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Danilo Verticelli – Barcode
La realtà e l’arte. La società del controllo e la rappresentazione del disagio. 10 opere di Danilo Verticelli, esponente della new Pop Art italiana, nell’appuntamento della personale del 2007.
Comunicato stampa
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Oltre il “barcode”
La ricostruzione necessaria di un’etica in arte
[…] Certamente bisogna allargare lo sguardo verso l’”altrove”, cercare fuori dalle ostentazioni del mercato o anche dentro di esso magari, alla ricerca di ciò che non è facile né scontato, fuori dalle trasgressioni seriali compiaciute, fuori dalla ripetizione obbligata dei miti dell’individualismo borghese, fuori dalle quotazioni artefatte, fuori dalla moda, dal pubblicitaristico, fuori dalla contaminazione forzata, fuori dal videogioco, dal giovanilismo dagli adolescentismi, dall’autoreferenza. Ma dobbiamo anche, con strumenti credibili e con una intelligenza delle cose (che sia frutto di un desiderio di reale comprensione), cercare dentro ogni fenomeno, anche dentro le contraddizioni del mercato, per capire come possa aiutarci anch’esso a capire qualcosa della nostra contraddittoria Umanità.
Cercare dunque in qualsiasi luogo, in qualsiasi opera, in qualsiasi cosa che apra la relazione, il problema, il senso; alla ricerca di pensieri e di idee, alla ricerca di credibilità, di discussione, alla ricerca di cose dette nel reale, condivisibili, discutibili, ma che abbiano un sapore consistente e non la vanità dall’autocompiacimento.
In moltissime esperienze d’arte esiste ancora e si manifesta con varia decisione e chiarezza, una etica e una dignità dell’artista, perché esiste ancora la capacità tutta autenticamente umana, di condividere, di arrabbiarsi, di indignarsi, di ascoltare, di provare a capire. Esiste ancora la necessità di andare a fondo nelle questioni esistenziali e sociali soprattutto in quegli artisti che hanno la coscienza di vivere e affrontare sulla propria pelle l’evidenza della frustrazione, dell’ingiustizia, della povertà, del disagio, dell’emarginazione. Sono queste persone e artisti che vedono e si prendono la briga di esprimere pareri, di scegliere posizioni a riguardo perché ritengono prioritario ciò che è “umano” rispetto a ciò che può essere vendibile. Essere aperti alla discussione, ai problemi e all’etica sociale è componente forte dell’identità di coloro che sono eticamente distanti dalle ragioni mercantili. E se da un lato questa scelta li può tener distanti da un mercato “grasso”, dall’altro li avvicina notevolmente da ciò che è davvero importante in arte: costruire cultura, proporre “senso” e possibilità di capire o di orientarsi dentro le questioni che stanno al cuore del mondo e della società in cui si vive.
Ed è questo il quadro concettuale e analitico entro cui penso sia necessario leggere il senso di questa mostra, perché Danilo Verticelli è di quegli artisti che traggono forza e identità esattamente dalla sostanza etica del proprio pensare alla realtà concreta.
Credo che ciò sia evidente nella scelta e nella elaborazione che Danilo riesce a compiere e a condurre tra soggetto e elaborazione cromatica e formale: la deformazione o il riequilibrio del segno, l’altissima gamma cromatica contrastante come continua tensione emotiva, il tema iconografico del codice a barre, nuova pietra angolare di ogni identità, strumento di normalizzazione di storie e di tragedie, sono tutti dati visuali che ribadiscono una decisa presa di posizione di fronte a singole situazioni e a complesse implicazioni storico, sociali e mediatiche. Queste evidenze formali dimostrano che Verticelli non può rinunciare ad occuparsi della realtà, perché l’artista che è in primis, uomo del suo tempo, non può rinunciare a sentire una sorta di solidarietà con le cose, le persone, le esperienze e i pensieri, oggi alle prese con la tragedia più sottile e ambigua del contemporaneo che è appunto, la nullificazione del senso della realtà.
