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Dalla fotografia d’arte all’arte della fotografia
17 gli artisti selezionati da Fabio Castelli, curatore della mostra, ai quali è stato chiesto di presentare una serie di 8 lavori, ispirati a un’immagine del passato, al concetto di memoria, al rapporto spazio/tempo, alla rappresentazione di una realtà, che traessero spunto dall’immenso Archivio ‘Fratelli Alinari’.
Comunicato stampa
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L’Assessorato alla Cultura – Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri del Comune di Verona, Alinari 24ORE e ArtVerona - fiera d’arte moderna e contemporanea, in collaborazione con la Regione Veneto, presentano una grande mostra per annunciare al pubblico il nuovo percorso che la neo costituita Alinari 24ORE si accinge a percorrere anche nel mondo della fotografia contemporanea e della sua arte.
17 gli artisti selezionati da Fabio Castelli, curatore della mostra, ai quali è stato chiesto di presentare una serie di 8 lavori, ispirati a un’immagine del passato, al concetto di memoria, al rapporto spazio/tempo, alla rappresentazione di una realtà, che traessero spunto dall’immenso Archivio 'Fratelli Alinari’.
Un modo per gettare un ponte ideale tra un passato ricco di tradizione e storia e un futuro che si vuole affrontare con la volontà di viverlo da protagonisti.
La scelta degli artisti è stata fatta coinvolgendo sia chi proviene da una cultura eminentemente fotografica sia chi utilizza la fotografia come uno dei diversi linguaggi espressivi.
In questa mostra si vuole offrire la possibilità di poter cogliere le modalità con le quali le due esperienze di ricerca perseguano, come obiettivo comune, l’intenzione di creare arte.
Ogni progetto concepito da ciascun autore e artista, vive autonomamente, e il loro insieme vuole essere una carrellata che dia il senso del poliedrico mondo che il mezzo fotografico ci permette di investigare e che Alinari 24ORE si accinge a voler presentare dando ai collezionisti di fotografia e di arte contemporanea il piacere e la certezza di poter possedere opere garantite per la loro qualità, autenticità e durata nel tempo.
A questa prima mostra tutto italiana, seguiranno esposizioni che coinvolgeranno presenze da ogni parte del mondo, là dove troveremo la qualità e la volontà di realizzare proficui scambi di cultura e conoscenza.
Dalla fotografia d’arte all’arte della fotografia:
con Alinari 24ORE l’immagine si fa arte
mostra a cura di Fabio Castelli
Giampietro Agostini, Frontiere della memoria, Tagliata – 2006/2009
Il paesaggio non esiste in natura.
Quello che chiamiamo paesaggio è un prodotto dell'azione dell'uomo sulla natura o almeno un prodotto del suo sguardo, filtrato dalla cultura e dalla memoria.
Per secoli il confine dello spazio umano sulle montagne è stato il villaggio e le sue estensione: il territorio usato per la monticazione o per il pascolo di pecore e capre. Questa situazione cambia rapidamente con lo scoppio della Grande Guerra che per la prima volta porta centinaia di migliaia di uomini a trascorrere tre lunghi anni in luoghi inospitali e impervi, spesso in condizioni ambientali estreme. Vengono costruite trincee, fortificazioni, baracche, ricoveri, strade, sentieri e quando sulle vette ritorna il silenzio il paesaggio è fortemente modificato. Il passare degli anni e le condizioni naturali anno dopo anno contribuiscono a cancellare quelle opere, trasformandole talvolta in labili tracce.
Le foto di Giampietro Agostini ci stupiscono perché si situano in un contesto completamente diverso. Non cercano di riprodurre quello scenario che soldati e fotografi descrivono. Non ritroviamo qui i loro sguardi e le loro emozioni, le loro paure e felicità. È il paesaggio come lo vediamo oggi dove le opere degli uomini sono state riassorbite dalla natura: le strade sono tornate sentieri, i muri a secco pietre, mucchi di sassi, le baracche sfasciumi.
Al suo sguardo sembrano ruderi di una civiltà scomparsa e dimenticata che affiorano da un tempo indecifrabile. E là dove la grandezza degli spazi ha inghiottito l'opera degli uomini, dove le tracce si sono fatte più deboli e si scoprono solo a un secondo sguardo, queste sembrano l’opera persa nel paesaggio di un artista di arte natura. Della presenza di migliaia di uomini che hanno abitato le montagne oggi resta un segno sulla terra minimo e fugace come quelli compiuti di Andy Goldsworthy o David Nash.
Agostini sembra voler sostituire il paesaggio al paesaggio della memoria, richiamare l’attenzione sulla natura e non sull’opera dell’uomo, non sulle tracce dense di storia. Per questo le sue immagini danno la sensazione di sentirsi al confine: un confine che non è certamente quello dei belligeranti, ma il confine tra memoria e oblio, tra storia e natura, tra il tempo denso degli anni di guerra e il tempo sospeso della montagna e della vita. Paesaggi di frontiera che sono al tempo stesso le frontiere della memoria.
Massimo Libardi
Nunzio Battaglia, Milano, Piazzale Bologna – 2008/2009
Il progetto Alinari 24 ORE si compone di 2 fasi metodologiche che riflettono e accolgono la matrice culturale del grande Archivio fiorentino, riconoscendone il valore di giacimento dell'immaginario comune.
1. Il ciclo di riprese effettuate da Nunzio Battaglia a Milano, nella primavera 2008, nasce da due impossibilità: quella di non poter rappresentare il ricordo delle natie primavere mediterranee nella patria adottiva e l'aver rinunciato -per circa un ventennio- a fotografare spazi e vedute della metropoli milanese. A partire da questa consapevolezza, l'autore indaga spazi emblematici della metropoli: l'essenza cromatica delle piantumazioni e le tassellazioni di noti skyline divengono rituale espressivo e controcanto della città che appare. Le opere ridisegnano l'oggettiva connotazione delle aree urbane, riportandole ad un immaginario ultra-visivo.
2. L'autore interroga l'Archivio Alinari, individuando le matrici dell'immaginario di cui siamo intrisi. Affiorano nell'Achivio on-line alla voce Milano, i giacimenti della Pinacoteca di Brera, alcune keywords che si confondono in sconfinamenti di codici dove appaiono Leonardo, Raffaello, il Rinascimento.
Nasce la selezione delle 8 opere in mostra, traccia di un territorio dell'apparire dove progetto documento e trasformazione si sovrappongono in icone del desiderio. La dichiarazione disciplinare è precisa: con lo sguardo posso immaginare spazio e tempo, l'opera diventa l'arca della mutazione, strumento di salvezza.
Nunzio Battaglia
Francesca De Pieri, Cave di Bosco 164, 2009
Realizzare scatti all’interno di Cave significa muoversi in territori circoscritti e confinanti con grandi reti autostradali, non ultima la Cava di Martellago (VE), vicinissima al passante di Mestre. Sono luoghi che resistono a cambiamenti, snaturalizzazioni, abbandoni e riconversioni e che, nonostante i continui passaggi forzati, celano una straordinaria bellezza che aumenta di pari passo con le minacce che su di esse incombono. Le Cave sono un mistero, sono luoghi in cui ci si trova di fronte a scenari che per un osservatore distratto abitano lo spazio limitato da una cornice, ma che vivono oltre quei limitati confini dando vita a forme e tonalità che lasciano sognare l’osservatore attento per qualche istante in più. La forza di Cave sta quindi nel mistero e a riguardo, viaggiando all’interno dell’Archivio Alinari, famigliare a Cave è il dossier “Un soffio di mistero”, in cui si trova "Autunno” di Vincenzo Balocchi. Stupenda per il senso di forte e velato mistero che emana l’atmosfera di questa immagine, vicino a quel senso che hanno per me le immagini della serie Cave e al senso stesso del mio percorso. Balocchi ritrae la natura con linguaggio contemporaneo permettendo così ad immagini realizzate nel nostro tempo di inserirsi in un dialogo da lui iniziato.
