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Daniel Spoerri
Daniel Spoerri si può ben definire, senza tema di smentita, uno degli Artisti più importanti e significativi del panorama mondiale: uno straordinario protagonista dell’Arte Contemporanea. A Vercelli saranno presentati venti assemblaggi realizzati tra il 2005 e il 2007) e un grande bronzo.
Comunicato stampa
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DANIEL SPOERRI di Luisa Facelli
Un giorno del 1947, a Nizza, tre artisti, alla ricerca dello spazio ideale per la propria poetica, si disputarono la spartizione del mondo: Armand volle per sé “la terra e le sue ricchezze”, Claude Pascal “l’aria”, Yves Klein “il cielo”.
Se Daniel Spoerri fosse già stato tra loro (come accadrà poi nel 1960, all’atto della fondazione del Nouveau Réalisme), avrebbe scelto magari una discarica.
Con sconcertante bulimia, infatti, il luogo del rifiuto sintetizza tutto quanto il mondo: l’organico e l’inorganico, il naturale e l’artificiale, il bello e il brutto, il convenzionale e il curioso. L’orrore della decomposizione diventa preziosa reliquia di vita.
Non c’è niente che la dica più lunga sul conto della voracità umana, dettata da bisogni fisici primari e da una compulsiva psicologia iperproduttiva e dunque consumistica: oggetti utili e disutili, ma in odore di arte, se è vero che, aggregati in casuale sintesi combinatoria, rivelano insospettate grandiosità cromatiche; fissati nella falsa immobilità della morte negli assemblaggi di Spoerri vivono quindi in perenne ossimoro: nei quadri-trappola si rigenerano, con dispettoso esorcismo, nel momento in cui gli oggetti più disparati recuperano la propria stessa tensione.
Ecco il punto: Spoerri non fa dell’oggetto lo stesso uso cui si riferiva Breton. Quale che sia l’oggetto, deve rispondere, in modo contraddittorio, a una rivoluzionaria “diffusione della sensibilità al di là dei limiti della sua percezione”, secondo quanto rilevava Pierre Restany (nella prefazione al catalogo della mostra Les nouveaux Réalistes presso la Galleria Apollinaire di Milano, nel 1960).
Ora, a distanza di molti anni, un Daniel Spoerri fedele a se stesso per linguaggio ed espressività originaria, pur rinnovandosi continuamente, prosegue il lungo percorso. Dopo avere attraversato, andando oltre, alcune tra le principali avanguardie del Novecento (Surrealismo e Dadaismo), frequentato i protagonisti del panorama artistico mondiale (un nome per tutti, Duchamp), stretto amicizia con molti, soprattutto con Tinguely, con Meret Oppenheim, con Topor. Poi l’esperienza di Fluxus: insomma un gran bel pezzo della cultura del Novecento che ha lasciato tracce in un artista cosmopolita, per elezione, oltre che a causa delle cogenti violenze storico-politiche che lo sradicarono appena dodicenne, e per sempre, dalla Romania, nel lontano 1942.
Oggi la Casa d’Arte di Via dei Mercati, propone, per la prima volta a Vercelli, una sua Mostra. Si tratta di un buon numero di recenti assemblaggi (realizzati tra il 2005 e il 2007) e un grande bronzo. Venti opere in cui il repertorio del sistema iconico dell’artista sembra ricordare, modernamente e in scala ridotta, le “Camere delle meraviglie” secentesche, dove trionfava un’idea museologica eccentrica. I materiali di Spoerri sono similmente onnivori, in bilico fra riferimenti archeologici, etnografici, antropologici e naturalmente tecnologici. Una vocazione estrosa da “Wunderkammer” persiste nella bizzarria barocca delle predilezioni: bellissimi i feticci, piumati come idoletti e i magli propiziatori di antiche civiltà, magari posati su un centrino della nonna, o con i piedi sopra un piccolo manichino di legno; e ancora gli accostamenti dei “naturalia” dove si riconosce l’evidente pertinenza scientifica, ma anche l’inscindibile legame con superstizione e magia.
