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Cristiano Brandolini – Sa-manu. Estasi dell’informale
Il titolo della mostra, “Sa-manu. Estasi dell’informale”, sintetizza il modo di procedere dell’artista. Brandolini ama restituire la vita agli oggetti che scolpisce. Il magma che informa è il più vario ed eventuale possibile: pezzi di legno o di ferro, pietre, scarti di lavorazione, meglio se trovati casualmente da qualche parte.
Comunicato stampa
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Sciamanesimo: dalla radice indoeuropea sa-, legata al verbo "sapere", e mánu, uomo. Affonda le sue radici nell'arcaico il lavoro di Cristiano Brandolini (Busto Arsizio, 1972). L'artista, che vive e lavora ad Arsago Seprio (Va), espone al MilesiLab di Monza una quindicina di opere tra sculture, disegni e pitture realizzare dal 1999 ad oggi.
Il titolo della mostra, “Sa-manu. Estasi dell'informale”, sintetizza il modo di procedere dell'artista. Brandolini ama restituire la vita agli oggetti che scolpisce. Il magma che informa è il più vario ed eventuale possibile: pezzi di legno o di ferro, pietre, scarti di lavorazione, meglio se trovati casualmente da qualche parte.
Se la predilezione per il ferro nasce dalla professione del padre fabbro, quella per il legno e la pietra è per il giovane artista sepriese una predisposizione innata e una professione “altra”: la sua attività di archeologo lo ha infatti spinto ad approfondire il legame delle civiltà del passato con i materiali naturali, assimilando degli antichi artigiani anche l'approccio quasi “sacrale” - sciamanico appunto - alla materia stessa. “Egli dunque - scrive la curatrice della mostra Elena Percivaldi - esamina attentamente la forma e la soppesa. Ed ecco, pian piano, nascere l'idea di una forma finita, di un'opera compiuta. Anziché per sottrazione, l'artista lavora per aggiunte progressive, assemblando via via nuovi materiali. E il work in progress che ne consegue avviene di getto, ha un non so che di rapsodico. Anzi, di sciamanico. Mentre immagina, egli crea”.
“La mia arte sostanzialmente è informale. Nelle mie opere l’elemento dominante è il dinamismo. Dentro c’è materia e movimento”. I debiti di Brandolini nei confronti della grande scultura italiana del Novecento sono grandi e dichiarati. Francesco Somaini, Giancarlo Sangregorio, Emilio Scanavino, Ferdinando Moneta, tutti artisti che - salvo Scanavino per ovvie ragioni anagrafiche (morì nel 1986) - ha ben conosciuto e frequentato sin dai tempi in cui studiava all'Accademia delle Belle Arti di Brera.
La mostra al MilesiLab, open space di sperimentazione e incontri culturali, propone una quindicina di lavori di Brandolini tra sculture, disegni e pitture realizzare dal 1999 ad oggi. Tra essi, le sculture informali “Nel vento II” (2005), “Dinamiche orizzontali” (2007) e “Grande forma si apre” (1999), la tela “Kernunnos” (2003) dedicata all'omonima divinità celtica e le tavole “Autoritratto” (2008) e “Paesaggio” (2008).
*
ELENCO OPERE ESPOSTE
PITTURA - DISEGNI
P001
titolo: "Anno 0"
anno: 2001
tecnica: tecnica mista su carta
P002
titolo: "Kernunnos"
anno: 2003
tecnica: acrilico e pastello su tela
P003
titolo: "Autoritratto"
anno: 2008
tecnica: fotografia e ferro su tavola
P004
titolo: "Paesaggio"
anno: 2008
tecnica: ferro patinato e acrilico su tavola
SCULTURA
S001
titolo: "Grande forma si apre"
anno: 1999
tecnica: ferro, legno e pietra verde patinati
S002
titolo: "Nel vento II"
anno: 2005
tecnica: ferro e legno
S003
titolo: "moto orizzontale"
anno: 2006
tecnica: ferro, legno, terracotta
S004
titolo: "Improvvisa dinamica"
anno: 2006
tecnica: ferro e legno
S005
titolo: "Dinamiche orizzontali"
anno: 2007
tecnica: ferro, rame e legno
S006
titolo: "Divinità Celta"
anno: 2007
tecnica: ferro, legno e terracotta
S007
titolo: "Equilibri"
anno: 2007
tecnica: ferro, rame, legno e terracotta
Le sculture di Cristiano Brandolini,
tormento ed estasi tra forma e materia
di Elena Percivaldi*
“Il mio modo di fare arte… La mia arte sostanzialmente è informale. Nelle mie opere l’elemento dominante è il dinamismo. Dentro c’è materia e movimento”. I debiti di Cristiano Brandolini, classe 1972, nei confronti della grande scultura italiana del Novecento sono grandi e dichiarati. Francesco Somaini, Giancarlo Sangregorio, Emilio Scanavino, Ferdinando Moneta, tutti artisti che - salvo Scanavino per ovvie ragioni anagrafiche (morì nel 1986) - ha ben conosciuto e frequentato sin dai tempi in cui studiava all'Accademia delle Belle Arti di Brera.
