di Bonnard e di Matisse, con una materia pittorica plein lumière, piuttosto che plein soleil: nelle ombre tanto sottilmente colorate da non essere neppure leggibili in quanto ombre, nel lampo fluorescente ed opalescente dei bulbi accesi nei suoi “giardini incantati” che spargono luce in tutto il paesaggio. C’è uno zampillio di colori che rimbalza sulle palme, sull’acqua del mare e sulle facciate delle case, quadruplicando il climax luminoso, nella precisa sensazione che questo – come nella narrativa di Proust o nella musica di Debussy – sia un istante sperduto nello spazio e nel tempo, irripetibile al pari di un candido pensiero, sostanziato di quiete, che solca la mente d’una fanciulla nel Ritratto della figlia Federica del 1989.
Pur nel teso, coerente, ineccepibile linguaggio formale, le opere sul Concerto jazz del 2003-2008 grondano di umori esistenziali, come se il pittore lasciasse nelle serrate maglie di un’agguerrita sintassi simbolista i brani vivi, carnosi e sanguigni, della propria natura primordiale, inutilmente nascosta, perfino camuffata con ostinato pudore. Anche con le sue teste di animali nel Polittico del 2007, egli ha sempre lottato tra un proprio ideale mondo platonico, lucidamente dialettico e squisitamente mentale, e il gran flusso del suo sangue oscuro e tumultuoso, dei suoi sensi in agguato. Ed è appunto a causa di questo divario che si manifesta e determina la “fatica del pittore”, il tormento dei suoi quadri, espresso nel vigore del colore, nell’aggrovigliarsi delle immagini, nel sovrapporsi ed alternarsi dei dati naturalistici ed espressionistici sull’ordito logico di un’architettura figurativa neo-metafisica.
Dopo aver scoperto il realismo spagnolo di Joaquín Sorolla, il suo occhio indagatore, il detective del colore dei Fauves, diventa nell’ultimo decennio, il puntuto, amaro artista dei “bagnanti” e dei “nuotatori”. Egli ha addirittura ingaggiato una battaglia contro il personaggio e sulla linea di un suo pirandelliano “uno, nessuno e centomila” ha puntato sulla presenza fisica della figura umana immersa nell’acqua di una piscina, divenendo dapprima il realista di una vita moderna perlustrata con una torcia al vetriolo, poi trasformandosi – lui ironico e scettico taglieggiatore di ritratti e di animali equiparati gli uni e gli altri da una comune, insopprimibile matericità – in una specie di perduto visionario suo malgrado. C’è in questi quadri tutta la sontuosa e avida eredità di Matisse, ma anche l’incanto, la sospensione, l’ansioso stupore di Rimbaud e di Valéry.
Testo di Floriano De Santi
24
aprile 2010
Claudio Malacarne – Le navigazioni esistenziali
Dal 24 aprile al 20 maggio 2010
arte contemporanea
Location
GALLERIA CM ARTESTUDIO
Mantova, Via Giuseppe Bertani, 28, (Mantova)
Mantova, Via Giuseppe Bertani, 28, (Mantova)
Biglietti
libero
Orario di apertura
dal giovedì alla sabato dalle 16.30 alle 19.00 e su appuntamento
Vernissage
24 Aprile 2010, ore 18:00
Autore
Curatore