Non fosse altro che per le suggestioni e le atmosfere evocate: ci sono infatti conchiglie, mandibole di animali, favi di api, pesci che ricordano i modelli di cera delle farmacie del ‘700, o i gabinetti anatomici dove si tenevano in vitro globi oculari e altre parti del corpo sezionate, su cui varrà la pena di ritornare tra poco.
Il tema della bellezza tanto seducente quanto formidabile e pericolosa trova una conferma entomologica a proposito delle farfalle. Superbe, da bigiotteria raffinata o dozzinale, qua e là eleganti come spille liberty, di madreperlata lucentezza, oppure semplici ferma capelli, mollette da bancarella in plastica. Quasi sempre, però, accostate al teschio. Un’eco dell’Acherontia Atropos, la falena detta anche testa di morto: proprio quella che compare anche sul poster del film di Thomas Harris, The silence of the lambs? Chissà.
D’altra parte non sarebbe difficile scoprire che altrove, nel ripostiglio inesauribile dei reperti di Spoerri, vanno a braccetto molte suggestioni teatrali e letterarie, citazioni conscie e inconscie poiché gli oggetti di per sé alimentano una poetica dell’esagerazione, della meraviglia, del ricordo anche per l’artista stesso che ne dirige e subisce la potenza.
Sebbene a temperare tutto ciò intervenga l’ironia con cui si maneggiano oggetti ordinari. Perché nel panorama complessivo sembra che a farla da padrone sia soprattutto l’ordinario, in qualità di straordinario: ogni elemento, di per sé vero, quotidiano, banale, diviene quasi un “oggetto d’affezione”, per dirla con Man Ray. Anche nel caso della materia gastronomica: biscotti, cibi vari, bevande sono colti nel momento del consumo ormai avvenuto.
Spoerri è un regista incomparabile di scene teatrali anche nella composizione stessa del quadro: la tazza, il vassoio di cucina, sono sistemati con raffinato bon ton, tutto porcellane da servizio buono su centrini “frivolité”. Ma da Spoerri ci si può aspettare che il luogo di tanta rassicurante domestica felicità sia lo stesso che conserva, in qualche angolo, altri utensili, feroci e taglienti: cesoie, rasoi, roncole… insomma un clima da Arsenico e vecchi merletti.
Ingenuità e crudeltà: strumenti dimenticati o ritrovati nel supermercato della fantasia di un bricoleur spregiudicato non dimentico di un passato teatrale, trovarobe di un palcoscenico dell’assurdo dove però si solleticano identificazioni forti in chi osserva lo spettacolo, dal momento che subito è facile riconoscere patrimoni oggettuali disparati appartenuti e appartenenti alla collettività di ieri e di oggi.
Spoerri scavalca comunque le definizioni tradizionali. I suoi tableaux piège ci restituiscono, ad esempio, del nostro gesto basico del cibarci, una memoria filosofica e dissacrante: sotto forma di colazione eccoci qui, noi siamo soprattutto quello che mangiamo. Poiché non ci cibiamo di nettare e ambrosia come gli Dei, ma siamo della stirpe di Prometeo, la cucina del sacrificio animalesco che tanto ci alletta prevede un contrappasso terribile, pena la deperibilità corporea. Intanto però, finché siamo qui, mangiamo, in mezzo alle nostre suppellettili, tra le offerte gastronomiche del mercato. Sta di fatto che Spoerri ama raccontare. L’assemblage istiga sempre a immaginarci una qualche storia, dalla trama intuibile, forse esile, forse inesistente. Come quando al ristorante ci sediamo al tavolo di altri appena andati via, lasciandoci tracce della loro presenza che ci obbligano a interrogarci inspiegabilmente su chi fossero.
