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Dario Ballantini
La mostra allestita ad Alassio intende celebrare l’identita’ pittorica di Ballantini, giungendo quasi come un’anteprima di un’altra grande mostra, l’ennesima in Europa, che la Triennale di Milano dedichera’ a partire da ottobre ad entrambi i Ballantini: l’artista e l’attore.
Comunicato stampa
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Giovedì 10 settembre, ad Alassio, alle ore 21.15, sarà inaugurata la mostra personale di Dario Ballantini, figura singolare di artista, un genio poliedrico che sa coniugare il sense of humor con una profonda sensibilità, anche tragica, nei confronti dell’umanità e della modernità.
Promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Alassio ed organizzata in collaborazione con Massimo Licinio Management di Milano, la mostra, curata da Nicola Angerame, propone nell’ex Chiesa Anglicana una selezione delle ultime opere pittoriche di Dario Ballantini, insieme ad alcuni dipinti del passato ed in particolare del periodo che precede la metà degli anni Ottanta.
Dario Ballantini è un poliedrico trasformista, la cui esuberanza e capacità di “essere più vero dell’originale” è amata da milioni di italiani, ma è anche pittore che opera in solitudine, lontano dai clamori dello spettacolo e completamente immerso nella propria interiorità.
“La mostra allestita ad Alassio” dice l’Assessore alla Cultura e al Turismo, Monica Zioni “intende celebrare l’identità pittorica di Ballantini, giungendo quasi come un’anteprima di un’altra grande mostra, l’ennesima in Europa, che la Triennale di Milano dedicherà a partire da ottobre ad entrambi i Ballantini: l’artista e l’attore. La stagione degli eventi ad Alassio non si chiude con la fine d’agosto. Abbiamo, infatti, programmato un settembre ricco di eventi culturali. Dopo Alassio Jazz che ha animato per tre sere Piazza Partigiani, la mostra di Ballantini, inaugurerà la nuova edizione del Premio Letterario Alassio 100 libri, che si svolgerà dall’11 al 13 settembre.”
L'opera di Dario Ballantini si sviluppa storicamente a partire da un nucleo centrale iconografico, rappresentato da una figura umana smarrita dentro la città. Si tratta di un mantra visivo, di una nenia pittorica che ripete il suo verso variandolo ogni volta in migliaia di declinazioni differenti. Il fascino di questa pittura immediata, istintiva e brutale può aggraziarsi fino a divenire “disegno”, con il pennello tenuto a freno dentro le dande di un gesto che ricerca equilibri cromatici e proporzioni di forme, oppure può sprofondare nella veemenza infervorata di un “attacco” alla tela, come se la pittura fosse un combattimento e lo studio un ring. L'incontro e lo scontro con la pittura, Dario Ballantini lo pratica da sempre, almeno da quando come dice lui “riempivo i miei diari di scuola di facce” e almeno da quando suo padre gli insegnava a comprendere quegli strani volti dipinti da Picasso. Ma è il suo eroe dell'adolescenza, il concittadino livornese Modigliani, che gli insegna probabilmente che la pittura è scontro, è amore e disperazione, è passione anche nel senso cristiano: condanna, sacrificio e passaggio verso la trascendenza.
Ballantini dichiara sovente di dipingere la notte e di farlo in modo piuttosto “automatico”, istintivo, non meditato. Pollock gli è vicino, laddove compaiono le più libere sgocciolature; Dubuffet lo incalza laddove il caos si organizza da sé per mostrare quanto possa essere gioiosa e vitale l'Art Brut. I pittori fauves, le “belve” che nel 1905 sconvolgono Parigi al Salon d'Autumne, sono i padri putativi di una paletta cromatica accesa che procede per contrasti.
La pittura di Dario Ballantini, al di là di ogni possibile messaggio “figurativo” e razionale, insegna innanzitutto questo: che la pittura può ancora essere lotta, destino, patimento, rapimento. Può ancora essere un'avventura “calda”, scottante, del tutto alternativa a quella pittura fredda, meticolosa e neo-manierista che si impone oggi come nuova koinè estetica. La città post-sironiana tratteggiata da Ballantini, la sua denuncia espressionista di un rapporto distorto tra uomo e città e le sue “maschere”, colte nello smarrimento di un'esistenza segnata dalla condanna pirandelliana ad essere “uno, nessuno e centomila”, non possono sviare l'attenzione da questo nucleo incandescente che resta la forza, il messaggio, la verità ultima della sua arte. Quel suo profondo essere un “corpo a corpo” con la pittura.
La mostra resterà allestita fino all’11 ottobre p.v.
Mostra: Dario Ballantini - A cura di: Nicola Davide Angerame -
Organizzazione: ECAA per conto dell’Assessorato alla Cultura e al Turismo di Alassio
Sede: Ex Chiesa Anglicana, Via Adelasia 10, Alassio - Periodo: 10 settembre/11 ottobre 2009 - Orari: da giovedì a domenica ore 15/19 - Ingresso: libero - catalogo in galleria - Informazioni: Comune di Alassio tel. 0182.648142 w.w.w.comune.alassio.sv.it
Dario Ballantini, noto ai telespettatori italiani come trasformista e inviato di Striscia La Notizia, è soprattutto artista. Nato a Livorno nel 1964, ha i primi incontri con la pittura già tra le mura di casa, con il padre che dipinge in stile neorealista e gli zii post-macchiaioli. È colpito dalle riproduzioni delle opere di Guttuso e Picasso, viste nei volumi degli Editori Riuniti distribuiti dal padre.