Il dramma della droga, le conseguenze della guerra irachena, la violenza del terrorismo, gli ideali e gli obiettivi di uguaglianza e giustizia sociale, l’uso delle cellule staminali … tutto è oggi è venduto o vendibile e in quanto tale, sottoposto alla legge superiore dell’eventuale utilità mercantile, al punto che quelli che sono stati e sono drammi umani, stravolgimenti sociali, idealità profonda che pur ancora le immagini potrebbero ricordarci, trovando una loro collocazione sul bancone, vengono serializzati dal trademark e resi disponibili, magari, per venderci la nuova Cinquecento o un paio di mutande. In questa situazione di dissoluzione del senso originario delle immagini generate da una insensata saturazione mediatica, anche l’identità storica si percepisce attraverso il possesso simbolico dell’oggetto, senza che si senta la reale necessità di comprenderla nella verità del percorso che l’ha resa tale. Le immagini della dura verità, della storia, dell’identità diventano proprietà manipolabile e vendibile al miglior offerente e diventa così stravolta la percezione stessa della nostra identità storica
Cosa resta di quelle verità, di quel dolore, di quei drammi dopo che il mercato immaginale se ne appropria attraverso un sistema retorico di ripetizioni disarticolate, capaci di arrivare alla nullificazione della sua realtà originaria?
La denuncia della pittura di Verticelli è implicitamente un richiamo profondo al riappropriarsi dell’identità e dell’impegno sociale: sotto c’è l’indignazione, direi, l’incazzatura costante per ogni mistificazione, falsità, manipolazione, ingiustizia. C’è dunque il desiderio implicito che così non debba essere, che la persona torni ad essere e a dire la verità delle cose.
Le opere di Verticelli si riappropriano di una funzione eticamente sensata che tenta di portare dentro il sistema dell’arte, in un linguaggio pop comunque leggibile, il “trojan horse”, il virus della latina “indignatio”: il mezzo pittorico raffinatissimo attira nella sua rutilante spettacolarità e nel suo somigliare apparente alla “leggerezza” pubblicitaria, per poi metterci di fronte ad una palese carica urticante e stridente generata dal recupero del senso reale di una immagine che pian piano l’occhio decodifica, che è l’immagine evocativa di tragedie realissime, nemmeno troppo distanti da noi.
Stando così a quanto detto prima nel quadro teorico di riferimento, appare chiaro che Verticelli ha compiuto un salto “esistenziale” atipico ma assolutamente necessario nel contesto dell’arte italiana contemporanea: non ci può essere reale funzione o sostanza d’arte se essa non rimanda ad un realtà cosciente e condivisa. La sua è dunque una posizione generata dalla necessità di dare senso al proprio fare, un senso che non sta nel compiacere l’acquirente, quanto nel rispondere ad una propria coscienza umanistica e civile. Ecco un esempio di etica artistica: non inseguire il compiacimento di pochi, blandendoli nelle loro autoconvinzioni, ma tentare di conservare la verità del senso ad una storia, ad un tempo, ad una condizione che io condivido con una società più vasta a cui non si può fare a meno di appartenere. Una società più vera, più interessante, più autenticamente umana di quella percepibile e comprensibile da chi resta chiuso nelle autoreferenze di una presunzione egotista.
Quella di Verticelli non è un arte che ha come scopo la ricerca l’acquirente, ma intende interrogare con forza la persona, l’essere umano che si sente parte di una società civile. E non si limita a risolvere la propria provocazione nella semplice evidenza iconografica, ma elabora un sistema espressivo complesso e articolato nei suoi equilibri segnici e cromatici. Questo sistema di “relazione” tra elementi formali, appartiene ad una sensibilità visuale assolutamente attuale, perfettamente dentro i linguaggi della ricerca artistica d’oggi. Per questa ragione pensiamo che la grande differenza qualitativa di questo modo di “fare arte” stia esattamente nella capacità di coniugare alla forma della modernità, un pensiero credibile e condivisibile sulla stessa modernità.
Esiste dunque un’arte che ha da dire qualcosa, esiste ancora un pensiero da esprimere, una dignità da difendere, una medesimezza tra artista e società reale. Ma si potrà dimostrare che esiste un pubblico che la esige? Si potrà costruire un mercato virtuoso in cui chi acquista arte la sceglie per ciò che essa dice e non solo per lo status di riconoscibilità che essa fornisce? Non ha forse pieno diritto quest’arte eticamente credibile ad essere dentro le case, dentro le gallerie, dentro le riviste di chi desidera essere eticamente credibile?