Alla stregua del Buñuel di Belle de jour che non rivela cosa contenga la scatolina del cinese davanti a cui tutte le ragazze del bordello fuggono inorridite, meno Séverine, ecco che anche noi non sapremo mai di chi è la mano che raccoglie o ha rotto i cocci di una tazza nell’assemblage “Die schaflosen nãchte” (Le notti insonni).
L’uomo nella sua interezza non compare: la corporalità via, via, andata persa. Assente sulla scena egli esiste solo attraverso figure retoriche che alludendovi lo rappresentano. Vediamo, infatti, la parte per il tutto: mani, gambe, braccia, testa. Dei suoi oggetti sappiamo ora il contenente per il contenuto, ora l’esatto contrario; ne intuiamo anche olfattivamente i gusti e i vizi: il tipo di bevanda, il mozzicone di sigaretta. Di tutto un sistema di vita, sottointeso, è fatto balenare il concreto per l’astratto. Infatti gli elementi oggettuali sono fortemente simbolici, perciò rappresentativi dell’umanità che li ha fabbricati; essi sono l’essenza di quell’umanità stessa. Noi umani, rispetto al tempo e allo spazio, siamo di gran lunga meno longevi degli oggetti. Poco più di invisibili frammenti pensanti, ma ingoiati, racchiusi in trappola. Perché tale è la dimensione più vera di cui l’uomo fa esperienza sulla terra, come bene appare nel bronzo del 2007, “Petite tête”.
Eppure Spoerri sperimenta, in ogni sua espressione artistica estrema, la massima libertà che un essere umano possa sperare di raggiungere. Dunque le infinite possibilità di lettura e d’interpretazione del mondo.
Non si tratta certo di sonno della ragione, intesa come motore ordinato e mappa orientativa tra gli eventi del mondo, tutt’altro. Infatti con lucidità Spoerri non genera propriamente mostri, alla maniera dell’espressionismo; neppure quando tali ci appaiono, perché la geniale visionaria consapevolezza di Spoerri è una presa d’atto: tutto quanto esiste è sì ciò che è, ma anche ciò che crediamo, desideriamo, immaginiamo debba e possa essere.
Un giorno del 1947, a Nizza, tre artisti, alla ricerca dello spazio ideale per la propria poetica, si disputarono la spartizione del mondo: Armand volle per sé “la terra e le sue ricchezze”, Claude Pascal “l’aria”, Yves Klein “il cielo”.
Se Daniel Spoerri fosse già stato tra loro (come accadrà poi nel 1960, all’atto della fondazione del Nouveau Réalisme), avrebbe scelto magari una discarica.
Con sconcertante bulimia, infatti, il luogo del rifiuto sintetizza tutto quanto il mondo: l’organico e l’inorganico, il naturale e l’artificiale, il bello e il brutto, il convenzionale e il curioso. L’orrore della decomposizione diventa preziosa reliquia di vita.
Non c’è niente che la dica più lunga sul conto della voracità umana, dettata da bisogni fisici primari e da una compulsiva psicologia iperproduttiva e dunque consumistica: oggetti utili e disutili, ma in odore di arte, se è vero che, aggregati in casuale sintesi combinatoria, rivelano insospettate grandiosità cromatiche; fissati nella falsa immobilità della morte negli assemblaggi di Spoerri vivono quindi in perenne ossimoro: nei quadri-trappola si rigenerano, con dispettoso esorcismo, nel momento in cui gli oggetti più disparati recuperano la propria stessa tensione.
Ecco il punto: Spoerri non fa dell’oggetto lo stesso uso cui si riferiva Breton. Quale che sia l’oggetto, deve rispondere, in modo contraddittorio, a una rivoluzionaria “diffusione della sensibilità al di là dei limiti della sua percezione”, secondo quanto rilevava Pierre Restany (nella prefazione al catalogo della mostra Les nouveaux Réalistes presso la Galleria Apollinaire di Milano, nel 1960).