Nell'adolescenza scopre le canzoni di Luigi Tenco, la cui figura diventa anche il soggetto di molti ritratti. Dopo aver frequentato un corso di tratteggio tenuto dal Prof. Giulio Guiggi (1912-1994) si iscrive all'indirizzo artistico del Liceo Sperimentale di Livorno, dove è allievo di Giancarlo Cocchia, (1924-1987) si diplomerà nel 1984.
Nel frattempo comincia anche a manifestarsi la sua febbre da palcoscenico ereditata dal nonno materno attore di compagnie filodrammatiche. A sedici anni visita a Parigi la grande mostra su Amedeo Modigliani (Museo dell’Arte Moderna) la cui opera sarà fondamentale per il suo iniziale percorso artistico. Il soggetto su cui si esercita in questo periodo è il volto di Totò così irregolare da ricordare le scomposizioni cubiste, oltre ai ritratti e le caricature dei compagni e professori di liceo con cui riempie intere agende scolastiche.
Finito il liceo conosce e frequenta il pittore Maurilio Colombini e il gallerista Cesare Rotini cominciando ad esporre nell’ambito Livornese-Toscano dapprima con un ritratto di Pierpaolo Pasolini di stampo neo realista e in seguito con opere dal richiamo espressionista in collettive e personali. Molte sue opere di piccolo formato vengono periodicamente acquistate all’organizzatore di alcuni premi regionali di poesia Giovanni Merlo con le quali vengono premiati i vincitori.
Questo e' un primo incoraggiamento a produrre e Ballantini si inserisce, pur avendo uno stile che contrasta con il mondo locale di pittura post macchiaiola nel foltissimo numero di pittori che da sempre operano a Livorno partecipando a vari concorsi ed esposizioni di gruppo tra cui tre rassegne “Rotonda Expo”. Nel 1989 frequenta un corso di grafica pubblicitaria tenuto dal Prof. Leonardo Baglioni e dello stesso anno è la sua ultima uscita personale con una mostra alla Galleria Teorema di Firenze di cui scriverà il critico Nicola Nuti.
La mostra sarà però deludente per Ballantini, anche Firenze infatti sembra abituata ai pittori livornesi di vecchia tradizione e per di più un espressionista cupo com’e' allora Ballantini stona con gli anni ‘80 perché chi osa di più anche tra i suoi colleghi si rifà eventualmente a certi americanismi di maniera già più vicini alla pop art.
Farà seguito quindi un lungo periodo in cui l’Artista (forte della vittoria di un concorso tv per talenti di cabaret) si impegnerà soprattutto negli altri suoi campi di espressione coltivati parallelamente: il teatro il cinema e la televisione.
La sua gestualità pittorica viene quindi trasportata in queste nuove esperienze esprimendosi con gli studi preparatori di trucchi speciali per le sue note trasformazioni televisive (culminati col successo di Striscia La Notizia) e con le scenografie degli spettacoli teatrali: la piece “Petrolini Petrolini” di cui è autore ed interprete viene dapprima rappresentata in occasione di un incontro con l’ultimo futurista allora vivente Osvaldo Peruzzi (1907-2004) fino a figurare in cartellone nel 2000 ad Asti teatro, rassegna diretta da Vittorio Sgarbi. Ballantini realizza anche un cortometraggio usando tra l’altro immagini dei suoi dipinti "la chiave per il mare"che partecipa al "Bellaria Film Festival" scritto con Fabrizio Torri. Nel 2000 conosce il grafico Michele Rossi per il quale realizza i ritratti di alcuni grandi personaggi dello spettacolo tra cui Bice Valori ed Erminio Macario per il Festival "Acquaviva nei fumetti"di Acquaviva Picena.
Nel maggio 2001 inviato dal Tg satirico di Antonio Ricci incontra a San Benedetto del Tronto Achille Bonito Oliva alla mostra “A.B.O. le arti della critica” con cui ha modo di riparlare di pittura e da cui riceverà proficui consigli.
Si trasferisce definitivamente a Milano e nello stesso periodo conosce il giornalista Stefano Lorenzetto che scoprendo la sua attività pittorica quasi sospesa gli propone di realizzare una nuova esposizione.
È il momento della svolta: il suo manager Massimo Licinio già amico ed estimatore di Dario, decide di incoraggiarlo ad intraprendere di nuovo la carriera pittorica partecipando di fatto all’organizzazione della mostra la cui presentazione del catalogo sarà affidata, grazie ai buoni auspici della comune amica Marta Marzotto, a Giancarlo Vigorelli (1913-2005).
La mostra del maggio 2002 ha un ottimo successo di critica di pubblico, costituendo quindi una vera e propria “rinascita” come pittore.
Nell'ottobre dello stesso anno, Ballantini espone alla Galleria Borromeo di Padova; nel mese successivo, visita Jean Michel Folon (1934-2005) nello studio dell'artista a Montecarlo e Pietro Cascella nell'atelier di Fivizzano, i quali lo incoraggiano mostrando di apprezzare le sue opere. Intanto partecipa con il Gruppo Labronico ad un'esposizione al Parlamento Europeo di Bruxelles.
Si intensifica il rapporto con Achille Bonito Oliva, che stimola Ballantini ad una scelta più coraggiosa e accurata delle opere da preferire rispetto alla passata produzione.
Anche Giancarlo Vigorelli mostra di apprezzare questa trasformazione. I tempi sono maturi per organizzare una mostra a Milano, dove Dario trova la collaborazione della galleria Artesanterasmo.
Viste e apprezzate le opere, il gallerista Sorrentino propone al prof. Luciano Caprile una visita nello studio di Ballantini a Milano. Da questo incontro nasce un'intesa culturale sulle tematiche delle opere e Caprile decide con entusiasmo di occuparsi della stesura del testo critico.