Come nascano i suoi lavoro lo chiarisce egli stesso: “Durante la giornata può capitare di avere un momento di ispirazione. Allora prendo carta e china e butto giù tutto quello che mi sento in quel momento. Poi quei disegni rimangono lì… Quando mi sento di fare una scultura, non vado mai a riprendere questi studi per riprodurli tali e quali. Il seme è stato gettato, le idee sono state fissate sulla carta, ma queste stesse idee poi spontaneamente sgorgano di nuovo nel momento in cui lavoro alla scultura”. Un approccio che è di segno quasi del tutto opposto a quello, appunto, di Somaini, che invece nel suo diario bianco scriveva: “Raramente un motivo, un’idea è sorta in me d’improvviso, occasionalmente. Di norma ad uno stato di disagio, di inquietudine, per essere più sincero d’ira, è seguito un periodo fertilissimo in cui a gruppi le idee si sono affollate con tale rapidità che il disegno, il graffito erano l’unico mezzo di fermarle senza perderne troppe per la via”.
Brandolini ama restituire la vita agli oggetti che scolpisce. Il magma che informa è il più vario ed eventuale possibile: pezzi di legno o di ferro, pietre, scarti di lavorazione, meglio se trovati casualmente da qualche parte. Se la predilezione per il ferro nasce dalla professione del padre fabbro, quella per il legno e la pietra è per il giovane artista sepriese una predisposizione innata e una professione “altra”: la sua attività di archeologo lo ha infatti spinto ad approfondire il legame delle civiltà del passato con i materiali naturali, assimilando degli antichi artigiani anche l'approccio quasi “sacrale” alla materia stessa. Egli dunque ne esamina attentamente la forma e la soppesa. Ed ecco, pian piano, nascere l'idea di una forma finita, di un'opera compiuta. Anziché per sottrazione, l'artista lavora per aggiunte progressive, assemblando via via nuovi materiali. E il work in progress che ne consegue avviene di getto, ha un non so che di rapsodico. Anzi, di sciamanico. Mentre immagina, egli crea.
Lo vediamo bene nella scultura (e relativo studio) del 1997 intitolata “Grande martirio”, presente in mostra. Il riferimento, ovvio, è al “Grande martirio piagato” di Somaini (1960) e alla sua croce alata. Là però la vittima da immolare mancava, la croce-altare era vacante. Nell'opera di Brandolini è fisica e assume una drammatica e teatrale presenza. La figura modellata nel ferro – che sembra citare lo studio per una scultura del maestro comasco datata 1957 che ritorna peraltro ossessivamente anche altrove, come nell'opera “Nel vento II” – fa pensare a un Icaro che tenta di librarsi in volo ma resta invischiato nella materia calda del legno. E non riesce a decollare ma muore dibattendo le ali.
Del resto, Icaro è un tema affrontato dall'artista sepriese in un'altra scultura qui esposta. La caduta dal cielo del figlio di Dedalo è colta nel momento dell'impatto col terreno. La figura è levigata e richiama quella di un gabbiano o di una rondine, ma le ali rivolte verso il cielo, lievemente aperte in forma di croce, denunciano la sofferenza di un destino segnato dall'impossibilità della ribellione alle leggi di natura.
L’assemblaggio di materiali diversi nella stessa opera, accostando il ferro al legno, alla terracotta, alla pietra era tipico anche di un altro grande scultore, il milanese Giancarlo Sangregorio, da cui il giovane sepriese sembra assumere il valore intrinseco della creazione dell'opera d'arte, il tentativo cioè di andare “oltre” la materia: spaccare la pietra per andare “oltre” la pietra, così come bruciare il legno – ed è lo stesso Sangregorio a dircelo – è un gesto animista che restituisce al legno stesso la sua vita segreta e più autentica. L’artista si fa dunque medium del processo di trasformazione della materia ma, come un artigiano antico, non lo determina.
La materia informe accostata, per contrasto, a elementi puliti e geometrici si unisce in altri lavori alla gestualità e al dinamismo vitalistico della forma tipico di Scanavino. Dal quale Brandolini eredita soprattutto l'ossessione per i nodi, enigma da sciogliere o mistero senza inizio né fine, simbolo la cui tradizione, per restare in Occidente, si declina dalle antichissime pietre tombali nordiche agli intrecci di Salomone, dai nodi celtici e “barbarici” onnipresenti nella scultura romanica a quelli di Leonardo e di Paul Klee.
