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Claus Rudolph – Finalmente sono qui!
Con questa personale dell’artista tedesco Claus Rudolph, composta da dieci fotografie su plexi, la Galleria Arturarte di Massimo Lupoli conclude la dinamica programmazione 2006
Comunicato stampa
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Con questa personale dell’artista tedesco Claus Rudolph, composta da dieci fotografie su plexi, la Galleria Arturarte di Massimo Lupoli conclude la dinamica programmazione 2006 che ha visto succedersi 11 artisti. Le loro mostre, le loro opere, assieme ai testi che le hanno accompagnate, si ritroveranno nella rivista/catalogo attualmente in fase di realizzazione che documenterà l’intera attività espositiva proposta dalla galleria nel corso dell’anno che volge al termine.
Dal testo di Stefano Elena, “La grande illusione”:
«Non è così che ce l’aspettiamo, una fotografia, non è vero?
Tanto, troppo vicina a uno scatto di scena del più barocco Ken Russell (Gothic, I diavoli di Loudun) o del dialettale e immaginifico Fellini.
Costruita, assemblata, messa in piedi prestando attenzione alla corretta presenza e ubicazione d’ogni singola figura, all’esatta postura di corpi o loro parti, alla giusta gestione del gesto che deve agire e compiersi durante il click, al preciso esprimersi di volti che recitano il ruolo con l’efficacia degli sguardi, dei sorrisi, delle smorfie e dell’aspetto. Di un’aria che senza suoni e senza parole, stando ferma, si riflette intensa su qualunque elemento si trovi in quell’istante coinvolto dalla vista.
Ugualmente inusuale potrebbe risultare l’ausilio di costumi e locations da set cinematografico, la compresenza di comparse innumerevoli, ognuna delle quali così dettagliatamente caratterizzata, così minuziosamente e artificiosamente “lei” da sembrar fregata a un film.
E allora che anche l’arte sia tenuta a porsi gli interrogativi “genetici” del cinema? A domandarsi quanto, ad esempio, sia corretto reputare il regista/artista unico autore del film/opera, piuttosto che un fattore unificante degli elementi tutti che concorrono a fabbricarlo, il film/opera.
Ma questa è, per restare in tema, un’altra storia…
Rimane solo il fatto che io preferisco chiamarlo regista, Claus Rudolph. Perché sono inoltre certo del fatto che il cinema possa permettere – come d’altronde sta già insistentemente facendo – prelievi strutturali del proprio format da parte della fotografia, di un’arte cioè immobile che a quanto pare riesce egregiamente (e nonostante tutto) a rispettare ritmi, contingenze e sensazioni di un’arte che, invece, si muove e cambia scena.
Nei suoi script Rudolph è in grado di far convivere dramma e satira, umorismo e provocazione, sentimento e leggerezza, disponendoli all’insegna di un equilibrio stabile e dinamico, infaticabile nel suo saper contenere l’improbabilità circense e visionaria di incantesimi spettacolari, di frammenti impossibili di un reale che non sia quello caotico, mescolatore, meraviglioso e saturo delle favole che l’immaginario ama talvolta raccontarsi.
Specie se – e quando – quell’immaginario sceglie di ricorrere all’estemporaneità sregolata del sogno, la rappresentazione diventa, ancora una volta, figlia della settima arte:
“Il film offre paradossalmente come prodotto il più magico dei beni di consumo e cioè i sogni” (M. McLuhan).
“Se il cinema non è fatto per tradurre i sogni o tutto quello che nella vita cosciente è affine all’ambito dei sogni, allora il cinema non esiste” (A. Artaud).
Rudolph sa inscenare le grandi manovre di onirismi ornati al limite del kitsch, può allestire l’archetipo di un diario scritto a quattro mani dai
sogni e dai ricordi, alternando momenti di spettacolo spettacolare dagli effluvi d’assenzio stile Moulin Rouge a incursioni festose tra raduni goliardici multicolor.
L’artist… Il regista, dicevamo, ci racconta senza errori il suo io fantastico, permettendoci di sostare al di qua di una macchina da presa impegnata a catturare il favoloso mondo di Claus Rudolph, la sfavillante energia dei posti che riflettono forme ed intenzioni dell’irreale incisività, un po’ glamour e un po’ leziosa, delle illusioni volute dall’inventiva, dalla memoria e dalle storie riferite nel sonno.
Rudolph, artista o regista che sia, autore oppure fattore unificante, è capace di esibire inappuntabili simulazioni del radioso, sfolgorante e risplendente universo che, se non l’immaginazione, riesce a stupire noi, noi che guardiamo, noi che a uno show finalmente tanto estraneo a qualsiasi coerenza imperturbabile dovremmo donare un po’ di sana e spontanea partecipazione.»