Francesca De Pieri
Paola Di Bello, da Video Rom, Milano-Romania #13 - 1998/2009
In collaborazione con Marco Biraghi
Sempre più spesso scopriamo il gusto della conoscenza mediato da un archivio d'immagini, un luogo virtuale dove si deposita il sapere, la cui fruizione ci riserva continue sorprese date dalle infinite combinazioni di senso in esso contenute. Paola Di Bello racconta un'esperienza vissuta utilizzando la fotografia come oggetto di scambio fra un popolo diviso geograficamente ma unito da forti legami culturali e affettivi. Senza offrire interpretazioni, l'artista documenta una comunità di Rom che vive nella periferia di Milano; persone, luoghi, oggetti, pronti per essere riutilizzati come strumento relazionale. L'operazione successiva, infatti, è stata quella di portare questa raccolta di fotografie a Costei, cittadina di campagna vicino a Timisoara in Romania, dove vivono i parenti dei Rom residenti in Italia. Qui l'operazione si è ripetuta fotografando i componenti della comunità locale e riportando i loro ritratti a Milano. Come spesso accade calandosi in una raccolta d'immagini, anche in questo caso, l'esperienza generata dalla fruizione e dallo scambio di più fotografie ha portato ad una “scoperta”: Milano assomiglia a Costei. Il paragone fotografico mostra come le periferie delle nostre città si siano modificate in seguito alla presenza di nomadi, più di quanto la vita degli abitanti di queste comunità sia cambiata a contatto con la nostra cultura.
Luca Panaro
Luigi Erba, Paesaggio#1 (Lecco Pescarenico) – 2008/2009
Questo lavoro di “Paesaggi” e “Ex Paesaggi” nasce da una diversa presa di coscienza del quotidiano nel preciso momento in cui nella mia città natale di Lecco sta progressivamente sparendo ogni traccia di edificio industriale che ne aveva totalmente espresso, con la lavorazione del ferro, il tessuto produttivo e l'anima. Tessuto urbano che entrava nell'assuefazione dell'olfatto, dell'udito e dello sguardo, che comunque preferiva andare oltre, sulle montagne circostanti, ma anche nelle visioni lacustri nel contesto di un immaginario che fu qui anche dei Brogi e degli Alinari. Ed è proprio in tale frangente di passaggio, di sparizioni, di improvvisi e provvisori “ruderi-sculture” delle architetture industriali è scattato il recupero di quella memoria quotidiana che era là, al di sotto della pelle. E' così che questi edifici, resti di edifici, nel loro passaggio vengono vissuti oggi come delle sindoni, rappresentati nell'immaginario, spesso come fantasmi di uno scenario del passato, ma che solo ora si concretizza in un particolare rapporto di sogno e memoria. La stessa cosa !
L'occasione di questo lavoro è stata poi data dall'aver ritrovato una rara edizione di un elegante volume tirato nel 1937 in 250 copie sulle Acciaierie del Caleotto, il cuore del territorio, con le immagini di un artistico ed intelligente lavoro fotografico di Umberto Paramatti, ad una ad una incollate nelle pagine. Una rivelazione che ne rende possibile il rapporto. Quello che aspettavo. L'avevo trovato l'unico mattino che mi ero alzato presto per andare in uno dei tanti mercatini dell'usato.
Luigi Erba
Mauro Fiorese, Avvistamento U. Pho.S. n. 0004-x - 2006/2009
Saper trascendere dalle informazioni visive che ci troviamo dinnanzi ogni giorno, utilizzando la Fotografia come pretesto per indagare e conoscere altri mondi: questo lo spirito che ha spinto per circa dodici anni Mauro Fiorese a documentare luoghi e situazioni al limite tra realtà e finzione.
Dopo un lungo periodo di ricerca iconografica, condotto sia su archivi amatoriali on-line che in archivi di Stato recentemente resi pubblici, l'autore ha intrapreso innumerevoli viaggi in remote località del nostro Pianeta con l'intento di produrre il primo archivio ufficiale di Soggetti Fotografici non Identificati.
Un progetto realizzato sulla falsa riga delle grandi campagne di documentazione del territorio, come quelle dei fotografi di Alinari, che in tanti anni hanno saputo produrre un immenso catalogo di immagini attraverso la loro capillare attività.
Queste immagini ci parlano di presenza e, contemporaneamente, di assenza: il soggetto fotografato è sempre reale, in quanto “trovato” ed esistente dinnanzi al fotografo nel momento dello scatto, ma rimane sempre e misteriosamente difficile da identificare.
L'opera finale assume un significato di una prova fotografica, in un accezione quasi scientifica del termine, di un momento definito solo cronologicamente e geograficamente. Ad essa viene fornito un numero di X-FILE che ne permetterà la consultazione, tra la curiosità di osservare qualcosa di indefinibile e la voglia di possedere qualcosa che è molto più di una semplice fantasia.
Mauro Fiorese
Frances Lansing, Boy, ice cream, dog – 1985/2009
La realtà, quello strato superficiale che avviluppa gli oggetti materiali e i soggetti viventi e li mantiene nel presente, sembra essere preservata dal processo fotografico. Per definizione una fotografia è un fatto di luce.
Nel 1852, Leopoldo Alinari, con i suoi fratelli Giuseppe e Romualdo, fondarono un laboratorio specializzato nella conservazione della realtà attraverso la ritrattistica, costituendo degli archivi di documentazione di opere d'arte e di monumenti storici,di paesaggi, di città e dei loro abitanti.
Ma qualcosa al di là del metodo nel documentare, ispira un desiderio insopprimibile di guardare sotto il cosiddetto soggetto, per scoprire il sottile, spesso fortuito, dettaglio. Contemplando i loro ritratti di vita quotidiana (incontri tra studenti, scene di strade animate, donne al lavoro domestico, passeggiate solitarie, bambini che giocano), è difficile non affondare sotto la superficie. Lì si scopre una narrativa potenziale: quella collina, quel bambino, quel cane monello che interrompe la cerimonia, quella figura fuori fuoco, celata in un angolo ...
I soggetti in miniatura su un palcoscenico inventato, qui illustrati, dovrebbero sembrare catturati dalla fotocamera in momenti di una giornata qualunque. Sono piccoli e trascurabili, ma ampi come la vita - perché la fotografia ha sempre a che fare con la realtà del mondo nella sua massima estensione. Forse che, qualche volta, non ci fermiamo improvvisamente, quando niente di speciale sta accadendo, e non ci guardiamo attorno per scoprire chi o cosa ci abbia chiamati dallo scintillio di un particolare rilievo nel panorama per svelarci qualcosa di più?
Frances Lansing
Lelli e Masotti, Morimur, Sankt Gerold, 2000/2009
Si osservi con attenzione la fotografia della sala stracolma di oggetti, strumenti musicali, il gran piano al centro, armi, poltrone, savonarole. Lo si direbbe un salone da musica che ospita altre memorie, in una atmosfera barocca, nobilmente decadente. Se ci si concentra sui dettagli, vere e proprie “note” sparse, si riconoscono due liuti, un violoncello, una chitarra, un chitarrone, un mandolino, una tromba, un corno più una ghironda e una cetra, oltre al già citato pianoforte, un esemplare imponente ricoperto da pesante tessuto drappeggiato e con diversi oggetti disposti sopra. È lo studio del Prof. Tito Conti a Firenze, pittore, in una stampa all’albumina del 1885 c.a. fotografato dagli Alinari.
Quante volte il Teatro degli Strumenti, appesi e sparsi, si sarà posto a confronto con quello di strumenti “veri” suonati da esecutori per scelti invitati in riservati concerti; quante volte l’occhio sarà caduto sulle forme di un pregiato esemplare di viola da gamba o violino o chitarra o sul gesto che lo fa vibrare, con l’arco o con il pizzicato. Non si escluda a priori che il confronto possa essere avvenuto tra oggetti e oggetti, lì in accumulo e decorativo perpetuo deposito. Gli oggetti, come ben si sa dai cartoni animati, non appena soli si parlano tra loro per vincere la noia.