La mostra di Milano riscuote un notevole successo di pubblico e critica; successivamente Ballantini espone alle gallerie GMB di Vicenza, Bassano del Grappa e Madonna di Campiglio.
Nel novembre 2003 partecipa all'esposizione collettiva "Da Fattori al Gruppo Labronico" alla galleria Athena di Livorno.
Nello stesso mese incontra a Roma, presso la galleria TaMatete (in occasione dell'esposizione "Soft Paintings"), Ugo Nespolo, il quale mostra di apprezzare notevolmente le sue opere. I due si incontreranno più volte nel corso di questi anni collaborando col mercante Cristiano Ragni.
È invece del febbraio 2004 la personale curata da Gian Ruggero Manzoni presso la galleria Gasparelli Arte Contemporanea di Fano. In seguito, sollecitato dal professor Caprile, Ballantini incontra il gallerista Roberto Rotta a Genova ed insieme decidono di preparare la mostra "Fine del mito".
Nel luglio 2004 partecipa - presso la Casa Natale Modigliani di Livorno diretta da Giorgio Guastalla - alla mostra permanente "Modigliani e i suoi amici di oggi", un omaggio al grande artista scomparso nel 1920 da parte di pittori di varie generazioni, tra cui Bay, Guttuso, Rotella e Kostabi.
Dopo Genova, nel corso del 2005 la mostra "Fine del mito" si è svolta alla galleria Canci di Lerici , a Como presso la galleria ComoArte, a Cesenatico presso la galleria DZ Nuovo Segno, a Porto San Giorgio presso la galleria Imperatori.
In occasione della premiazione “Telegatti 2005" viene riprodotta su porcellana un opera realizzata appositamente per Tv Sorrisi e Canzoni e R101 e consegnata a tutti i premiati. Nel marzo 2006 il critico Luciano Lepri lo invita ad esporre alla Galleria Minerva di Perugia.
In quell’occasione Ballantini visita lo studio del pittore Franco Venanti. Nel maggio dello stesso anno il critico Fabio Marcelli, curatore della mostra internazionale sul Gentile da Fabriano, colpito dalle opere di Dario decide di curare l’allestimento di una sua mostra allo spazio “Regalobello” nelle “Ex Distillerie Montini” a Fabriano.
La mostra è visitata e apprezzata da Enrico Crispolti che in seguito scriverà un importante testo critico. Tra i visitatori figura anche Ivano Fossati che decide di “vestire” il suo palco per il tour “L’Arcangelo” con le opere di Ballantini riprodotte in grande scala. Oltre alle scenografie Dario realizza la personalizzazione del pianoforte di Fossati.
Nel giugno 2006 Ballantini realizza l’etichetta personalizzata “Un Fiore per Ivan” in memoria di Ivan Graziani prodotta da Marcello Zaccagnini in occasione della manifestazione annuale “Pigro”.
Nel settembre 2006, visita la mostra “Da Da Da Dadaismi del contemporaneo” di Achille Bonito Oliva con il quale realizza un servizio televisivo. In seguito in occasione dell’esposizione “Una modella per l’Arte” di Acqui Terme, Dario incontra dopo venti anni Maurilio Colombini con il quale ha un lungo confronto che darà un nuovo stimolo alla sua pittura orientandola verso una maggiore libertà e gestualità. Nell’ottobre 2006 il Corriere della Sera invita Ballantini a presentare, sotto forma di intervista, la grande mostra "Turner e gli Impressionisti” al museo di Santa Giulia a Brescia. Art Verona 2006, allestisce uno spazio espositivo con le sue nuove opere all’interno dello stand della Galleria Artesanteramo. Nel febbraio 2007 al Teatro Eliseo di Roma vengono proiettate le immagini di alcune sue opere durante la lettura di un testo di Oliver Py interpretato da Leo Gullotta nell'ambito della rassegna sulle nuove drammaturgie francesi. Nel 2007 ha esposto nuovamente alla Galleria Artesanterasmo, alla Galleria Rotaross di Novara alla Galleria Art Gallery di Alzano Lombardo al Palazzo Robellini di Acqui Terme, alla Casa dell'Arte al Teatro di Piacenza, alla Galleria Artequadri di Schiumerini a Cosenza. Nel febbraio 2008 alla Galleria del Palazzo Coveri ed il 04 aprile a Napoli a Castel dell'Ovo. Nel novembre 2008 inaugura la sua personale dal titolo "Visioni Sommerse" alla Galleria 18 di Bologna con la quale nel maggio 2009 è presente a Parigi. Sempre nel novembre 2008 a Firenze presso l'Hotel Savoy inaugura la mostra dal titolo "Un altra verita'".
Labirinti esistenziali
Conversazione con Dario Ballantini
a cura di Nicola Davide Angerame
Colori accesi, pennellate violente, sensibilità incandescente, iconografia tesa alla denuncia: la tua pittura sembra fatalmente attratta dall’Espressionismo…
Prima, però, fra i miei ricordi d’infanzia viene mio padre, che mi spiegava perché quel viso di Picasso era fatto così. Il mio primo innamoramento verso questo genere di artisti c’è stato a scuola, così come ho seguito con interesse il discorso atipico di Modigliani, artista di Livorno che mi attraeva in adolescenza anche per la sua vita di artista maledetto. Negli anni adolescenziali è tipico condividere quella disperazione che lui ha vissuto, credo. Un sentire che poi ti trascini nella vita. A scuola ho imparato e studiato tutti i tipi di arte ma sono rimasto innamorato di questi grandi esempi.
Nella tua produzione non mancano mai i volti, una fascinazione che subisci da sempre?