Ma se nelle opere di Brandolini è ben presente il passato, con tutto il suo adeguato carico di perizia artigiana, potremmo definire “futurista” il suo utilizzo dell’acciaio inox come uno specchio, pulito e lineare, che si contrappone alla materia grigia del ferro. Futurista e calderiano. E non ci sbagliamo perché futurista sui generis e amante di Calder fu l'ultimo grande maestro del nostro artista, Ferdinando Moneta. Che, per sua stessa ammissione, partendo dalla materia non intende liberarne le forme ma farle catturare dallo spazio, “ridisegnandole con le sue bande che sono colore nei quadri e nastri d'acciaio, sonori e riflettenti, nelle strutture scultoree”.
Parlavamo all'inizio dei debiti, riconosciuti da Brandolini, nei confronti della grande scultura del Novecento. Sono certo molti. Ma questi debiti diventano crediti perché, dopo aver compiutamente assimilato dai suoi maestri il linguaggio e lo stile, l'artista sepriense riesce a trasformarlo, come Efesto, in qualcosa di nuovo, di vivo e di pulsante. Con qualche decisiva inquietudine.
* Critico d'arte, membro dell'AICA - International Association of Art Critics.
“Brandolini ama restituire la vita agli oggetti che scolpisce. Il magma che informa è il più vario ed eventuale possibile: pezzi di legno o di ferro, pietre, scarti di lavorazione, meglio se trovati casualmente da qualche parte. Se la predilezione per il ferro nasce dalla professione del padre fabbro, quella per il legno e la pietra è per il giovane artista sepriese una predisposizione innata e una professione “altra”: la sua attività di archeologo lo ha infatti spinto ad approfondire il legame delle civiltà del passato con i materiali naturali, assimilando degli antichi artigiani anche l'approccio quasi “sacrale” alla materia stessa. Egli dunque ne esamina attentamente la forma e la soppesa. Ed ecco, pian piano, nascere l'idea di una forma finita, di un'opera compiuta. Anziché per sottrazione, l'artista lavora per aggiunte progressive, assemblando via via nuovi materiali. E il work in progress che ne consegue avviene di getto, ha un non so che di rapsodico. Anzi, di sciamanico. Mentre immagina, egli crea” (E. Percivaldi, presentazione critica alla mostra personale tenutasi a Verbania nel novembre 2009).
Cristiano Brandolini (Busto Arsizio, Varese, 1972) si è diplomato presso il Liceo artistico “A. Frattini” di Varese e si è laureato con lode all’Accademia di Belle Arti di Brera in Milano. Ha studiato restauro con Cesare Chirici, scultura con Giovanni Conservo e Geremia Renzi, incisione con Mario Benedetti, grafica e design con Davide Boriani e infine pittura, mosaico e vetrata con Ulrico Schettini Montefiore. Ha conosciuto e frequentato vari artisti tra cui gli scultori Francesco Somaini, Giancarlo Sangregorio Ferdinando Moneta e Giancarlo Lepore, traendone ispirazione per i suoi lavori. Nel suo curriculum figurano mostre a Milano, Vicenza, Pordenone, Padova, Venezia, Varese, Genova, Como, Bolzano e in varie località della Turchia. Sue opere sono presenti in varie collezioni pubbliche e private italiane e internazionali, tra le quali il Museo Civico di Grafica di Brunico (Bolzano), il Civico Museo della Grafica di Francavilla al Mare (Chieti), i Comuni di Gorla Maggiore, Arsago Seprio e Olgiate Olona (Varese), il Casal Cultural “El Maset” di Sant Carles de la Ràpita (Spagna), il Ministero della Cultura Turco e la Galleria di Pittura e Scultura Contemporanee di Ankara (Turchia).
Amante del passato e intellettualmente molto versatile, Cristiano si è presto avvicinato anche al mondo dell'Archeologia, che ha studiato all’Università Statale di Milano. Come disegnatore archeologico, grafico e illustratore collabora da anni con la Soprintendenza Archeologica e con vari musei della Lombardia, e dal 1996 è membro della Commissione di Gestione e del Gruppo Archeologico del Civico Museo Archeologico di Arsago Seprio (Va). La passione per l'archeologia è diventata per lui anche uno stile di vita da quando ha contribuito a fondare l'Associazione Storico Sportiva “Sagitta Barbarica”, compagnia d'armi e arcieria specializzata in sperimentazione, didattica e living history del periodo dall'Età del Ferro all'Alto Medioevo. Da allora Cristiano affianca alle conferenze, agli scavi archeologici e ai corsi e laboratori di didattica e archeologia sperimentale presso scuole e musei nella provincia di Varese, una vasta attività nel campo della rievocazione storica. Oggi vive e lavora ad Arsago Seprio, a pochi passi dall'antico castrum di Castelseprio nelle cui rovine ha spesso scavato alla ricerca di tracce del passato. Sito web: http://www.branart.com/
NOTE A MARGINE DELLA MOSTRA:
LA FESTIVITA' DI IMBOLC
Per la mostra di Cristiano Brandolini al MilesiLab di Monza si è scelto un periodo particolare, i primi dieci giorni di febbraio, perché cadono in corrispondenza di una delle quattro date più significative dell’anno celtico: la festa di Imbolc.