Ora, a distanza di molti anni, un Daniel Spoerri fedele a se stesso per linguaggio ed espressività originaria, pur rinnovandosi continuamente, prosegue il lungo percorso. Dopo avere attraversato, andando oltre, alcune tra le principali avanguardie del Novecento (Surrealismo e Dadaismo), frequentato i protagonisti del panorama artistico mondiale (un nome per tutti, Duchamp), stretto amicizia con molti, soprattutto con Tinguely, con Meret Oppenheim, con Topor. Poi l’esperienza di Fluxus: insomma un gran bel pezzo della cultura del Novecento che ha lasciato tracce in un artista cosmopolita, per elezione, oltre che a causa delle cogenti violenze storico-politiche che lo sradicarono appena dodicenne, e per sempre, dalla Romania, nel lontano 1942.
Oggi la Casa d’Arte di Via dei Mercati, propone, per la prima volta a Vercelli, una sua Mostra. Si tratta di un buon numero di recenti assemblaggi (realizzati tra il 2005 e il 2007) e un grande bronzo. Venti opere in cui il repertorio del sistema iconico dell’artista sembra ricordare, modernamente e in scala ridotta, le “Camere delle meraviglie” secentesche, dove trionfava un’idea museologica eccentrica. I materiali di Spoerri sono similmente onnivori, in bilico fra riferimenti archeologici, etnografici, antropologici e naturalmente tecnologici. Una vocazione estrosa da “Wunderkammer” persiste nella bizzarria barocca delle predilezioni: bellissimi i feticci, piumati come idoletti e i magli propiziatori di antiche civiltà, magari posati su un centrino della nonna, o con i piedi sopra un piccolo manichino di legno; e ancora gli accostamenti dei “naturalia” dove si riconosce l’evidente pertinenza scientifica, ma anche l’inscindibile legame con superstizione e magia.
Non fosse altro che per le suggestioni e le atmosfere evocate: ci sono infatti conchiglie, mandibole di animali, favi di api, pesci che ricordano i modelli di cera delle farmacie del ‘700, o i gabinetti anatomici dove si tenevano in vitro globi oculari e altre parti del corpo sezionate, su cui varrà la pena di ritornare tra poco.
Il tema della bellezza tanto seducente quanto formidabile e pericolosa trova una conferma entomologica a proposito delle farfalle. Superbe, da bigiotteria raffinata o dozzinale, qua e là eleganti come spille liberty, di madreperlata lucentezza, oppure semplici ferma capelli, mollette da bancarella in plastica. Quasi sempre, però, accostate al teschio. Un’eco dell’Acherontia Atropos, la falena detta anche testa di morto: proprio quella che compare anche sul poster del film di Thomas Harris, The silence of the lambs? Chissà.
D’altra parte non sarebbe difficile scoprire che altrove, nel ripostiglio inesauribile dei reperti di Spoerri, vanno a braccetto molte suggestioni teatrali e letterarie, citazioni conscie e inconscie poiché gli oggetti di per sé alimentano una poetica dell’esagerazione, della meraviglia, del ricordo anche per l’artista stesso che ne dirige e subisce la potenza.
Sebbene a temperare tutto ciò intervenga l’ironia con cui si maneggiano oggetti ordinari. Perché nel panorama complessivo sembra che a farla da padrone sia soprattutto l’ordinario, in qualità di straordinario: ogni elemento, di per sé vero, quotidiano, banale, diviene quasi un “oggetto d’affezione”, per dirla con Man Ray. Anche nel caso della materia gastronomica: biscotti, cibi vari, bevande sono colti nel momento del consumo ormai avvenuto.
Spoerri è un regista incomparabile di scene teatrali anche nella composizione stessa del quadro: la tazza, il vassoio di cucina, sono sistemati con raffinato bon ton, tutto porcellane da servizio buono su centrini “frivolité”. Ma da Spoerri ci si può aspettare che il luogo di tanta rassicurante domestica felicità sia lo stesso che conserva, in qualche angolo, altri utensili, feroci e taglienti: cesoie, rasoi, roncole… insomma un clima da Arsenico e vecchi merletti.