Io ho sempre studiato e ritratto i volti, fin dall’infanzia. Da quando disegnavo fumetti o facevo scarabocchi sui diari, che colmavo di visi ed espressioni. La mia è una passione per la bellezza del volto. Non ho mai fatto opere dove non ci fosse un essere umano.
Sono volti ma sono anche maschere. Possiedono fattezze “negre”, robuste e primitive come quelle delle maschere. Ci leggo quasi un omaggio alla negritudine di primo Novecento, quella dei primi scrittori africani anticolonialisti e che ha fatto innamorare l'Europa di Josephine Baker, senza contare il debito di Picasso... Cosa leggi nei volti?
Tante cose. È una mia passione atavica, che alimenta anche l’altra mia attività. Io sono un lettore di volti. E' vero, i miei volti sono anche maschere, perché ciascun volto lo è in fondo. La maschera svela il dramma dell’esistenza mentre cerca di coprire la debolezza umana. E quando leggi la maschera è ancora peggio.
Mi fai venire in mente la straordinaria poetica di Luigi Pirandello: uno, nessuno e centomila...
Lo avrei citato ora. Io conosco molto bene Pirandello, poiché mio fratello, che è un appassionato maniacale della sua opera, mi ha passato i libri. Nella maschera c’è questa verità filosofica e c’è il teatro. In passato ho anche collezionato maschere africane. Mi hanno sempre attratto, ma non so perché.
La tua arte si potrebbe definire una ritrattistica mascherata. Ci vedo, ribaltata di 180 gradi, l'idea ossessiva di Rembrandt di rivolgere la propria pittura verso se stesso, producendo la più vasta e significativa autoritrattistica della storia dell'arte. Tu lo fai per interposti personaggi, ma alla fine quelle maschere sono le tue...
Le maschere vengono fuori da sé. Sono sempre venute, già dai primi anni di lavoro, quando a Livorno ero accusato di essere triste e macabro. Ma credo che i miei personaggi possano essere piuttosto definiti come maschere tragicomiche. Erano facce che io attingevo dal fumetto. Una volta Vittorio Sgarbi ha detto che sono un incrocio tra Picasso e i Simpson. Mi pare vero. Se guardi gli occhi dei miei personaggi ti accorgi che sono vicini a quelli di Matt Groening: in fondo si rivelano disperati, tristi e tragicomici. Non ho mai saputo farli diversamente.
Nella tua produzione c’è spesso la città in sottofondo. Che rapporto hai con lei?
Io ho avuto un’esperienza direi negativa con le città. Ora questo modo di viverle è un po’ scomparso, ma ritengo che la città sia una costruzione dell’uomo che mi ha sempre un po’ angosciato. I palazzi, ad esempio, li ho sempre identificati come luoghi in cui le vicende umane scorrono e si alternano mentre loro rimangono lì a fissarti con le finestre che sembrano tanti occhi. Dentro di loro la vita delle persone trascorre e passa. E loro restano lì, minacciosi. I paesaggi industriali invece sono per me il simbolo dell’alienazione dell’uomo rispetto ad un progresso forzato. Se vuoi, si può affermare che nella mia pittura realizzo un “futurismo alla rovescia”. Invece di inneggiare alla macchina la esalto come causa della decadenza dell’essere umano.
Eppure, ribaltando il discorso, si potrebbe sostenere che, a differenza della tetra rappresentazione che ne ha dato Mario Sironi, la tua città è sì opprimente e incombente, ma viene tratteggiata con una tale esplosione cromatica, e con una graffiante paletta post fauvista, che si direbbe essere una città vitale, luminosa, sgargiante, piena di rumori e di vita. Lo si vede bene ne “Il giorno davanti” (2006) o in “Ferma un attimo” (2007).
Senz’altro quello che mi ha spaventato della metropoli è anche quello che mi ha affascinato e che mi ha permesso di attuare una svolta professionale. Soltanto con il mio trasferimento a Milano, e soltanto nel confronto con le persone che la città ha reso possibile, ho realizzato quanto desideravo. Quello che sono professionalmente lo devo alla metropoli. Vi si fa una vita diversa, una vita che cerco disperatamente di evidenziare nei miei colori e che coinvolge la vitalità e l’angoscia provocata dall’urbanizzazione selvaggia. La città è un coacervo di stimoli ma è anche una pressa. Per quel che mi riguarda, sono uscito bene dal rapporto con la città, ma non ci si può nascondere che la sua nascita abbia cancellato tante cose, nel mio passato come in quello delle persone che un tempo, prima di noi, trovavano nella dimensione paesana altri nuclei di aggregazione, ormai scomparsi.
Lo racconta bene il film di Fritz Lang “Metropolis”: la città che macina esseri umani ridotti a schiavi senz’anima a persone de-individualizzate. Ma la città è anche una risposta. Italo Calvino ha scritto: “D 'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.
La metropoli offre anche una buona occasione a certi individui di mostrare la forza dell’essere umano. In queste condizioni vengono fuori i messaggeri di qualcosa di più alto, anche se tristemente la maggior parte soccombe.
Vorrei parlare di alcune opere selezionate per questa mostra: dopo molti anni di produzione rivolta alla tematica della figura immersa o pressata nella città, Due mondi (2009) lascia da parte lo sfondo urbano, che si trasforma in pura pittura d’azione, brutale e divertente come quella di un maestro assoluto come Jean Dubuffet.
Quella dell’Art Brut era un direzione che mi suggeriva tempo fa Achille Bonito Oliva. Ma io non considero i miei quadri un divertimento per il pubblico, anche se per me lo sono. Mi diverte usare una pittura “brutta” o “brutale”, mi affascina deformare i volti e le cose, ma lo faccio più per riflesso o per istintivo. Non seguo uno stile specifico già codificato dalla storia dell’arte.