Questa festa segnava l’inizio della primavera: a febbraio infatti sono visibili i primi segni di risveglio della natura dopo il lungo periodo invernale. Era un momento gioioso, da celebrare con canti e riti propiziatori per tutelare nel modo migliore i prossimi raccolti. I riti, a differenza delle altre ricorrenze, erano molto sobri: niente grandi banchetti né sacrifici, il centro dell’attenzione era riservato dalle pecore, che proprio ad Imbolc iniziavano il periodo dell’allattamento. Una ricorrenza, dunque, di tipo agreste, profondamente legata – come del resto anche le altre feste dell’anno celtico – ai ritmi della vita rurale e alla natura. Gli altri punti fermi dell’anno presso i Celti erano infatti Samain (primo novembre), che segnava l’inizio dell’inverno e in occasione del quale il bestiame veniva radunato e rinchiuso nei recinti fino a primavera; Beltaine (primo maggio), quando le mandrie venivano ricondotte ai pascoli; infine Lugnasad (primo agosto) quando si contraevano i matrimoni e i giovani si sfidavano in interminabili gare di abilità e forza a cavallo.
La festa di Imbolc era connessa alla dea celtica Brigit, la “donna saggia”. Era invocata come dea della fertilità e del fuoco, ma le si attribuivano svariati poteri, tra cui quello di saper guarire uomini e animali dalle malattie. Brigit (ma anche Brighid oppure Birgit, come veniva chiamata in altre zone) era venerata soprattutto in Irlanda. Quando il Cristianesimo si diffuse tra le popolazioni dell’isola, si operò una lenta sovrapposizione tra la figura della dea e quella di Santa Brigida, vissuta appunto in Irlanda tra il V e il VI secolo e fondatrice intorno al 500 dell’abbazia di Kildare. Le caratteristiche della santa si fusero con quelle della dea, al punto che le due figure divennero praticamente indistinguibili l’una dall’altra, tanto più che la festa di santa Brigida fu fissata il primo febbraio. Già nel VI secolo infatti Cogitosus, l’autore della “Vita” di santa Brigida, la presenta quasi come fosse una fata, mettendone in rilievo la miracolosa capacità di intervento sulle forze della natura.
Gli attributi benefici e propiziatori di Brigit-Brigida sono evidenti nel culto a lei dedicato nel Nord Europa e nelle Isole Britanniche. Era usanza sin da tempi remotissimi, la sera precedente la festa vera e propria, preparare un giaciglio di grano e fieno sul quale venivano stese delle coperte. Quando tutto era pronto, si invocava l’arrivo di Brigit e la si pregava di trascorrere la notte sul giaciglio. Questa pratica rituale era in uso soprattutto nell’Isola di Man e nelle Isole Ebridi, dove peraltro la dea-santa era invocata anche dalle partorienti.
Gli antichi testi irlandesi parlano di Brigit anche come patrona della poesia e del sapere: una sorta di Minerva celtica, insomma. Il suo nome è etimologicamente riconducibile al termine “Briganti”, “l’Esaltata”, poi latinizzato in “Brigantia”, dea protettrice della tribù britannica dei Brigantes; poiché questo nome – e le sue varianti – ricorrono pressoché ovunque nei toponimi di tutta l’Europa occidentale, è evidente che il suo culto era assai diffuso e radicato. Forse anche il nome stesso della Brianza tradisce la presenza di questa dea sul territorio, soprattutto se si tiene conto della diffusione molto ampia di altre divinità panceltiche come Apollo Maponos e le Matrone.
La Chiesa, vista l’omonimia tra la dea e la santa celebrata nello stesso giorno, trasformò Imbolc nella festa della Candelora, fissandola il 2 febbraio. Questa festa era la celebrazione della purificazione della Vergine al Tempio, che secondo la legge mosaica era avvenuta quaranta giorni dopo la nascita di Gesù. Prima del rito, il sacerdote aveva il compito di benedire le candele, simbolo della luce portata da Cristo sulla terra. Pare che essa fosse celebrata in Oriente già nel IV secolo; tuttavia fu istituita ufficialmente solo nel 492 da papa Gelasio I e si diffuse in Occidente a partire dal VII secolo, proprio in concomitanza con i grandi sforzi di evangelizzazione che la Chiesa cattolica mise in atto sul Continente, nelle Isole Britanniche e in Irlanda.
L’operazione di cristianizzazione di feste e rituali pagani solo in pochi casi è riuscita completamente a svuotarne il significato. A distanza di secoli, reminescenze di riti celtici si ritrovano ancora oggi in molte ricorrrenze: i falò di Ognissanti e di Calendimaggio sono la prosecuzione - sotto diverso nome – degli antichi rituali di Samain e di Beltaine; nel nostro Ferragosto – seppur spostato di qualche giorno – rivive lo stesso spirito presente nella festa di Lugnasad; nella Candelora c’è ancora qualche barlume di quel che un tempo fu la ricorrenza di Imbolc. Segno che le radici profonde nopn gelano. Al limite, si arricchiscono di nuova linfa vitale.