La ricostruzione necessaria di un’etica in arte
[…] Certamente bisogna allargare lo sguardo verso l’”altrove”, cercare fuori dalle ostentazioni del mercato o anche dentro di esso magari, alla ricerca di ciò che non è facile né scontato, fuori dalle trasgressioni seriali compiaciute, fuori dalla ripetizione obbligata dei miti dell’individualismo borghese, fuori dalle quotazioni artefatte, fuori dalla moda, dal pubblicitaristico, fuori dalla contaminazione forzata, fuori dal videogioco, dal giovanilismo dagli adolescentismi, dall’autoreferenza. Ma dobbiamo anche, con strumenti credibili e con una intelligenza delle cose (che sia frutto di un desiderio di reale comprensione), cercare dentro ogni fenomeno, anche dentro le contraddizioni del mercato, per capire come possa aiutarci anch’esso a capire qualcosa della nostra contraddittoria Umanità.
Cercare dunque in qualsiasi luogo, in qualsiasi opera, in qualsiasi cosa che apra la relazione, il problema, il senso; alla ricerca di pensieri e di idee, alla ricerca di credibilità, di discussione, alla ricerca di cose dette nel reale, condivisibili, discutibili, ma che abbiano un sapore consistente e non la vanità dall’autocompiacimento.
In moltissime esperienze d’arte esiste ancora e si manifesta con varia decisione e chiarezza, una etica e una dignità dell’artista, perché esiste ancora la capacità tutta autenticamente umana, di condividere, di arrabbiarsi, di indignarsi, di ascoltare, di provare a capire. Esiste ancora la necessità di andare a fondo nelle questioni esistenziali e sociali soprattutto in quegli artisti che hanno la coscienza di vivere e affrontare sulla propria pelle l’evidenza della frustrazione, dell’ingiustizia, della povertà, del disagio, dell’emarginazione. Sono queste persone e artisti che vedono e si prendono la briga di esprimere pareri, di scegliere posizioni a riguardo perché ritengono prioritario ciò che è “umano” rispetto a ciò che può essere vendibile. Essere aperti alla discussione, ai problemi e all’etica sociale è componente forte dell’identità di coloro che sono eticamente distanti dalle ragioni mercantili. E se da un lato questa scelta li può tener distanti da un mercato “grasso”, dall’altro li avvicina notevolmente da ciò che è davvero importante in arte: costruire cultura, proporre “senso” e possibilità di capire o di orientarsi dentro le questioni che stanno al cuore del mondo e della società in cui si vive.
Ed è questo il quadro concettuale e analitico entro cui penso sia necessario leggere il senso di questa mostra, perché Danilo Verticelli è di quegli artisti che traggono forza e identità esattamente dalla sostanza etica del proprio pensare alla realtà concreta.
Credo che ciò sia evidente nella scelta e nella elaborazione che Danilo riesce a compiere e a condurre tra soggetto e elaborazione cromatica e formale: la deformazione o il riequilibrio del segno, l’altissima gamma cromatica contrastante come continua tensione emotiva, il tema iconografico del codice a barre, nuova pietra angolare di ogni identità, strumento di normalizzazione di storie e di tragedie, sono tutti dati visuali che ribadiscono una decisa presa di posizione di fronte a singole situazioni e a complesse implicazioni storico, sociali e mediatiche. Queste evidenze formali dimostrano che Verticelli non può rinunciare ad occuparsi della realtà, perché l’artista che è in primis, uomo del suo tempo, non può rinunciare a sentire una sorta di solidarietà con le cose, le persone, le esperienze e i pensieri, oggi alle prese con la tragedia più sottile e ambigua del contemporaneo che è appunto, la nullificazione del senso della realtà.
Il dramma della droga, le conseguenze della guerra irachena, la violenza del terrorismo, gli ideali e gli obiettivi di uguaglianza e giustizia sociale, l’uso delle cellule staminali … tutto è oggi è venduto o vendibile e in quanto tale, sottoposto alla legge superiore dell’eventuale utilità mercantile, al punto che quelli che sono stati e sono drammi umani, stravolgimenti sociali, idealità profonda che pur ancora le immagini potrebbero ricordarci, trovando una loro collocazione sul bancone, vengono serializzati dal trademark e resi disponibili, magari, per venderci la nuova Cinquecento o un paio di mutande. In questa situazione di dissoluzione del senso originario delle immagini generate da una insensata saturazione mediatica, anche l’identità storica si percepisce attraverso il possesso simbolico dell’oggetto, senza che si senta la reale necessità di comprenderla nella verità del percorso che l’ha resa tale. Le immagini della dura verità, della storia, dell’identità diventano proprietà manipolabile e vendibile al miglior offerente e diventa così stravolta la percezione stessa della nostra identità storica
Cosa resta di quelle verità, di quel dolore, di quei drammi dopo che il mercato immaginale se ne appropria attraverso un sistema retorico di ripetizioni disarticolate, capaci di arrivare alla nullificazione della sua realtà originaria?