I titoli delle tue opere sono spesso evocativi, sembrano frammenti caduti da un discorso interiore oppure con un “tu” così intimo da far pensare ad una relazione esclusiva, alla quale lo spettatore viene ammesso affinché conosca la propria distanza. Ad esempio, nell’opera “Cosa ho visto” (2008), l’uomo si tiene con le mani il capo. Ricorda “L’urlo” di Munch. La domanda è: che cosa hai visto?
Ho visto quanto può diventare abisso il vivere umano e quale direzione sbagliata può prendere. Anche se in fondo è riferito a un mio vissuto personale, riguarda tutta l’umanità. Il quadro ritrae un grido muto di spavento ed è una esortazione a non finire nell’abisso. È il rischio del libero arbitrio, dal quale voglio metter in guardia. Grazie a lui si possono commettere atti sublimi o miserrimi.
Nelle tue opere c’è spesso un singolo personaggio oppure una coppia. Mai più di due persone, come se la dimensione della comunità, della vita sociale intesa come aggregazione di più persone, fosse uno scenario a te estraneo. Tanto più singolare in quanto la tua seconda natura ti dichiara “personaggio pubblico”. In “Dalla tua parte” (2009) una coppia si mostra intenta in una delicata relazione.
La mia scelta, come tu hai appena fatto notare, ha a che fare con le relazioni in generale, che ritengo debbano essere preziose, quasi segrete, intime e approfondite. È bello il dialogo fra due amici, fra persone con le medesime affinità. Se le persone sono tre è già troppo. Puoi scoprire che uno si distrae, guarda da un’altra parte. Siamo soli al mondo, va tenuto presente, ma sento che su certi argomenti, sulle affinità come dicevo, ci si può ritrovare e unire. Ciò vale tanto più per il singolo, per il quale il dialogo può avvenire tra le diverse sfaccettature della sua personalità. Anche se ci illudiamo di essere un tutt’uno non possiamo fare a meno di essere una molteplicità in cerca di dialogo con se stessa.
Un dialogo non sempre risolutivo...
Un dialogo destinato a fallire spesso. L’angoscia dell’isolamento credo che dipenda dalla esigua possibilità di aiutare se stessi, di farcela da soli con la propria personalità, con le proprie forze. Nella mia pittura voglio rendere meno drammatico questo aspetto.
Parliamo ancora dei titoli delle tue opere. Sono evocativi, ma anche indeterminati. Lasciano lo spettatore sull’uscio eppure lo chiamano dentro un tentativo di relazione tra lui e te...
Non so cosa sia l’arte, ma so che deve emozionare. L’arte attinge ad un mondo un po’ inspiegabile. Grazie al titolo io posso dialogare con l’opera, dando al pubblico un’indicazione di ciò che ho sentito al termine della realizzazione. Uso molto distacco. Un collega mi disse che avrei dovuto scrivere in grande i titoli su ciascuna opera, ma per me il titolo deve restare un suggerimento. Altrimenti impedisce a chi guarda di trovare la propria interpretazione.
Veniamo alla tua multipla identità. Come dialogano il pittore con l'attore, il trasformista e l'imitatore?
Le mie due attività sono sempre state parallele, ma ho rinforzato quella di trasformista perché in essa c’era una maggiore facilità. Era più appagante essere capito. Arrivavo da una situazione in cui ero un pittore a Livorno macabro e triste, che nessuno capiva bene cosa volesse dire, mentre l’altra attività risultava più facile e remunerativa. Era più immediato far scattare la risata. Tutto si basava su qualcosa di meno imprevedibile. Con la pittura mi era sorto una specie di senso di colpa. Quando non hai la risposta del pubblico significa che hai sbagliato tu e per una persona sensibile può rappresentare una crisi. Fortunatamente, grazie al supporto di Massimo Licinio ho ricominciato a dipingere e oggi la pittura occupa un ottimo posto all’interno della mia vita quotidiana. Mi è tornata una gran voglia di creare, che ricordo di avere da quando ero piccino. Era un desiderio che avevo addirittura dalle elementari. Alle medie riempivo i miei diari di facce. Molti saranno esposti nella mia retrospettiva alla Triennale di Milano, subito dopo la mostra di Alassio. La necessità di disegnare volti è per me una ossessione. Ora che c’è la risposta del pubblico e l’apprezzamento della critica, la mia ossessione non ha più ostacoli.
Se ho ben capito, quindi, la tua attività di esuberante imitatore, conosciuto e amato da milioni di persone, nasce in realtà dal silenzio della pittura, dalla solitudine contemplativa dello studio, tra tele, colori e pennelli. Una vecchia storia, come quella della maschera del clown, che ne cela la personale angoscia esistenziale, che deve piangere per far ridere...
Sì, nasce da lì la mia attività di trasformista. Studio le facce per lavoro, ma lo faccio con tutte le persone che incontro. Nella pittura quei volti ritornano assorbiti nei tratti essenziali. Osservare le rughe d’espressione o la luce degli occhi è un esercizio infinito.
Promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Alassio ed organizzata in collaborazione con Massimo Licinio Management di Milano, la mostra, curata da Nicola Angerame, propone nell’ex Chiesa Anglicana una selezione delle ultime opere pittoriche di Dario Ballantini, insieme ad alcuni dipinti del passato ed in particolare del periodo che precede la metà degli anni Ottanta.
Dario Ballantini è un poliedrico trasformista, la cui esuberanza e capacità di “essere più vero dell’originale” è amata da milioni di italiani, ma è anche pittore che opera in solitudine, lontano dai clamori dello spettacolo e completamente immerso nella propria interiorità.