ELENA PERCIVALDI
Il titolo della mostra, “Sa-manu. Estasi dell'informale”, sintetizza il modo di procedere dell'artista. Brandolini ama restituire la vita agli oggetti che scolpisce. Il magma che informa è il più vario ed eventuale possibile: pezzi di legno o di ferro, pietre, scarti di lavorazione, meglio se trovati casualmente da qualche parte.
Se la predilezione per il ferro nasce dalla professione del padre fabbro, quella per il legno e la pietra è per il giovane artista sepriese una predisposizione innata e una professione “altra”: la sua attività di archeologo lo ha infatti spinto ad approfondire il legame delle civiltà del passato con i materiali naturali, assimilando degli antichi artigiani anche l'approccio quasi “sacrale” - sciamanico appunto - alla materia stessa. “Egli dunque - scrive la curatrice della mostra Elena Percivaldi - esamina attentamente la forma e la soppesa. Ed ecco, pian piano, nascere l'idea di una forma finita, di un'opera compiuta. Anziché per sottrazione, l'artista lavora per aggiunte progressive, assemblando via via nuovi materiali. E il work in progress che ne consegue avviene di getto, ha un non so che di rapsodico. Anzi, di sciamanico. Mentre immagina, egli crea”.
“La mia arte sostanzialmente è informale. Nelle mie opere l’elemento dominante è il dinamismo. Dentro c’è materia e movimento”. I debiti di Brandolini nei confronti della grande scultura italiana del Novecento sono grandi e dichiarati. Francesco Somaini, Giancarlo Sangregorio, Emilio Scanavino, Ferdinando Moneta, tutti artisti che - salvo Scanavino per ovvie ragioni anagrafiche (morì nel 1986) - ha ben conosciuto e frequentato sin dai tempi in cui studiava all'Accademia delle Belle Arti di Brera.
La mostra al MilesiLab, open space di sperimentazione e incontri culturali, propone una quindicina di lavori di Brandolini tra sculture, disegni e pitture realizzare dal 1999 ad oggi. Tra essi, le sculture informali “Nel vento II” (2005), “Dinamiche orizzontali” (2007) e “Grande forma si apre” (1999), la tela “Kernunnos” (2003) dedicata all'omonima divinità celtica e le tavole “Autoritratto” (2008) e “Paesaggio” (2008).
*
ELENCO OPERE ESPOSTE
PITTURA - DISEGNI
P001
titolo: "Anno 0"
anno: 2001
tecnica: tecnica mista su carta
P002
titolo: "Kernunnos"
anno: 2003
tecnica: acrilico e pastello su tela
P003
titolo: "Autoritratto"
anno: 2008
tecnica: fotografia e ferro su tavola
P004
titolo: "Paesaggio"
anno: 2008
tecnica: ferro patinato e acrilico su tavola
SCULTURA
S001
titolo: "Grande forma si apre"
anno: 1999
tecnica: ferro, legno e pietra verde patinati
S002
titolo: "Nel vento II"
anno: 2005
tecnica: ferro e legno
S003
titolo: "moto orizzontale"
anno: 2006
tecnica: ferro, legno, terracotta
S004
titolo: "Improvvisa dinamica"
anno: 2006
tecnica: ferro e legno
S005
titolo: "Dinamiche orizzontali"
anno: 2007
tecnica: ferro, rame e legno
S006
titolo: "Divinità Celta"
anno: 2007
tecnica: ferro, legno e terracotta
S007
titolo: "Equilibri"
anno: 2007
tecnica: ferro, rame, legno e terracotta
Le sculture di Cristiano Brandolini,
tormento ed estasi tra forma e materia
di Elena Percivaldi*
“Il mio modo di fare arte… La mia arte sostanzialmente è informale. Nelle mie opere l’elemento dominante è il dinamismo. Dentro c’è materia e movimento”. I debiti di Cristiano Brandolini, classe 1972, nei confronti della grande scultura italiana del Novecento sono grandi e dichiarati. Francesco Somaini, Giancarlo Sangregorio, Emilio Scanavino, Ferdinando Moneta, tutti artisti che - salvo Scanavino per ovvie ragioni anagrafiche (morì nel 1986) - ha ben conosciuto e frequentato sin dai tempi in cui studiava all'Accademia delle Belle Arti di Brera.