Lo strumento musicale in arte non è solo protagonista di nature morte, scene da film, riprese fotografiche live o in studio: è oggetto di indagine di per sé, spesso per la natura antica e preziosa, per la struttura e la forma ma anche per la sua presenza contemporanea. In molti casi ne sentiamo la voce da secoli, con meravigliosa continuità acustica, in altri casi è l’elettricità o l’elettronica ad amplificarne i suoni. Se infatti è la forma fisica ad attrarre non da meno lo è il suono specifico di uno strumento musicale, la sua voce si diceva prima e questo ci aggancia all’oggi evitando di fossilizzare la visione nello sguardo accademico anche se sublime di Baschenis o dei tanti fiamminghi che si sono occupati di nature morte con strumenti musicali.
La fotografia sà cogliere questi oggetti che sanno vibrare con il necessario intuito ed è pronta ad ascoltare il racconto sonoro di ciascuno di essi, anche fosse solo la storia di quell’attimo in cui appare illuminato, ispirato, seducente, vibrante per l’appunto. Proiettato come ombra, in toto o in particolare, tradizionale o “eversivo” lo strumento prende posto nell’immaginario fotografico.
dedicato a Mauricio Kagel (1931-2008) e ispirato al suo Musica per strumenti del rinascimento.(1965-66)
Giorgio Majno, Slit camera # 01 – 1982/2009
Il punto di partenza sono alcune fotografie di danza trovate nell'Archivio Alinari.
Si tratta di figure statiche, colte nell'attimo culminante di un gesto.
A queste immagini si richiama la mia sperimentazione sulla danza, iniziata negli Stati Uniti e poi continuata in Italia.
La ricerca si focalizza sul movimento e sullo scorrere del tempo.
Mi interessa la fluidità, l'inaspettato, la bellezza del gesto.
Nella tecnica utilizzata, Slit Camera, la pellicola scorre all'interno della macchina foto, ricevendo la luce attraverso una sottile fessura.
Il film non si impressiona più a singoli fotogrammi, ma è esposto senza interruzioni di continuità.
Tutta la pellicola diventa una sola lunga esposizione che può durare alcuni minuti. Il tempo si dilata e la macchina fotografica registra quello che accade davanti all'obiettivo. L'immagine che ne risulta è unica, diversa sia dal cinema che dalla fotografia. Il soggetto non è più realistico, viene deformato e amplificato.
Il fotografo accompagna con il proprio movimento ciò che vuole riprendere.
Non congela l'attimo, ma lo segue, ne diventa parte, lo estende.
Le distorsioni e le trasformazioni non sono controllabili e il caso fa la sua parte.
Al termine del processo il fotografo si riappropria della possibilità di controllo e di scelta, selezionando alcune sequenze del negativo, per la stampa finale.
Giorgio Majno
Tono Mucchi, Ravenant della rosa – 2009
Tono Mucchi, con garbo e acume, ci sfida a osservare le sue immagini così da condividere l’intreccio di elementi che le caratterizza. Lo spunto è costituito da alcune fotografie storiche tratte dall’Archivio Alinari dove i soggetti sono bassorilievi e dipinti: è a partire da queste suggestioni antiche che l’autore ha spinto la sua espressività fotografica a rapportarsi con pittura e scultura in un serrato confronto dialettico. La sintesi che ne risulta include forme, sensazioni, rimandi, rappresentazioni, dando vita a opere capaci di catturare lo sguardo inducendolo a penetrare oltre la superficie fino ad arrivare al significato più profondo che vi è racchiuso. Poiché in queste fotografie i piani – quelli fisici e quelli psicologici – si intersecano e si fondono, sta a noi osservatori il piacere di andare alla scoperta di questo mondo misterioso dove si possono trovare gesti di tenerezza, torsi virili, espressioni pensose, posture che evocano un erotismo antico e tenace. Ma le vere protagoniste sono le mani, quelle di oggi e quelle dei ritratti di famiglia perché in ogni persona c’è un richiamo agli antenati, a coloro che sono esistiti anche per renderci come siamo. Tono Mucchi usa la fotografia per costruire quello che chiama equivoco rappresentativo perché è, invece, una costruzione immaginifica creata dalle emozioni e inscritta in una rigorosa struttura dove le immagini vivono un ritmo scandito dalla luce, dalla texture della superficie, dalle cornici che delimitano, dividono, uniscono.
R. Mutti
Cristina Omenetto, Pompei #8 – 1999/2009
Dalla mia finestra guardo una donna giovane e una donna vecchia, molto vecchia.
La donna giovane si affanna a sistemare quella vecchia, la accarezza, le mette a posto i capelli, la porta a giro, le parla, le vuole bene.
La donna vecchia non parla, non dice quasi più nulla, ma vive. Vive in un mondo tutto suo, un mondo di oblio, di ricordi che non può o non vuole condividere con altri, un mondo lontano da noi, da me sicuramente.
Ecco quando vado a fotografare un luogo - in questo caso Pompei - cerco di essere come la donna giovane: accarezzo quello che mi circonda con il pensiero e anche, perchè no, con il sogno. Voglio bene a questo luogo carico di storia, di epoche remote, di oblio, di ricordi che potentemente evocano il tempo delle persone e degli animali. Mi viene da riflettere sull'atteggiamento che un autore ha di fronte all'uomo nel tempo e nello spazio che non riguarda solo una mera trasposizione visiva di oggetti o di luoghi, ma punti di vista, altri e diversi dalla monumentale documentazione degli Alinari, che seguono invisibili fili magnetici per far rivivere stagioni passate, vite cancellate nell'arco di un pomeriggio.
Mentre con tristezza profonda sento che nella persona vecchia il suo attuale percorso di vita misterioso e solitario mi è sconosciuto, a Pompei sento che le mie emozioni “conoscono” e ridanno vita ai calchi bianchi immortalati nell'attimo della morte, nel movimento ultimo alla ricerca di respiro e fanno rivivere le tracce delle case dove la vita si è bloccata così bruscamente.
Cristina Omenetto
Francesco Radino, Terre d’ombra #1 – 2001/2009
Ogni narrazione - da quella storica degli Alinari, fino ai linguaggi contemporanei - ha come fine ultimo quello di dare testimonianza del proprio tempo.
Nel caso di questo mio viaggio fotografico la narrazione muove per metafore, per balzi concettuali, per assonanze o dissonanze, come in ogni percorso metastorico.
L'immagine, per sua natura, mostra ma non svela, anzi sottomette il mondo alla sua logica, sottraendo o restituendo significato alle cose, proponendo un orizzonte dove la memoria si confonde e il narratore stesso, talvolta, si smarrisce.
Per ritrovare la via ho voluto che queste immagini “prendessero corpo” insieme al mio corpo o a quello di altri compagni d'avventura, attori di questa rappresentazione che affonda le sue radici nel mistero dell'esistenza stessa degli uomini. Desideravo che fossimo tutt'uno: luoghi, sguardi, pensieri, presenza fisica e mentale, sensibilità, nostalgia, ricordo.
In questo viaggio nelle “terre d'ombra” fra le Vie Cave di Sovana - percorso rituale dei nostri antichi progenitori - prendo coscienza dell'instabilità direzionale del destino e dell'imminente rovina che accompagna ogni vita di ogni essere, della coincidenza fra presente e passato, ove il tempo precipita, perde direzione e sostanza, e dunque cessa, ancor prima di cominciare.
Francesco Radino
Sara Rossi, Amalia dalla serie “Casa Reale”, 2004/2009
La serie fotografica “Casa Reale”, realizzata nel 2004 durante un viaggio nei dintorni di Napoli, ma ancora inedita, torna alla luce grazie all’invito al confronto con l’Archivio Alinari e alla conseguente riflessione sulla fotografia storica e d’arte che esso rappresenta.