“La mostra allestita ad Alassio” dice l’Assessore alla Cultura e al Turismo, Monica Zioni “intende celebrare l’identità pittorica di Ballantini, giungendo quasi come un’anteprima di un’altra grande mostra, l’ennesima in Europa, che la Triennale di Milano dedicherà a partire da ottobre ad entrambi i Ballantini: l’artista e l’attore. La stagione degli eventi ad Alassio non si chiude con la fine d’agosto. Abbiamo, infatti, programmato un settembre ricco di eventi culturali. Dopo Alassio Jazz che ha animato per tre sere Piazza Partigiani, la mostra di Ballantini, inaugurerà la nuova edizione del Premio Letterario Alassio 100 libri, che si svolgerà dall’11 al 13 settembre.”
L'opera di Dario Ballantini si sviluppa storicamente a partire da un nucleo centrale iconografico, rappresentato da una figura umana smarrita dentro la città. Si tratta di un mantra visivo, di una nenia pittorica che ripete il suo verso variandolo ogni volta in migliaia di declinazioni differenti. Il fascino di questa pittura immediata, istintiva e brutale può aggraziarsi fino a divenire “disegno”, con il pennello tenuto a freno dentro le dande di un gesto che ricerca equilibri cromatici e proporzioni di forme, oppure può sprofondare nella veemenza infervorata di un “attacco” alla tela, come se la pittura fosse un combattimento e lo studio un ring. L'incontro e lo scontro con la pittura, Dario Ballantini lo pratica da sempre, almeno da quando come dice lui “riempivo i miei diari di scuola di facce” e almeno da quando suo padre gli insegnava a comprendere quegli strani volti dipinti da Picasso. Ma è il suo eroe dell'adolescenza, il concittadino livornese Modigliani, che gli insegna probabilmente che la pittura è scontro, è amore e disperazione, è passione anche nel senso cristiano: condanna, sacrificio e passaggio verso la trascendenza.
Ballantini dichiara sovente di dipingere la notte e di farlo in modo piuttosto “automatico”, istintivo, non meditato. Pollock gli è vicino, laddove compaiono le più libere sgocciolature; Dubuffet lo incalza laddove il caos si organizza da sé per mostrare quanto possa essere gioiosa e vitale l'Art Brut. I pittori fauves, le “belve” che nel 1905 sconvolgono Parigi al Salon d'Autumne, sono i padri putativi di una paletta cromatica accesa che procede per contrasti.
La pittura di Dario Ballantini, al di là di ogni possibile messaggio “figurativo” e razionale, insegna innanzitutto questo: che la pittura può ancora essere lotta, destino, patimento, rapimento. Può ancora essere un'avventura “calda”, scottante, del tutto alternativa a quella pittura fredda, meticolosa e neo-manierista che si impone oggi come nuova koinè estetica. La città post-sironiana tratteggiata da Ballantini, la sua denuncia espressionista di un rapporto distorto tra uomo e città e le sue “maschere”, colte nello smarrimento di un'esistenza segnata dalla condanna pirandelliana ad essere “uno, nessuno e centomila”, non possono sviare l'attenzione da questo nucleo incandescente che resta la forza, il messaggio, la verità ultima della sua arte. Quel suo profondo essere un “corpo a corpo” con la pittura.
La mostra resterà allestita fino all’11 ottobre p.v.
Mostra: Dario Ballantini - A cura di: Nicola Davide Angerame -
Organizzazione: ECAA per conto dell’Assessorato alla Cultura e al Turismo di Alassio
Sede: Ex Chiesa Anglicana, Via Adelasia 10, Alassio - Periodo: 10 settembre/11 ottobre 2009 - Orari: da giovedì a domenica ore 15/19 - Ingresso: libero - catalogo in galleria - Informazioni: Comune di Alassio tel. 0182.648142 w.w.w.comune.alassio.sv.it
Dario Ballantini, noto ai telespettatori italiani come trasformista e inviato di Striscia La Notizia, è soprattutto artista. Nato a Livorno nel 1964, ha i primi incontri con la pittura già tra le mura di casa, con il padre che dipinge in stile neorealista e gli zii post-macchiaioli. È colpito dalle riproduzioni delle opere di Guttuso e Picasso, viste nei volumi degli Editori Riuniti distribuiti dal padre.
Nell'adolescenza scopre le canzoni di Luigi Tenco, la cui figura diventa anche il soggetto di molti ritratti. Dopo aver frequentato un corso di tratteggio tenuto dal Prof. Giulio Guiggi (1912-1994) si iscrive all'indirizzo artistico del Liceo Sperimentale di Livorno, dove è allievo di Giancarlo Cocchia, (1924-1987) si diplomerà nel 1984.
Nel frattempo comincia anche a manifestarsi la sua febbre da palcoscenico ereditata dal nonno materno attore di compagnie filodrammatiche. A sedici anni visita a Parigi la grande mostra su Amedeo Modigliani (Museo dell’Arte Moderna) la cui opera sarà fondamentale per il suo iniziale percorso artistico. Il soggetto su cui si esercita in questo periodo è il volto di Totò così irregolare da ricordare le scomposizioni cubiste, oltre ai ritratti e le caricature dei compagni e professori di liceo con cui riempie intere agende scolastiche.
Finito il liceo conosce e frequenta il pittore Maurilio Colombini e il gallerista Cesare Rotini cominciando ad esporre nell’ambito Livornese-Toscano dapprima con un ritratto di Pierpaolo Pasolini di stampo neo realista e in seguito con opere dal richiamo espressionista in collettive e personali. Molte sue opere di piccolo formato vengono periodicamente acquistate all’organizzatore di alcuni premi regionali di poesia Giovanni Merlo con le quali vengono premiati i vincitori.