Come nascano i suoi lavoro lo chiarisce egli stesso: “Durante la giornata può capitare di avere un momento di ispirazione. Allora prendo carta e china e butto giù tutto quello che mi sento in quel momento. Poi quei disegni rimangono lì… Quando mi sento di fare una scultura, non vado mai a riprendere questi studi per riprodurli tali e quali. Il seme è stato gettato, le idee sono state fissate sulla carta, ma queste stesse idee poi spontaneamente sgorgano di nuovo nel momento in cui lavoro alla scultura”. Un approccio che è di segno quasi del tutto opposto a quello, appunto, di Somaini, che invece nel suo diario bianco scriveva: “Raramente un motivo, un’idea è sorta in me d’improvviso, occasionalmente. Di norma ad uno stato di disagio, di inquietudine, per essere più sincero d’ira, è seguito un periodo fertilissimo in cui a gruppi le idee si sono affollate con tale rapidità che il disegno, il graffito erano l’unico mezzo di fermarle senza perderne troppe per la via”.
Brandolini ama restituire la vita agli oggetti che scolpisce. Il magma che informa è il più vario ed eventuale possibile: pezzi di legno o di ferro, pietre, scarti di lavorazione, meglio se trovati casualmente da qualche parte. Se la predilezione per il ferro nasce dalla professione del padre fabbro, quella per il legno e la pietra è per il giovane artista sepriese una predisposizione innata e una professione “altra”: la sua attività di archeologo lo ha infatti spinto ad approfondire il legame delle civiltà del passato con i materiali naturali, assimilando degli antichi artigiani anche l'approccio quasi “sacrale” alla materia stessa. Egli dunque ne esamina attentamente la forma e la soppesa. Ed ecco, pian piano, nascere l'idea di una forma finita, di un'opera compiuta. Anziché per sottrazione, l'artista lavora per aggiunte progressive, assemblando via via nuovi materiali. E il work in progress che ne consegue avviene di getto, ha un non so che di rapsodico. Anzi, di sciamanico. Mentre immagina, egli crea.
Lo vediamo bene nella scultura (e relativo studio) del 1997 intitolata “Grande martirio”, presente in mostra. Il riferimento, ovvio, è al “Grande martirio piagato” di Somaini (1960) e alla sua croce alata. Là però la vittima da immolare mancava, la croce-altare era vacante. Nell'opera di Brandolini è fisica e assume una drammatica e teatrale presenza. La figura modellata nel ferro – che sembra citare lo studio per una scultura del maestro comasco datata 1957 che ritorna peraltro ossessivamente anche altrove, come nell'opera “Nel vento II” – fa pensare a un Icaro che tenta di librarsi in volo ma resta invischiato nella materia calda del legno. E non riesce a decollare ma muore dibattendo le ali.
Del resto, Icaro è un tema affrontato dall'artista sepriese in un'altra scultura qui esposta. La caduta dal cielo del figlio di Dedalo è colta nel momento dell'impatto col terreno. La figura è levigata e richiama quella di un gabbiano o di una rondine, ma le ali rivolte verso il cielo, lievemente aperte in forma di croce, denunciano la sofferenza di un destino segnato dall'impossibilità della ribellione alle leggi di natura.
L’assemblaggio di materiali diversi nella stessa opera, accostando il ferro al legno, alla terracotta, alla pietra era tipico anche di un altro grande scultore, il milanese Giancarlo Sangregorio, da cui il giovane sepriese sembra assumere il valore intrinseco della creazione dell'opera d'arte, il tentativo cioè di andare “oltre” la materia: spaccare la pietra per andare “oltre” la pietra, così come bruciare il legno – ed è lo stesso Sangregorio a dircelo – è un gesto animista che restituisce al legno stesso la sua vita segreta e più autentica. L’artista si fa dunque medium del processo di trasformazione della materia ma, come un artigiano antico, non lo determina.
La materia informe accostata, per contrasto, a elementi puliti e geometrici si unisce in altri lavori alla gestualità e al dinamismo vitalistico della forma tipico di Scanavino. Dal quale Brandolini eredita soprattutto l'ossessione per i nodi, enigma da sciogliere o mistero senza inizio né fine, simbolo la cui tradizione, per restare in Occidente, si declina dalle antichissime pietre tombali nordiche agli intrecci di Salomone, dai nodi celtici e “barbarici” onnipresenti nella scultura romanica a quelli di Leonardo e di Paul Klee.
Ma se nelle opere di Brandolini è ben presente il passato, con tutto il suo adeguato carico di perizia artigiana, potremmo definire “futurista” il suo utilizzo dell’acciaio inox come uno specchio, pulito e lineare, che si contrappone alla materia grigia del ferro. Futurista e calderiano. E non ci sbagliamo perché futurista sui generis e amante di Calder fu l'ultimo grande maestro del nostro artista, Ferdinando Moneta. Che, per sua stessa ammissione, partendo dalla materia non intende liberarne le forme ma farle catturare dallo spazio, “ridisegnandole con le sue bande che sono colore nei quadri e nastri d'acciaio, sonori e riflettenti, nelle strutture scultoree”.
Parlavamo all'inizio dei debiti, riconosciuti da Brandolini, nei confronti della grande scultura del Novecento. Sono certo molti. Ma questi debiti diventano crediti perché, dopo aver compiutamente assimilato dai suoi maestri il linguaggio e lo stile, l'artista sepriense riesce a trasformarlo, come Efesto, in qualcosa di nuovo, di vivo e di pulsante. Con qualche decisiva inquietudine.