Sette degli otto scatti sono dettagli di quadri esposti in una sala del Palazzo Reale di Caserta, ma qui il rigore atto a documentare fedelmente l’originale caratterizzato dalla fotografia storica degli Alinari lascia spazio ad una visione intima e soggettiva, concentrata sulla gestualità dei personaggi. Il titolo di ogni foto è un nome proprio solo ispirato alla Casata: Sofia, Alfonso, Amalia, Lucia, Carlo Felice; gli scatti Filippo e Carolina sono infatti dettagli dell’olio su tela di P.V. Hanselaere di Gand, "Maria Isabella di Napoli". L’ottava foto ritrae la targa commemorativa del soggiorno dove Gide e Forster scrissero l’immoraliste, il primo, e The story of a Panic, il secondo e completa la serie coronandola di un carattere forse tragico ma certamente decadente. Realizzata nel borgo medievale di Ravello, perla della costiera amalfitana arroccata fra le valli del Dragone e quella del Regina, da secoli teatro e meta di storie di re, nobili, artisti e poeti in cerca di bellezza e ispirazione. Suggestioni ancora presenti nelle antiche capitali del Regno dove sembra sopravvissuto un forte contrasto, a memoria di antiche società feudali, fra cultura alta e bassa, fra lo sfarzo e la raffinatezza dei palazzi regali e un sapere popolare che affonda le sue origini nel mito e nella tragedia.
Sara Rossi
Edward Rozzo, Casa di Romeo e Giulietta, dalla serie “Vedute italiane, 2009”, 1994/2009
La vista tradizionale, associata a molte delle immagini dell’Archivio Alinari, appartiene ad un’impronta culturale tipica dell’800. In realtà, l’incisione incredibile delle immagini, la loro prospettiva e l’assenza voluta di persone, deformava la realtà in una rappresentazione tipicamente fotografica. Le immagini riproducevano certezze che nell’epoca postmoderna hanno perso molta della loro rilevanza culturale.
La ricerca di Rozzo, condotta negli ultimi 15 anni, esplora una nuova rappresentazione dell’Italia. Un’Italia dove i dettagli storici spesso sfuggono alla nostra attenzione, dove i giovani sono più interessati a divertirsi che ad approfittare della loro cultura storica e architettonica. Questa realtà sconvolge l’uso tradizionale del mezzo fotografico.
L’ambiguità della sfocatura e la mancanza di riferimenti storici catturano, in queste immagini, l’ambiguità delle nostre percezioni quotidiane. L’approccio tecnico ha rispecchiato quello degli Alinari nel ‘800 con risultati, però, del tutto diversi. Tutte le immagini sono fatte con un banco ottico in bianco e nero, ma il contrasto dei toni rende più onirica che realistica la lettura visiva e il basculare dell’obbiettivo è servito a sfuocare zone non percepite anzi che renderle più a fuoco. In queste immagini, il paesaggio culturale funge da sfondo per un turismo veloce, lasciando frammenti visivi classici e contemporanei in un paesaggio liquido di difficile lettura.
Edward Rozzo
Pio Tarantini, Zampe cavallo - dalla serie :Arte sacra minire bel Salento – 1984/2009
Nella tradizione Alinari di documentazione degli aspetti artistici del nostro Paese grande spazio è dedicato alla scultura nelle sue varie manifestazioni: dalla riproduzione fotografica delle opere scultoree più importanti della storia dell'arte - spesso anche elemento indispensabile a fini didattico-editoriali - a quella più attenta a tipologie “minori” come la statuaria in cartapesta, gesso o legno.
Pio Tarantini ha lavorato profondamente sull'arte sacra minore nel Salento, sua regione d'origine, che ha nella città di Lecce il centro italiano più importante, insieme alla scuola napoletana, di produzione della statuaria sacra in cartapesta. Le statue prodotte sin dal Settecento nel Salento sono presenti in maniera massiccia nelle chiese ma anche, in formati più ridotti, nelle case private.
Nel biennio 1983-1984, ma con altri interventi proseguiti fino ai nostri giorni, Pio Tarantini ha lavorato su questa tematica in chiave non solo semplicemente documentaria ma soprattutto per fare emergere quei dettagli rivelatori dei personaggi rappresentanti questo sterminato popolo di Santi.
È attraverso quindi il procedimento della visione parcellizzata, parziale, che ha operato Tarantini producendo un ricco e denso lavoro in cui lo spettatore resta incantato dal particolare che dà vita, senso e storia alla rappresentazione di una parte così importante, come il sentimento religioso popolare, della cultura italiana.
Pio Tarantini
Roberto Toja, Lasciti #16, 2009/2009
Lasciti è un racconto fotografico svolto all’interno di abitazioni abbandonate della Valdossola, dal quale sono tratte le otto immagini presentate in suddetta mostra ALINARI24ORE.
Questo nasce dalla conoscenza del territorio da parte dell’autore, delle possibili locations, del materiale reperibile da impiegare, in modo da rendere possibile il recupero e il riutilizzo di tutte quelle immagini fotografiche storiche ancora in sito, ancora conservate in quegli ambienti abbandonati.
Ri-fotografare quindi, nel presente, quelle fotografie storiche di ritratti che ancora si possono trovare in quei luoghi fatiscenti, testimoni di chi vi ha trascorso la propria esistenza, dello status, degl’abiti del tempo, degli affetti… Tutto condensato in anonime immagini dimenticate, inservibili al ‘vizio’ del ricordo diretto e domestico, utili per individuare una possibile storia, un’identità comunitaria.
Ri-fotografare dei ritratti di volti sconosciuti di un’altra epoca e adesso dimenticati così come vengono ritrovati, oppure riposizionandoli in punti più dignitosi, quasi come riordinare dei ricordi, compiere un gesto di ‘rispetto’…per stabilire così quel patto, quella complicità tra fotografo e ognuno di quei personaggi in cambio di una nuova immagine, di un nuovo ricordo. Di un lascito ideale, nel quale poco importa indagare sull’ambiente degradato che fa da quinta, su un abbandono tanto spiazzante, davanti all’oggettiva evocazione della memoria rappresa di un luogo, di una società, del tempo che diventa storia, che la testimonianza fotografica consegna ai posteri.
Le immagini di Lasciti sono realizzate da scatti digitali a colori, per meglio evidenziare lo scarto temporale, la diversa ‘manualità’ fotografica che separa il bianconero di quei ritratti e l’operazione svolta, nel presente, dal fotografo.
Roberto Toja
Alessandro Vicario, Senza Titolo #6 – dalla serie: Interni di Palazzo Tiranni – Castracane, Cagli – 2004/2009
Le otto opere qui presentate appartengono a una serie che comprende una ventina di immagini e che ho realizzato in collaborazione con l'Assessorato ai Beni Culturali e Monumentali del Comune di Cagli.
Come in altre mie ricerche, lo spazio è programmaticamente escluso dalla rappresentazione e le stampe fotografiche riproducono porzioni di parete in rapporto 1:1, quasi fossero dei “prelievi”. Mentre la tradizione visiva delle immagini storiche dei Fratelli Alinari - esemplificata dalla bella veduta d'epoca che è associata alle mie immagini - è contraddistinta da una rappresentazione prospettica classica (che garantisce un'accurata documentazione dell'ambiente), il mio lavoro si fonda sull'isolamento di alcuni particolari bidimensionali e cerca di cogliere - trasfigurandoli mediante la fotografia - segni e tracce che, depositatisi e stratificatisi su una superficie bidimensionale, siano capaci di rinviare all'ambiente dal quale sono stati tratti e, soprattutto, di evocare atmosfere ed emozioni.