Questo e' un primo incoraggiamento a produrre e Ballantini si inserisce, pur avendo uno stile che contrasta con il mondo locale di pittura post macchiaiola nel foltissimo numero di pittori che da sempre operano a Livorno partecipando a vari concorsi ed esposizioni di gruppo tra cui tre rassegne “Rotonda Expo”. Nel 1989 frequenta un corso di grafica pubblicitaria tenuto dal Prof. Leonardo Baglioni e dello stesso anno è la sua ultima uscita personale con una mostra alla Galleria Teorema di Firenze di cui scriverà il critico Nicola Nuti.
La mostra sarà però deludente per Ballantini, anche Firenze infatti sembra abituata ai pittori livornesi di vecchia tradizione e per di più un espressionista cupo com’e' allora Ballantini stona con gli anni ‘80 perché chi osa di più anche tra i suoi colleghi si rifà eventualmente a certi americanismi di maniera già più vicini alla pop art.
Farà seguito quindi un lungo periodo in cui l’Artista (forte della vittoria di un concorso tv per talenti di cabaret) si impegnerà soprattutto negli altri suoi campi di espressione coltivati parallelamente: il teatro il cinema e la televisione.
La sua gestualità pittorica viene quindi trasportata in queste nuove esperienze esprimendosi con gli studi preparatori di trucchi speciali per le sue note trasformazioni televisive (culminati col successo di Striscia La Notizia) e con le scenografie degli spettacoli teatrali: la piece “Petrolini Petrolini” di cui è autore ed interprete viene dapprima rappresentata in occasione di un incontro con l’ultimo futurista allora vivente Osvaldo Peruzzi (1907-2004) fino a figurare in cartellone nel 2000 ad Asti teatro, rassegna diretta da Vittorio Sgarbi. Ballantini realizza anche un cortometraggio usando tra l’altro immagini dei suoi dipinti "la chiave per il mare"che partecipa al "Bellaria Film Festival" scritto con Fabrizio Torri. Nel 2000 conosce il grafico Michele Rossi per il quale realizza i ritratti di alcuni grandi personaggi dello spettacolo tra cui Bice Valori ed Erminio Macario per il Festival "Acquaviva nei fumetti"di Acquaviva Picena.
Nel maggio 2001 inviato dal Tg satirico di Antonio Ricci incontra a San Benedetto del Tronto Achille Bonito Oliva alla mostra “A.B.O. le arti della critica” con cui ha modo di riparlare di pittura e da cui riceverà proficui consigli.
Si trasferisce definitivamente a Milano e nello stesso periodo conosce il giornalista Stefano Lorenzetto che scoprendo la sua attività pittorica quasi sospesa gli propone di realizzare una nuova esposizione.
È il momento della svolta: il suo manager Massimo Licinio già amico ed estimatore di Dario, decide di incoraggiarlo ad intraprendere di nuovo la carriera pittorica partecipando di fatto all’organizzazione della mostra la cui presentazione del catalogo sarà affidata, grazie ai buoni auspici della comune amica Marta Marzotto, a Giancarlo Vigorelli (1913-2005).
La mostra del maggio 2002 ha un ottimo successo di critica di pubblico, costituendo quindi una vera e propria “rinascita” come pittore.
Nell'ottobre dello stesso anno, Ballantini espone alla Galleria Borromeo di Padova; nel mese successivo, visita Jean Michel Folon (1934-2005) nello studio dell'artista a Montecarlo e Pietro Cascella nell'atelier di Fivizzano, i quali lo incoraggiano mostrando di apprezzare le sue opere. Intanto partecipa con il Gruppo Labronico ad un'esposizione al Parlamento Europeo di Bruxelles.
Si intensifica il rapporto con Achille Bonito Oliva, che stimola Ballantini ad una scelta più coraggiosa e accurata delle opere da preferire rispetto alla passata produzione.
Anche Giancarlo Vigorelli mostra di apprezzare questa trasformazione. I tempi sono maturi per organizzare una mostra a Milano, dove Dario trova la collaborazione della galleria Artesanterasmo.
Viste e apprezzate le opere, il gallerista Sorrentino propone al prof. Luciano Caprile una visita nello studio di Ballantini a Milano. Da questo incontro nasce un'intesa culturale sulle tematiche delle opere e Caprile decide con entusiasmo di occuparsi della stesura del testo critico.
La mostra di Milano riscuote un notevole successo di pubblico e critica; successivamente Ballantini espone alle gallerie GMB di Vicenza, Bassano del Grappa e Madonna di Campiglio.
Nel novembre 2003 partecipa all'esposizione collettiva "Da Fattori al Gruppo Labronico" alla galleria Athena di Livorno.
Nello stesso mese incontra a Roma, presso la galleria TaMatete (in occasione dell'esposizione "Soft Paintings"), Ugo Nespolo, il quale mostra di apprezzare notevolmente le sue opere. I due si incontreranno più volte nel corso di questi anni collaborando col mercante Cristiano Ragni.
È invece del febbraio 2004 la personale curata da Gian Ruggero Manzoni presso la galleria Gasparelli Arte Contemporanea di Fano. In seguito, sollecitato dal professor Caprile, Ballantini incontra il gallerista Roberto Rotta a Genova ed insieme decidono di preparare la mostra "Fine del mito".
Nel luglio 2004 partecipa - presso la Casa Natale Modigliani di Livorno diretta da Giorgio Guastalla - alla mostra permanente "Modigliani e i suoi amici di oggi", un omaggio al grande artista scomparso nel 1920 da parte di pittori di varie generazioni, tra cui Bay, Guttuso, Rotella e Kostabi.