* Critico d'arte, membro dell'AICA - International Association of Art Critics.
“Brandolini ama restituire la vita agli oggetti che scolpisce. Il magma che informa è il più vario ed eventuale possibile: pezzi di legno o di ferro, pietre, scarti di lavorazione, meglio se trovati casualmente da qualche parte. Se la predilezione per il ferro nasce dalla professione del padre fabbro, quella per il legno e la pietra è per il giovane artista sepriese una predisposizione innata e una professione “altra”: la sua attività di archeologo lo ha infatti spinto ad approfondire il legame delle civiltà del passato con i materiali naturali, assimilando degli antichi artigiani anche l'approccio quasi “sacrale” alla materia stessa. Egli dunque ne esamina attentamente la forma e la soppesa. Ed ecco, pian piano, nascere l'idea di una forma finita, di un'opera compiuta. Anziché per sottrazione, l'artista lavora per aggiunte progressive, assemblando via via nuovi materiali. E il work in progress che ne consegue avviene di getto, ha un non so che di rapsodico. Anzi, di sciamanico. Mentre immagina, egli crea” (E. Percivaldi, presentazione critica alla mostra personale tenutasi a Verbania nel novembre 2009).
Cristiano Brandolini (Busto Arsizio, Varese, 1972) si è diplomato presso il Liceo artistico “A. Frattini” di Varese e si è laureato con lode all’Accademia di Belle Arti di Brera in Milano. Ha studiato restauro con Cesare Chirici, scultura con Giovanni Conservo e Geremia Renzi, incisione con Mario Benedetti, grafica e design con Davide Boriani e infine pittura, mosaico e vetrata con Ulrico Schettini Montefiore. Ha conosciuto e frequentato vari artisti tra cui gli scultori Francesco Somaini, Giancarlo Sangregorio Ferdinando Moneta e Giancarlo Lepore, traendone ispirazione per i suoi lavori. Nel suo curriculum figurano mostre a Milano, Vicenza, Pordenone, Padova, Venezia, Varese, Genova, Como, Bolzano e in varie località della Turchia. Sue opere sono presenti in varie collezioni pubbliche e private italiane e internazionali, tra le quali il Museo Civico di Grafica di Brunico (Bolzano), il Civico Museo della Grafica di Francavilla al Mare (Chieti), i Comuni di Gorla Maggiore, Arsago Seprio e Olgiate Olona (Varese), il Casal Cultural “El Maset” di Sant Carles de la Ràpita (Spagna), il Ministero della Cultura Turco e la Galleria di Pittura e Scultura Contemporanee di Ankara (Turchia).
Amante del passato e intellettualmente molto versatile, Cristiano si è presto avvicinato anche al mondo dell'Archeologia, che ha studiato all’Università Statale di Milano. Come disegnatore archeologico, grafico e illustratore collabora da anni con la Soprintendenza Archeologica e con vari musei della Lombardia, e dal 1996 è membro della Commissione di Gestione e del Gruppo Archeologico del Civico Museo Archeologico di Arsago Seprio (Va). La passione per l'archeologia è diventata per lui anche uno stile di vita da quando ha contribuito a fondare l'Associazione Storico Sportiva “Sagitta Barbarica”, compagnia d'armi e arcieria specializzata in sperimentazione, didattica e living history del periodo dall'Età del Ferro all'Alto Medioevo. Da allora Cristiano affianca alle conferenze, agli scavi archeologici e ai corsi e laboratori di didattica e archeologia sperimentale presso scuole e musei nella provincia di Varese, una vasta attività nel campo della rievocazione storica. Oggi vive e lavora ad Arsago Seprio, a pochi passi dall'antico castrum di Castelseprio nelle cui rovine ha spesso scavato alla ricerca di tracce del passato. Sito web: http://www.branart.com/
NOTE A MARGINE DELLA MOSTRA:
LA FESTIVITA' DI IMBOLC
Per la mostra di Cristiano Brandolini al MilesiLab di Monza si è scelto un periodo particolare, i primi dieci giorni di febbraio, perché cadono in corrispondenza di una delle quattro date più significative dell’anno celtico: la festa di Imbolc.
Questa festa segnava l’inizio della primavera: a febbraio infatti sono visibili i primi segni di risveglio della natura dopo il lungo periodo invernale. Era un momento gioioso, da celebrare con canti e riti propiziatori per tutelare nel modo migliore i prossimi raccolti. I riti, a differenza delle altre ricorrenze, erano molto sobri: niente grandi banchetti né sacrifici, il centro dell’attenzione era riservato dalle pecore, che proprio ad Imbolc iniziavano il periodo dell’allattamento. Una ricorrenza, dunque, di tipo agreste, profondamente legata – come del resto anche le altre feste dell’anno celtico – ai ritmi della vita rurale e alla natura. Gli altri punti fermi dell’anno presso i Celti erano infatti Samain (primo novembre), che segnava l’inizio dell’inverno e in occasione del quale il bestiame veniva radunato e rinchiuso nei recinti fino a primavera; Beltaine (primo maggio), quando le mandrie venivano ricondotte ai pascoli; infine Lugnasad (primo agosto) quando si contraevano i matrimoni e i giovani si sfidavano in interminabili gare di abilità e forza a cavallo.