La denuncia della pittura di Verticelli è implicitamente un richiamo profondo al riappropriarsi dell’identità e dell’impegno sociale: sotto c’è l’indignazione, direi, l’incazzatura costante per ogni mistificazione, falsità, manipolazione, ingiustizia. C’è dunque il desiderio implicito che così non debba essere, che la persona torni ad essere e a dire la verità delle cose.
Le opere di Verticelli si riappropriano di una funzione eticamente sensata che tenta di portare dentro il sistema dell’arte, in un linguaggio pop comunque leggibile, il “trojan horse”, il virus della latina “indignatio”: il mezzo pittorico raffinatissimo attira nella sua rutilante spettacolarità e nel suo somigliare apparente alla “leggerezza” pubblicitaria, per poi metterci di fronte ad una palese carica urticante e stridente generata dal recupero del senso reale di una immagine che pian piano l’occhio decodifica, che è l’immagine evocativa di tragedie realissime, nemmeno troppo distanti da noi.
Stando così a quanto detto prima nel quadro teorico di riferimento, appare chiaro che Verticelli ha compiuto un salto “esistenziale” atipico ma assolutamente necessario nel contesto dell’arte italiana contemporanea: non ci può essere reale funzione o sostanza d’arte se essa non rimanda ad un realtà cosciente e condivisa. La sua è dunque una posizione generata dalla necessità di dare senso al proprio fare, un senso che non sta nel compiacere l’acquirente, quanto nel rispondere ad una propria coscienza umanistica e civile. Ecco un esempio di etica artistica: non inseguire il compiacimento di pochi, blandendoli nelle loro autoconvinzioni, ma tentare di conservare la verità del senso ad una storia, ad un tempo, ad una condizione che io condivido con una società più vasta a cui non si può fare a meno di appartenere. Una società più vera, più interessante, più autenticamente umana di quella percepibile e comprensibile da chi resta chiuso nelle autoreferenze di una presunzione egotista.
Quella di Verticelli non è un arte che ha come scopo la ricerca l’acquirente, ma intende interrogare con forza la persona, l’essere umano che si sente parte di una società civile. E non si limita a risolvere la propria provocazione nella semplice evidenza iconografica, ma elabora un sistema espressivo complesso e articolato nei suoi equilibri segnici e cromatici. Questo sistema di “relazione” tra elementi formali, appartiene ad una sensibilità visuale assolutamente attuale, perfettamente dentro i linguaggi della ricerca artistica d’oggi. Per questa ragione pensiamo che la grande differenza qualitativa di questo modo di “fare arte” stia esattamente nella capacità di coniugare alla forma della modernità, un pensiero credibile e condivisibile sulla stessa modernità.
Esiste dunque un’arte che ha da dire qualcosa, esiste ancora un pensiero da esprimere, una dignità da difendere, una medesimezza tra artista e società reale. Ma si potrà dimostrare che esiste un pubblico che la esige? Si potrà costruire un mercato virtuoso in cui chi acquista arte la sceglie per ciò che essa dice e non solo per lo status di riconoscibilità che essa fornisce? Non ha forse pieno diritto quest’arte eticamente credibile ad essere dentro le case, dentro le gallerie, dentro le riviste di chi desidera essere eticamente credibile?
10
novembre 2007
Danilo Verticelli – Barcode
Dal 10 novembre all'otto dicembre 2007
arte contemporanea
Location
HUB
Pescara, Via 397 da denominare (zona nuovo Tribunale), 52, (Pescara)
Pescara, Via 397 da denominare (zona nuovo Tribunale), 52, (Pescara)
Orario di apertura
tutti i giorni 17-24
Vernissage
10 Novembre 2007, ore 18.30
Autore
Curatore