Alessandro Vicario
17 gli artisti selezionati da Fabio Castelli, curatore della mostra, ai quali è stato chiesto di presentare una serie di 8 lavori, ispirati a un’immagine del passato, al concetto di memoria, al rapporto spazio/tempo, alla rappresentazione di una realtà, che traessero spunto dall’immenso Archivio 'Fratelli Alinari’.
Un modo per gettare un ponte ideale tra un passato ricco di tradizione e storia e un futuro che si vuole affrontare con la volontà di viverlo da protagonisti.
La scelta degli artisti è stata fatta coinvolgendo sia chi proviene da una cultura eminentemente fotografica sia chi utilizza la fotografia come uno dei diversi linguaggi espressivi.
In questa mostra si vuole offrire la possibilità di poter cogliere le modalità con le quali le due esperienze di ricerca perseguano, come obiettivo comune, l’intenzione di creare arte.
Ogni progetto concepito da ciascun autore e artista, vive autonomamente, e il loro insieme vuole essere una carrellata che dia il senso del poliedrico mondo che il mezzo fotografico ci permette di investigare e che Alinari 24ORE si accinge a voler presentare dando ai collezionisti di fotografia e di arte contemporanea il piacere e la certezza di poter possedere opere garantite per la loro qualità, autenticità e durata nel tempo.
A questa prima mostra tutto italiana, seguiranno esposizioni che coinvolgeranno presenze da ogni parte del mondo, là dove troveremo la qualità e la volontà di realizzare proficui scambi di cultura e conoscenza.
Dalla fotografia d’arte all’arte della fotografia:
con Alinari 24ORE l’immagine si fa arte
mostra a cura di Fabio Castelli
Giampietro Agostini, Frontiere della memoria, Tagliata – 2006/2009
Il paesaggio non esiste in natura.
Quello che chiamiamo paesaggio è un prodotto dell'azione dell'uomo sulla natura o almeno un prodotto del suo sguardo, filtrato dalla cultura e dalla memoria.
Per secoli il confine dello spazio umano sulle montagne è stato il villaggio e le sue estensione: il territorio usato per la monticazione o per il pascolo di pecore e capre. Questa situazione cambia rapidamente con lo scoppio della Grande Guerra che per la prima volta porta centinaia di migliaia di uomini a trascorrere tre lunghi anni in luoghi inospitali e impervi, spesso in condizioni ambientali estreme. Vengono costruite trincee, fortificazioni, baracche, ricoveri, strade, sentieri e quando sulle vette ritorna il silenzio il paesaggio è fortemente modificato. Il passare degli anni e le condizioni naturali anno dopo anno contribuiscono a cancellare quelle opere, trasformandole talvolta in labili tracce.
Le foto di Giampietro Agostini ci stupiscono perché si situano in un contesto completamente diverso. Non cercano di riprodurre quello scenario che soldati e fotografi descrivono. Non ritroviamo qui i loro sguardi e le loro emozioni, le loro paure e felicità. È il paesaggio come lo vediamo oggi dove le opere degli uomini sono state riassorbite dalla natura: le strade sono tornate sentieri, i muri a secco pietre, mucchi di sassi, le baracche sfasciumi.
Al suo sguardo sembrano ruderi di una civiltà scomparsa e dimenticata che affiorano da un tempo indecifrabile. E là dove la grandezza degli spazi ha inghiottito l'opera degli uomini, dove le tracce si sono fatte più deboli e si scoprono solo a un secondo sguardo, queste sembrano l’opera persa nel paesaggio di un artista di arte natura. Della presenza di migliaia di uomini che hanno abitato le montagne oggi resta un segno sulla terra minimo e fugace come quelli compiuti di Andy Goldsworthy o David Nash.
Agostini sembra voler sostituire il paesaggio al paesaggio della memoria, richiamare l’attenzione sulla natura e non sull’opera dell’uomo, non sulle tracce dense di storia. Per questo le sue immagini danno la sensazione di sentirsi al confine: un confine che non è certamente quello dei belligeranti, ma il confine tra memoria e oblio, tra storia e natura, tra il tempo denso degli anni di guerra e il tempo sospeso della montagna e della vita. Paesaggi di frontiera che sono al tempo stesso le frontiere della memoria.
Massimo Libardi
Nunzio Battaglia, Milano, Piazzale Bologna – 2008/2009
Il progetto Alinari 24 ORE si compone di 2 fasi metodologiche che riflettono e accolgono la matrice culturale del grande Archivio fiorentino, riconoscendone il valore di giacimento dell'immaginario comune.
1. Il ciclo di riprese effettuate da Nunzio Battaglia a Milano, nella primavera 2008, nasce da due impossibilità: quella di non poter rappresentare il ricordo delle natie primavere mediterranee nella patria adottiva e l'aver rinunciato -per circa un ventennio- a fotografare spazi e vedute della metropoli milanese. A partire da questa consapevolezza, l'autore indaga spazi emblematici della metropoli: l'essenza cromatica delle piantumazioni e le tassellazioni di noti skyline divengono rituale espressivo e controcanto della città che appare. Le opere ridisegnano l'oggettiva connotazione delle aree urbane, riportandole ad un immaginario ultra-visivo.
2. L'autore interroga l'Archivio Alinari, individuando le matrici dell'immaginario di cui siamo intrisi. Affiorano nell'Achivio on-line alla voce Milano, i giacimenti della Pinacoteca di Brera, alcune keywords che si confondono in sconfinamenti di codici dove appaiono Leonardo, Raffaello, il Rinascimento.
Nasce la selezione delle 8 opere in mostra, traccia di un territorio dell'apparire dove progetto documento e trasformazione si sovrappongono in icone del desiderio. La dichiarazione disciplinare è precisa: con lo sguardo posso immaginare spazio e tempo, l'opera diventa l'arca della mutazione, strumento di salvezza.
Nunzio Battaglia
Francesca De Pieri, Cave di Bosco 164, 2009
Realizzare scatti all’interno di Cave significa muoversi in territori circoscritti e confinanti con grandi reti autostradali, non ultima la Cava di Martellago (VE), vicinissima al passante di Mestre. Sono luoghi che resistono a cambiamenti, snaturalizzazioni, abbandoni e riconversioni e che, nonostante i continui passaggi forzati, celano una straordinaria bellezza che aumenta di pari passo con le minacce che su di esse incombono. Le Cave sono un mistero, sono luoghi in cui ci si trova di fronte a scenari che per un osservatore distratto abitano lo spazio limitato da una cornice, ma che vivono oltre quei limitati confini dando vita a forme e tonalità che lasciano sognare l’osservatore attento per qualche istante in più. La forza di Cave sta quindi nel mistero e a riguardo, viaggiando all’interno dell’Archivio Alinari, famigliare a Cave è il dossier “Un soffio di mistero”, in cui si trova "Autunno” di Vincenzo Balocchi. Stupenda per il senso di forte e velato mistero che emana l’atmosfera di questa immagine, vicino a quel senso che hanno per me le immagini della serie Cave e al senso stesso del mio percorso. Balocchi ritrae la natura con linguaggio contemporaneo permettendo così ad immagini realizzate nel nostro tempo di inserirsi in un dialogo da lui iniziato.
Francesca De Pieri
Paola Di Bello, da Video Rom, Milano-Romania #13 - 1998/2009
In collaborazione con Marco Biraghi
Sempre più spesso scopriamo il gusto della conoscenza mediato da un archivio d'immagini, un luogo virtuale dove si deposita il sapere, la cui fruizione ci riserva continue sorprese date dalle infinite combinazioni di senso in esso contenute. Paola Di Bello racconta un'esperienza vissuta utilizzando la fotografia come oggetto di scambio fra un popolo diviso geograficamente ma unito da forti legami culturali e affettivi. Senza offrire interpretazioni, l'artista documenta una comunità di Rom che vive nella periferia di Milano; persone, luoghi, oggetti, pronti per essere riutilizzati come strumento relazionale. L'operazione successiva, infatti, è stata quella di portare questa raccolta di fotografie a Costei, cittadina di campagna vicino a Timisoara in Romania, dove vivono i parenti dei Rom residenti in Italia. Qui l'operazione si è ripetuta fotografando i componenti della comunità locale e riportando i loro ritratti a Milano. Come spesso accade calandosi in una raccolta d'immagini, anche in questo caso, l'esperienza generata dalla fruizione e dallo scambio di più fotografie ha portato ad una “scoperta”: Milano assomiglia a Costei. Il paragone fotografico mostra come le periferie delle nostre città si siano modificate in seguito alla presenza di nomadi, più di quanto la vita degli abitanti di queste comunità sia cambiata a contatto con la nostra cultura.