La festa di Imbolc era connessa alla dea celtica Brigit, la “donna saggia”. Era invocata come dea della fertilità e del fuoco, ma le si attribuivano svariati poteri, tra cui quello di saper guarire uomini e animali dalle malattie. Brigit (ma anche Brighid oppure Birgit, come veniva chiamata in altre zone) era venerata soprattutto in Irlanda. Quando il Cristianesimo si diffuse tra le popolazioni dell’isola, si operò una lenta sovrapposizione tra la figura della dea e quella di Santa Brigida, vissuta appunto in Irlanda tra il V e il VI secolo e fondatrice intorno al 500 dell’abbazia di Kildare. Le caratteristiche della santa si fusero con quelle della dea, al punto che le due figure divennero praticamente indistinguibili l’una dall’altra, tanto più che la festa di santa Brigida fu fissata il primo febbraio. Già nel VI secolo infatti Cogitosus, l’autore della “Vita” di santa Brigida, la presenta quasi come fosse una fata, mettendone in rilievo la miracolosa capacità di intervento sulle forze della natura.
Gli attributi benefici e propiziatori di Brigit-Brigida sono evidenti nel culto a lei dedicato nel Nord Europa e nelle Isole Britanniche. Era usanza sin da tempi remotissimi, la sera precedente la festa vera e propria, preparare un giaciglio di grano e fieno sul quale venivano stese delle coperte. Quando tutto era pronto, si invocava l’arrivo di Brigit e la si pregava di trascorrere la notte sul giaciglio. Questa pratica rituale era in uso soprattutto nell’Isola di Man e nelle Isole Ebridi, dove peraltro la dea-santa era invocata anche dalle partorienti.
Gli antichi testi irlandesi parlano di Brigit anche come patrona della poesia e del sapere: una sorta di Minerva celtica, insomma. Il suo nome è etimologicamente riconducibile al termine “Briganti”, “l’Esaltata”, poi latinizzato in “Brigantia”, dea protettrice della tribù britannica dei Brigantes; poiché questo nome – e le sue varianti – ricorrono pressoché ovunque nei toponimi di tutta l’Europa occidentale, è evidente che il suo culto era assai diffuso e radicato. Forse anche il nome stesso della Brianza tradisce la presenza di questa dea sul territorio, soprattutto se si tiene conto della diffusione molto ampia di altre divinità panceltiche come Apollo Maponos e le Matrone.
La Chiesa, vista l’omonimia tra la dea e la santa celebrata nello stesso giorno, trasformò Imbolc nella festa della Candelora, fissandola il 2 febbraio. Questa festa era la celebrazione della purificazione della Vergine al Tempio, che secondo la legge mosaica era avvenuta quaranta giorni dopo la nascita di Gesù. Prima del rito, il sacerdote aveva il compito di benedire le candele, simbolo della luce portata da Cristo sulla terra. Pare che essa fosse celebrata in Oriente già nel IV secolo; tuttavia fu istituita ufficialmente solo nel 492 da papa Gelasio I e si diffuse in Occidente a partire dal VII secolo, proprio in concomitanza con i grandi sforzi di evangelizzazione che la Chiesa cattolica mise in atto sul Continente, nelle Isole Britanniche e in Irlanda.
L’operazione di cristianizzazione di feste e rituali pagani solo in pochi casi è riuscita completamente a svuotarne il significato. A distanza di secoli, reminescenze di riti celtici si ritrovano ancora oggi in molte ricorrrenze: i falò di Ognissanti e di Calendimaggio sono la prosecuzione - sotto diverso nome – degli antichi rituali di Samain e di Beltaine; nel nostro Ferragosto – seppur spostato di qualche giorno – rivive lo stesso spirito presente nella festa di Lugnasad; nella Candelora c’è ancora qualche barlume di quel che un tempo fu la ricorrenza di Imbolc. Segno che le radici profonde nopn gelano. Al limite, si arricchiscono di nuova linfa vitale.
ELENA PERCIVALDI
03
febbraio 2011
Cristiano Brandolini – Sa-manu. Estasi dell’informale
Dal 03 all'undici febbraio 2011
arte contemporanea
Location
MILESILAB
Monza, Via Giuseppe Sirtori, 1, (Milano)
Monza, Via Giuseppe Sirtori, 1, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a venerdì dalle 15 alle 18
Vernissage
3 Febbraio 2011, ore 18.30
Sito web
www.branart.com
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