Ingenuità e crudeltà: strumenti dimenticati o ritrovati nel supermercato della fantasia di un bricoleur spregiudicato non dimentico di un passato teatrale, trovarobe di un palcoscenico dell’assurdo dove però si solleticano identificazioni forti in chi osserva lo spettacolo, dal momento che subito è facile riconoscere patrimoni oggettuali disparati appartenuti e appartenenti alla collettività di ieri e di oggi.
Spoerri scavalca comunque le definizioni tradizionali. I suoi tableaux piège ci restituiscono, ad esempio, del nostro gesto basico del cibarci, una memoria filosofica e dissacrante: sotto forma di colazione eccoci qui, noi siamo soprattutto quello che mangiamo. Poiché non ci cibiamo di nettare e ambrosia come gli Dei, ma siamo della stirpe di Prometeo, la cucina del sacrificio animalesco che tanto ci alletta prevede un contrappasso terribile, pena la deperibilità corporea. Intanto però, finché siamo qui, mangiamo, in mezzo alle nostre suppellettili, tra le offerte gastronomiche del mercato. Sta di fatto che Spoerri ama raccontare. L’assemblage istiga sempre a immaginarci una qualche storia, dalla trama intuibile, forse esile, forse inesistente. Come quando al ristorante ci sediamo al tavolo di altri appena andati via, lasciandoci tracce della loro presenza che ci obbligano a interrogarci inspiegabilmente su chi fossero.
Alla stregua del Buñuel di Belle de jour che non rivela cosa contenga la scatolina del cinese davanti a cui tutte le ragazze del bordello fuggono inorridite, meno Séverine, ecco che anche noi non sapremo mai di chi è la mano che raccoglie o ha rotto i cocci di una tazza nell’assemblage “Die schaflosen nãchte” (Le notti insonni).
L’uomo nella sua interezza non compare: la corporalità via, via, andata persa. Assente sulla scena egli esiste solo attraverso figure retoriche che alludendovi lo rappresentano. Vediamo, infatti, la parte per il tutto: mani, gambe, braccia, testa. Dei suoi oggetti sappiamo ora il contenente per il contenuto, ora l’esatto contrario; ne intuiamo anche olfattivamente i gusti e i vizi: il tipo di bevanda, il mozzicone di sigaretta. Di tutto un sistema di vita, sottointeso, è fatto balenare il concreto per l’astratto. Infatti gli elementi oggettuali sono fortemente simbolici, perciò rappresentativi dell’umanità che li ha fabbricati; essi sono l’essenza di quell’umanità stessa. Noi umani, rispetto al tempo e allo spazio, siamo di gran lunga meno longevi degli oggetti. Poco più di invisibili frammenti pensanti, ma ingoiati, racchiusi in trappola. Perché tale è la dimensione più vera di cui l’uomo fa esperienza sulla terra, come bene appare nel bronzo del 2007, “Petite tête”.
Eppure Spoerri sperimenta, in ogni sua espressione artistica estrema, la massima libertà che un essere umano possa sperare di raggiungere. Dunque le infinite possibilità di lettura e d’interpretazione del mondo.
Non si tratta certo di sonno della ragione, intesa come motore ordinato e mappa orientativa tra gli eventi del mondo, tutt’altro. Infatti con lucidità Spoerri non genera propriamente mostri, alla maniera dell’espressionismo; neppure quando tali ci appaiono, perché la geniale visionaria consapevolezza di Spoerri è una presa d’atto: tutto quanto esiste è sì ciò che è, ma anche ciò che crediamo, desideriamo, immaginiamo debba e possa essere.
22
maggio 2010
Daniel Spoerri
Dal 22 maggio al 13 giugno 2010
arte contemporanea
Location
GALLERIA CASA D’ARTE
Vercelli, Via Mercati, 15, (Vercelli)
Vercelli, Via Mercati, 15, (Vercelli)
Orario di apertura
da martedì a sabato 17,00-19,30
Vernissage
22 Maggio 2010, ore 18,00
Autore
Curatore