Luca Panaro
Luigi Erba, Paesaggio#1 (Lecco Pescarenico) – 2008/2009
Questo lavoro di “Paesaggi” e “Ex Paesaggi” nasce da una diversa presa di coscienza del quotidiano nel preciso momento in cui nella mia città natale di Lecco sta progressivamente sparendo ogni traccia di edificio industriale che ne aveva totalmente espresso, con la lavorazione del ferro, il tessuto produttivo e l'anima. Tessuto urbano che entrava nell'assuefazione dell'olfatto, dell'udito e dello sguardo, che comunque preferiva andare oltre, sulle montagne circostanti, ma anche nelle visioni lacustri nel contesto di un immaginario che fu qui anche dei Brogi e degli Alinari. Ed è proprio in tale frangente di passaggio, di sparizioni, di improvvisi e provvisori “ruderi-sculture” delle architetture industriali è scattato il recupero di quella memoria quotidiana che era là, al di sotto della pelle. E' così che questi edifici, resti di edifici, nel loro passaggio vengono vissuti oggi come delle sindoni, rappresentati nell'immaginario, spesso come fantasmi di uno scenario del passato, ma che solo ora si concretizza in un particolare rapporto di sogno e memoria. La stessa cosa !
L'occasione di questo lavoro è stata poi data dall'aver ritrovato una rara edizione di un elegante volume tirato nel 1937 in 250 copie sulle Acciaierie del Caleotto, il cuore del territorio, con le immagini di un artistico ed intelligente lavoro fotografico di Umberto Paramatti, ad una ad una incollate nelle pagine. Una rivelazione che ne rende possibile il rapporto. Quello che aspettavo. L'avevo trovato l'unico mattino che mi ero alzato presto per andare in uno dei tanti mercatini dell'usato.
Luigi Erba
Mauro Fiorese, Avvistamento U. Pho.S. n. 0004-x - 2006/2009
Saper trascendere dalle informazioni visive che ci troviamo dinnanzi ogni giorno, utilizzando la Fotografia come pretesto per indagare e conoscere altri mondi: questo lo spirito che ha spinto per circa dodici anni Mauro Fiorese a documentare luoghi e situazioni al limite tra realtà e finzione.
Dopo un lungo periodo di ricerca iconografica, condotto sia su archivi amatoriali on-line che in archivi di Stato recentemente resi pubblici, l'autore ha intrapreso innumerevoli viaggi in remote località del nostro Pianeta con l'intento di produrre il primo archivio ufficiale di Soggetti Fotografici non Identificati.
Un progetto realizzato sulla falsa riga delle grandi campagne di documentazione del territorio, come quelle dei fotografi di Alinari, che in tanti anni hanno saputo produrre un immenso catalogo di immagini attraverso la loro capillare attività.
Queste immagini ci parlano di presenza e, contemporaneamente, di assenza: il soggetto fotografato è sempre reale, in quanto “trovato” ed esistente dinnanzi al fotografo nel momento dello scatto, ma rimane sempre e misteriosamente difficile da identificare.
L'opera finale assume un significato di una prova fotografica, in un accezione quasi scientifica del termine, di un momento definito solo cronologicamente e geograficamente. Ad essa viene fornito un numero di X-FILE che ne permetterà la consultazione, tra la curiosità di osservare qualcosa di indefinibile e la voglia di possedere qualcosa che è molto più di una semplice fantasia.
Mauro Fiorese
Frances Lansing, Boy, ice cream, dog – 1985/2009
La realtà, quello strato superficiale che avviluppa gli oggetti materiali e i soggetti viventi e li mantiene nel presente, sembra essere preservata dal processo fotografico. Per definizione una fotografia è un fatto di luce.
Nel 1852, Leopoldo Alinari, con i suoi fratelli Giuseppe e Romualdo, fondarono un laboratorio specializzato nella conservazione della realtà attraverso la ritrattistica, costituendo degli archivi di documentazione di opere d'arte e di monumenti storici,di paesaggi, di città e dei loro abitanti.
Ma qualcosa al di là del metodo nel documentare, ispira un desiderio insopprimibile di guardare sotto il cosiddetto soggetto, per scoprire il sottile, spesso fortuito, dettaglio. Contemplando i loro ritratti di vita quotidiana (incontri tra studenti, scene di strade animate, donne al lavoro domestico, passeggiate solitarie, bambini che giocano), è difficile non affondare sotto la superficie. Lì si scopre una narrativa potenziale: quella collina, quel bambino, quel cane monello che interrompe la cerimonia, quella figura fuori fuoco, celata in un angolo ...
I soggetti in miniatura su un palcoscenico inventato, qui illustrati, dovrebbero sembrare catturati dalla fotocamera in momenti di una giornata qualunque. Sono piccoli e trascurabili, ma ampi come la vita - perché la fotografia ha sempre a che fare con la realtà del mondo nella sua massima estensione. Forse che, qualche volta, non ci fermiamo improvvisamente, quando niente di speciale sta accadendo, e non ci guardiamo attorno per scoprire chi o cosa ci abbia chiamati dallo scintillio di un particolare rilievo nel panorama per svelarci qualcosa di più?
Frances Lansing
Lelli e Masotti, Morimur, Sankt Gerold, 2000/2009
Si osservi con attenzione la fotografia della sala stracolma di oggetti, strumenti musicali, il gran piano al centro, armi, poltrone, savonarole. Lo si direbbe un salone da musica che ospita altre memorie, in una atmosfera barocca, nobilmente decadente. Se ci si concentra sui dettagli, vere e proprie “note” sparse, si riconoscono due liuti, un violoncello, una chitarra, un chitarrone, un mandolino, una tromba, un corno più una ghironda e una cetra, oltre al già citato pianoforte, un esemplare imponente ricoperto da pesante tessuto drappeggiato e con diversi oggetti disposti sopra. È lo studio del Prof. Tito Conti a Firenze, pittore, in una stampa all’albumina del 1885 c.a. fotografato dagli Alinari.
Quante volte il Teatro degli Strumenti, appesi e sparsi, si sarà posto a confronto con quello di strumenti “veri” suonati da esecutori per scelti invitati in riservati concerti; quante volte l’occhio sarà caduto sulle forme di un pregiato esemplare di viola da gamba o violino o chitarra o sul gesto che lo fa vibrare, con l’arco o con il pizzicato. Non si escluda a priori che il confronto possa essere avvenuto tra oggetti e oggetti, lì in accumulo e decorativo perpetuo deposito. Gli oggetti, come ben si sa dai cartoni animati, non appena soli si parlano tra loro per vincere la noia.
Lo strumento musicale in arte non è solo protagonista di nature morte, scene da film, riprese fotografiche live o in studio: è oggetto di indagine di per sé, spesso per la natura antica e preziosa, per la struttura e la forma ma anche per la sua presenza contemporanea. In molti casi ne sentiamo la voce da secoli, con meravigliosa continuità acustica, in altri casi è l’elettricità o l’elettronica ad amplificarne i suoni. Se infatti è la forma fisica ad attrarre non da meno lo è il suono specifico di uno strumento musicale, la sua voce si diceva prima e questo ci aggancia all’oggi evitando di fossilizzare la visione nello sguardo accademico anche se sublime di Baschenis o dei tanti fiamminghi che si sono occupati di nature morte con strumenti musicali.