Dal testo di Stefano Elena, “La grande illusione”:
«Non è così che ce l’aspettiamo, una fotografia, non è vero?
Tanto, troppo vicina a uno scatto di scena del più barocco Ken Russell (Gothic, I diavoli di Loudun) o del dialettale e immaginifico Fellini.
Costruita, assemblata, messa in piedi prestando attenzione alla corretta presenza e ubicazione d’ogni singola figura, all’esatta postura di corpi o loro parti, alla giusta gestione del gesto che deve agire e compiersi durante il click, al preciso esprimersi di volti che recitano il ruolo con l’efficacia degli sguardi, dei sorrisi, delle smorfie e dell’aspetto. Di un’aria che senza suoni e senza parole, stando ferma, si riflette intensa su qualunque elemento si trovi in quell’istante coinvolto dalla vista.
Ugualmente inusuale potrebbe risultare l’ausilio di costumi e locations da set cinematografico, la compresenza di comparse innumerevoli, ognuna delle quali così dettagliatamente caratterizzata, così minuziosamente e artificiosamente “lei” da sembrar fregata a un film.
E allora che anche l’arte sia tenuta a porsi gli interrogativi “genetici” del cinema? A domandarsi quanto, ad esempio, sia corretto reputare il regista/artista unico autore del film/opera, piuttosto che un fattore unificante degli elementi tutti che concorrono a fabbricarlo, il film/opera.
Ma questa è, per restare in tema, un’altra storia…
Rimane solo il fatto che io preferisco chiamarlo regista, Claus Rudolph. Perché sono inoltre certo del fatto che il cinema possa permettere – come d’altronde sta già insistentemente facendo – prelievi strutturali del proprio format da parte della fotografia, di un’arte cioè immobile che a quanto pare riesce egregiamente (e nonostante tutto) a rispettare ritmi, contingenze e sensazioni di un’arte che, invece, si muove e cambia scena.
Nei suoi script Rudolph è in grado di far convivere dramma e satira, umorismo e provocazione, sentimento e leggerezza, disponendoli all’insegna di un equilibrio stabile e dinamico, infaticabile nel suo saper contenere l’improbabilità circense e visionaria di incantesimi spettacolari, di frammenti impossibili di un reale che non sia quello caotico, mescolatore, meraviglioso e saturo delle favole che l’immaginario ama talvolta raccontarsi.
Specie se – e quando – quell’immaginario sceglie di ricorrere all’estemporaneità sregolata del sogno, la rappresentazione diventa, ancora una volta, figlia della settima arte:
“Il film offre paradossalmente come prodotto il più magico dei beni di consumo e cioè i sogni” (M. McLuhan).
“Se il cinema non è fatto per tradurre i sogni o tutto quello che nella vita cosciente è affine all’ambito dei sogni, allora il cinema non esiste” (A. Artaud).
Rudolph sa inscenare le grandi manovre di onirismi ornati al limite del kitsch, può allestire l’archetipo di un diario scritto a quattro mani dai
sogni e dai ricordi, alternando momenti di spettacolo spettacolare dagli effluvi d’assenzio stile Moulin Rouge a incursioni festose tra raduni goliardici multicolor.
L’artist… Il regista, dicevamo, ci racconta senza errori il suo io fantastico, permettendoci di sostare al di qua di una macchina da presa impegnata a catturare il favoloso mondo di Claus Rudolph, la sfavillante energia dei posti che riflettono forme ed intenzioni dell’irreale incisività, un po’ glamour e un po’ leziosa, delle illusioni volute dall’inventiva, dalla memoria e dalle storie riferite nel sonno.
Rudolph, artista o regista che sia, autore oppure fattore unificante, è capace di esibire inappuntabili simulazioni del radioso, sfolgorante e risplendente universo che, se non l’immaginazione, riesce a stupire noi, noi che guardiamo, noi che a uno show finalmente tanto estraneo a qualsiasi coerenza imperturbabile dovremmo donare un po’ di sana e spontanea partecipazione.»
16
dicembre 2006
Claus Rudolph – Finalmente sono qui!
Dal 16 dicembre 2006 al 14 gennaio 2007
arte contemporanea
Location
GALLERIA ARTURARTE
Nepi, Via Settevene Palo, 1a, (Viterbo)
Nepi, Via Settevene Palo, 1a, (Viterbo)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì 9-18. Sabato e domenica su appuntamento
Vernissage
16 Dicembre 2006, ore 20
Autore
Curatore