La fotografia sà cogliere questi oggetti che sanno vibrare con il necessario intuito ed è pronta ad ascoltare il racconto sonoro di ciascuno di essi, anche fosse solo la storia di quell’attimo in cui appare illuminato, ispirato, seducente, vibrante per l’appunto. Proiettato come ombra, in toto o in particolare, tradizionale o “eversivo” lo strumento prende posto nell’immaginario fotografico.
dedicato a Mauricio Kagel (1931-2008) e ispirato al suo Musica per strumenti del rinascimento.(1965-66)
Giorgio Majno, Slit camera # 01 – 1982/2009
Il punto di partenza sono alcune fotografie di danza trovate nell'Archivio Alinari.
Si tratta di figure statiche, colte nell'attimo culminante di un gesto.
A queste immagini si richiama la mia sperimentazione sulla danza, iniziata negli Stati Uniti e poi continuata in Italia.
La ricerca si focalizza sul movimento e sullo scorrere del tempo.
Mi interessa la fluidità, l'inaspettato, la bellezza del gesto.
Nella tecnica utilizzata, Slit Camera, la pellicola scorre all'interno della macchina foto, ricevendo la luce attraverso una sottile fessura.
Il film non si impressiona più a singoli fotogrammi, ma è esposto senza interruzioni di continuità.
Tutta la pellicola diventa una sola lunga esposizione che può durare alcuni minuti. Il tempo si dilata e la macchina fotografica registra quello che accade davanti all'obiettivo. L'immagine che ne risulta è unica, diversa sia dal cinema che dalla fotografia. Il soggetto non è più realistico, viene deformato e amplificato.
Il fotografo accompagna con il proprio movimento ciò che vuole riprendere.
Non congela l'attimo, ma lo segue, ne diventa parte, lo estende.
Le distorsioni e le trasformazioni non sono controllabili e il caso fa la sua parte.
Al termine del processo il fotografo si riappropria della possibilità di controllo e di scelta, selezionando alcune sequenze del negativo, per la stampa finale.
Giorgio Majno
Tono Mucchi, Ravenant della rosa – 2009
Tono Mucchi, con garbo e acume, ci sfida a osservare le sue immagini così da condividere l’intreccio di elementi che le caratterizza. Lo spunto è costituito da alcune fotografie storiche tratte dall’Archivio Alinari dove i soggetti sono bassorilievi e dipinti: è a partire da queste suggestioni antiche che l’autore ha spinto la sua espressività fotografica a rapportarsi con pittura e scultura in un serrato confronto dialettico. La sintesi che ne risulta include forme, sensazioni, rimandi, rappresentazioni, dando vita a opere capaci di catturare lo sguardo inducendolo a penetrare oltre la superficie fino ad arrivare al significato più profondo che vi è racchiuso. Poiché in queste fotografie i piani – quelli fisici e quelli psicologici – si intersecano e si fondono, sta a noi osservatori il piacere di andare alla scoperta di questo mondo misterioso dove si possono trovare gesti di tenerezza, torsi virili, espressioni pensose, posture che evocano un erotismo antico e tenace. Ma le vere protagoniste sono le mani, quelle di oggi e quelle dei ritratti di famiglia perché in ogni persona c’è un richiamo agli antenati, a coloro che sono esistiti anche per renderci come siamo. Tono Mucchi usa la fotografia per costruire quello che chiama equivoco rappresentativo perché è, invece, una costruzione immaginifica creata dalle emozioni e inscritta in una rigorosa struttura dove le immagini vivono un ritmo scandito dalla luce, dalla texture della superficie, dalle cornici che delimitano, dividono, uniscono.
R. Mutti
Cristina Omenetto, Pompei #8 – 1999/2009
Dalla mia finestra guardo una donna giovane e una donna vecchia, molto vecchia.
La donna giovane si affanna a sistemare quella vecchia, la accarezza, le mette a posto i capelli, la porta a giro, le parla, le vuole bene.
La donna vecchia non parla, non dice quasi più nulla, ma vive. Vive in un mondo tutto suo, un mondo di oblio, di ricordi che non può o non vuole condividere con altri, un mondo lontano da noi, da me sicuramente.
Ecco quando vado a fotografare un luogo - in questo caso Pompei - cerco di essere come la donna giovane: accarezzo quello che mi circonda con il pensiero e anche, perchè no, con il sogno. Voglio bene a questo luogo carico di storia, di epoche remote, di oblio, di ricordi che potentemente evocano il tempo delle persone e degli animali. Mi viene da riflettere sull'atteggiamento che un autore ha di fronte all'uomo nel tempo e nello spazio che non riguarda solo una mera trasposizione visiva di oggetti o di luoghi, ma punti di vista, altri e diversi dalla monumentale documentazione degli Alinari, che seguono invisibili fili magnetici per far rivivere stagioni passate, vite cancellate nell'arco di un pomeriggio.
Mentre con tristezza profonda sento che nella persona vecchia il suo attuale percorso di vita misterioso e solitario mi è sconosciuto, a Pompei sento che le mie emozioni “conoscono” e ridanno vita ai calchi bianchi immortalati nell'attimo della morte, nel movimento ultimo alla ricerca di respiro e fanno rivivere le tracce delle case dove la vita si è bloccata così bruscamente.
Cristina Omenetto
Francesco Radino, Terre d’ombra #1 – 2001/2009
Ogni narrazione - da quella storica degli Alinari, fino ai linguaggi contemporanei - ha come fine ultimo quello di dare testimonianza del proprio tempo.
Nel caso di questo mio viaggio fotografico la narrazione muove per metafore, per balzi concettuali, per assonanze o dissonanze, come in ogni percorso metastorico.
L'immagine, per sua natura, mostra ma non svela, anzi sottomette il mondo alla sua logica, sottraendo o restituendo significato alle cose, proponendo un orizzonte dove la memoria si confonde e il narratore stesso, talvolta, si smarrisce.
Per ritrovare la via ho voluto che queste immagini “prendessero corpo” insieme al mio corpo o a quello di altri compagni d'avventura, attori di questa rappresentazione che affonda le sue radici nel mistero dell'esistenza stessa degli uomini. Desideravo che fossimo tutt'uno: luoghi, sguardi, pensieri, presenza fisica e mentale, sensibilità, nostalgia, ricordo.
In questo viaggio nelle “terre d'ombra” fra le Vie Cave di Sovana - percorso rituale dei nostri antichi progenitori - prendo coscienza dell'instabilità direzionale del destino e dell'imminente rovina che accompagna ogni vita di ogni essere, della coincidenza fra presente e passato, ove il tempo precipita, perde direzione e sostanza, e dunque cessa, ancor prima di cominciare.
Francesco Radino
Sara Rossi, Amalia dalla serie “Casa Reale”, 2004/2009
La serie fotografica “Casa Reale”, realizzata nel 2004 durante un viaggio nei dintorni di Napoli, ma ancora inedita, torna alla luce grazie all’invito al confronto con l’Archivio Alinari e alla conseguente riflessione sulla fotografia storica e d’arte che esso rappresenta.
Sette degli otto scatti sono dettagli di quadri esposti in una sala del Palazzo Reale di Caserta, ma qui il rigore atto a documentare fedelmente l’originale caratterizzato dalla fotografia storica degli Alinari lascia spazio ad una visione intima e soggettiva, concentrata sulla gestualità dei personaggi. Il titolo di ogni foto è un nome proprio solo ispirato alla Casata: Sofia, Alfonso, Amalia, Lucia, Carlo Felice; gli scatti Filippo e Carolina sono infatti dettagli dell’olio su tela di P.V. Hanselaere di Gand, "Maria Isabella di Napoli". L’ottava foto ritrae la targa commemorativa del soggiorno dove Gide e Forster scrissero l’immoraliste, il primo, e The story of a Panic, il secondo e completa la serie coronandola di un carattere forse tragico ma certamente decadente. Realizzata nel borgo medievale di Ravello, perla della costiera amalfitana arroccata fra le valli del Dragone e quella del Regina, da secoli teatro e meta di storie di re, nobili, artisti e poeti in cerca di bellezza e ispirazione. Suggestioni ancora presenti nelle antiche capitali del Regno dove sembra sopravvissuto un forte contrasto, a memoria di antiche società feudali, fra cultura alta e bassa, fra lo sfarzo e la raffinatezza dei palazzi regali e un sapere popolare che affonda le sue origini nel mito e nella tragedia.
Sara Rossi
Edward Rozzo, Casa di Romeo e Giulietta, dalla serie “Vedute italiane, 2009”, 1994/2009
La vista tradizionale, associata a molte delle immagini dell’Archivio Alinari, appartiene ad un’impronta culturale tipica dell’800. In realtà, l’incisione incredibile delle immagini, la loro prospettiva e l’assenza voluta di persone, deformava la realtà in una rappresentazione tipicamente fotografica. Le immagini riproducevano certezze che nell’epoca postmoderna hanno perso molta della loro rilevanza culturale.
La ricerca di Rozzo, condotta negli ultimi 15 anni, esplora una nuova rappresentazione dell’Italia. Un’Italia dove i dettagli storici spesso sfuggono alla nostra attenzione, dove i giovani sono più interessati a divertirsi che ad approfittare della loro cultura storica e architettonica. Questa realtà sconvolge l’uso tradizionale del mezzo fotografico.
L’ambiguità della sfocatura e la mancanza di riferimenti storici catturano, in queste immagini, l’ambiguità delle nostre percezioni quotidiane. L’approccio tecnico ha rispecchiato quello degli Alinari nel ‘800 con risultati, però, del tutto diversi. Tutte le immagini sono fatte con un banco ottico in bianco e nero, ma il contrasto dei toni rende più onirica che realistica la lettura visiva e il basculare dell’obbiettivo è servito a sfuocare zone non percepite anzi che renderle più a fuoco. In queste immagini, il paesaggio culturale funge da sfondo per un turismo veloce, lasciando frammenti visivi classici e contemporanei in un paesaggio liquido di difficile lettura.
Edward Rozzo
Pio Tarantini, Zampe cavallo - dalla serie :Arte sacra minire bel Salento – 1984/2009
Nella tradizione Alinari di documentazione degli aspetti artistici del nostro Paese grande spazio è dedicato alla scultura nelle sue varie manifestazioni: dalla riproduzione fotografica delle opere scultoree più importanti della storia dell'arte - spesso anche elemento indispensabile a fini didattico-editoriali - a quella più attenta a tipologie “minori” come la statuaria in cartapesta, gesso o legno.
Pio Tarantini ha lavorato profondamente sull'arte sacra minore nel Salento, sua regione d'origine, che ha nella città di Lecce il centro italiano più importante, insieme alla scuola napoletana, di produzione della statuaria sacra in cartapesta. Le statue prodotte sin dal Settecento nel Salento sono presenti in maniera massiccia nelle chiese ma anche, in formati più ridotti, nelle case private.
Nel biennio 1983-1984, ma con altri interventi proseguiti fino ai nostri giorni, Pio Tarantini ha lavorato su questa tematica in chiave non solo semplicemente documentaria ma soprattutto per fare emergere quei dettagli rivelatori dei personaggi rappresentanti questo sterminato popolo di Santi.
È attraverso quindi il procedimento della visione parcellizzata, parziale, che ha operato Tarantini producendo un ricco e denso lavoro in cui lo spettatore resta incantato dal particolare che dà vita, senso e storia alla rappresentazione di una parte così importante, come il sentimento religioso popolare, della cultura italiana.
Pio Tarantini
Roberto Toja, Lasciti #16, 2009/2009
Lasciti è un racconto fotografico svolto all’interno di abitazioni abbandonate della Valdossola, dal quale sono tratte le otto immagini presentate in suddetta mostra ALINARI24ORE.
Questo nasce dalla conoscenza del territorio da parte dell’autore, delle possibili locations, del materiale reperibile da impiegare, in modo da rendere possibile il recupero e il riutilizzo di tutte quelle immagini fotografiche storiche ancora in sito, ancora conservate in quegli ambienti abbandonati.
Ri-fotografare quindi, nel presente, quelle fotografie storiche di ritratti che ancora si possono trovare in quei luoghi fatiscenti, testimoni di chi vi ha trascorso la propria esistenza, dello status, degl’abiti del tempo, degli affetti… Tutto condensato in anonime immagini dimenticate, inservibili al ‘vizio’ del ricordo diretto e domestico, utili per individuare una possibile storia, un’identità comunitaria.
Ri-fotografare dei ritratti di volti sconosciuti di un’altra epoca e adesso dimenticati così come vengono ritrovati, oppure riposizionandoli in punti più dignitosi, quasi come riordinare dei ricordi, compiere un gesto di ‘rispetto’…per stabilire così quel patto, quella complicità tra fotografo e ognuno di quei personaggi in cambio di una nuova immagine, di un nuovo ricordo. Di un lascito ideale, nel quale poco importa indagare sull’ambiente degradato che fa da quinta, su un abbandono tanto spiazzante, davanti all’oggettiva evocazione della memoria rappresa di un luogo, di una società, del tempo che diventa storia, che la testimonianza fotografica consegna ai posteri.
Le immagini di Lasciti sono realizzate da scatti digitali a colori, per meglio evidenziare lo scarto temporale, la diversa ‘manualità’ fotografica che separa il bianconero di quei ritratti e l’operazione svolta, nel presente, dal fotografo.
Roberto Toja
Alessandro Vicario, Senza Titolo #6 – dalla serie: Interni di Palazzo Tiranni – Castracane, Cagli – 2004/2009
Le otto opere qui presentate appartengono a una serie che comprende una ventina di immagini e che ho realizzato in collaborazione con l'Assessorato ai Beni Culturali e Monumentali del Comune di Cagli.
Come in altre mie ricerche, lo spazio è programmaticamente escluso dalla rappresentazione e le stampe fotografiche riproducono porzioni di parete in rapporto 1:1, quasi fossero dei “prelievi”. Mentre la tradizione visiva delle immagini storiche dei Fratelli Alinari - esemplificata dalla bella veduta d'epoca che è associata alle mie immagini - è contraddistinta da una rappresentazione prospettica classica (che garantisce un'accurata documentazione dell'ambiente), il mio lavoro si fonda sull'isolamento di alcuni particolari bidimensionali e cerca di cogliere - trasfigurandoli mediante la fotografia - segni e tracce che, depositatisi e stratificatisi su una superficie bidimensionale, siano capaci di rinviare all'ambiente dal quale sono stati tratti e, soprattutto, di evocare atmosfere ed emozioni.
Alessandro Vicario
15
settembre 2009
Dalla fotografia d’arte all’arte della fotografia
Dal 15 settembre al 22 novembre 2009
fotografia
Location
CENTRO INTERNAZIONALE DI FOTOGRAFIA SCAVI SCALIGERI
Verona, Piazza Francesco Viviani, (Verona)
Verona, Piazza Francesco Viviani, (Verona)
Biglietti
Biglietto intero: 5 Euro; ridotto: 3 Euro; ragazzi fino a 14 anni, scolaresche: 1,00 Euro. Tutte le domeniche, con il solo costo del biglietto d’ingresso, è possibile partecipare alla visita guidata della mostra alle ore 11.00
Orario di apertura
da martedì a domenica : 10.00 - 19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.30) Lunedì chiuso; aperta 1 novembre
Vernissage
15 Settembre 2009, ore 19.30
Ufficio stampa
MERIGHI
Autore
Curatore