Dopo Genova, nel corso del 2005 la mostra "Fine del mito" si è svolta alla galleria Canci di Lerici , a Como presso la galleria ComoArte, a Cesenatico presso la galleria DZ Nuovo Segno, a Porto San Giorgio presso la galleria Imperatori.
In occasione della premiazione “Telegatti 2005" viene riprodotta su porcellana un opera realizzata appositamente per Tv Sorrisi e Canzoni e R101 e consegnata a tutti i premiati. Nel marzo 2006 il critico Luciano Lepri lo invita ad esporre alla Galleria Minerva di Perugia.
In quell’occasione Ballantini visita lo studio del pittore Franco Venanti. Nel maggio dello stesso anno il critico Fabio Marcelli, curatore della mostra internazionale sul Gentile da Fabriano, colpito dalle opere di Dario decide di curare l’allestimento di una sua mostra allo spazio “Regalobello” nelle “Ex Distillerie Montini” a Fabriano.
La mostra è visitata e apprezzata da Enrico Crispolti che in seguito scriverà un importante testo critico. Tra i visitatori figura anche Ivano Fossati che decide di “vestire” il suo palco per il tour “L’Arcangelo” con le opere di Ballantini riprodotte in grande scala. Oltre alle scenografie Dario realizza la personalizzazione del pianoforte di Fossati.
Nel giugno 2006 Ballantini realizza l’etichetta personalizzata “Un Fiore per Ivan” in memoria di Ivan Graziani prodotta da Marcello Zaccagnini in occasione della manifestazione annuale “Pigro”.
Nel settembre 2006, visita la mostra “Da Da Da Dadaismi del contemporaneo” di Achille Bonito Oliva con il quale realizza un servizio televisivo. In seguito in occasione dell’esposizione “Una modella per l’Arte” di Acqui Terme, Dario incontra dopo venti anni Maurilio Colombini con il quale ha un lungo confronto che darà un nuovo stimolo alla sua pittura orientandola verso una maggiore libertà e gestualità. Nell’ottobre 2006 il Corriere della Sera invita Ballantini a presentare, sotto forma di intervista, la grande mostra "Turner e gli Impressionisti” al museo di Santa Giulia a Brescia. Art Verona 2006, allestisce uno spazio espositivo con le sue nuove opere all’interno dello stand della Galleria Artesanteramo. Nel febbraio 2007 al Teatro Eliseo di Roma vengono proiettate le immagini di alcune sue opere durante la lettura di un testo di Oliver Py interpretato da Leo Gullotta nell'ambito della rassegna sulle nuove drammaturgie francesi. Nel 2007 ha esposto nuovamente alla Galleria Artesanterasmo, alla Galleria Rotaross di Novara alla Galleria Art Gallery di Alzano Lombardo al Palazzo Robellini di Acqui Terme, alla Casa dell'Arte al Teatro di Piacenza, alla Galleria Artequadri di Schiumerini a Cosenza. Nel febbraio 2008 alla Galleria del Palazzo Coveri ed il 04 aprile a Napoli a Castel dell'Ovo. Nel novembre 2008 inaugura la sua personale dal titolo "Visioni Sommerse" alla Galleria 18 di Bologna con la quale nel maggio 2009 è presente a Parigi. Sempre nel novembre 2008 a Firenze presso l'Hotel Savoy inaugura la mostra dal titolo "Un altra verita'".
Labirinti esistenziali
Conversazione con Dario Ballantini
a cura di Nicola Davide Angerame
Colori accesi, pennellate violente, sensibilità incandescente, iconografia tesa alla denuncia: la tua pittura sembra fatalmente attratta dall’Espressionismo…
Prima, però, fra i miei ricordi d’infanzia viene mio padre, che mi spiegava perché quel viso di Picasso era fatto così. Il mio primo innamoramento verso questo genere di artisti c’è stato a scuola, così come ho seguito con interesse il discorso atipico di Modigliani, artista di Livorno che mi attraeva in adolescenza anche per la sua vita di artista maledetto. Negli anni adolescenziali è tipico condividere quella disperazione che lui ha vissuto, credo. Un sentire che poi ti trascini nella vita. A scuola ho imparato e studiato tutti i tipi di arte ma sono rimasto innamorato di questi grandi esempi.
Nella tua produzione non mancano mai i volti, una fascinazione che subisci da sempre?
Io ho sempre studiato e ritratto i volti, fin dall’infanzia. Da quando disegnavo fumetti o facevo scarabocchi sui diari, che colmavo di visi ed espressioni. La mia è una passione per la bellezza del volto. Non ho mai fatto opere dove non ci fosse un essere umano.
Sono volti ma sono anche maschere. Possiedono fattezze “negre”, robuste e primitive come quelle delle maschere. Ci leggo quasi un omaggio alla negritudine di primo Novecento, quella dei primi scrittori africani anticolonialisti e che ha fatto innamorare l'Europa di Josephine Baker, senza contare il debito di Picasso... Cosa leggi nei volti?
Tante cose. È una mia passione atavica, che alimenta anche l’altra mia attività. Io sono un lettore di volti. E' vero, i miei volti sono anche maschere, perché ciascun volto lo è in fondo. La maschera svela il dramma dell’esistenza mentre cerca di coprire la debolezza umana. E quando leggi la maschera è ancora peggio.
Mi fai venire in mente la straordinaria poetica di Luigi Pirandello: uno, nessuno e centomila...
Lo avrei citato ora. Io conosco molto bene Pirandello, poiché mio fratello, che è un appassionato maniacale della sua opera, mi ha passato i libri. Nella maschera c’è questa verità filosofica e c’è il teatro. In passato ho anche collezionato maschere africane. Mi hanno sempre attratto, ma non so perché.
La tua arte si potrebbe definire una ritrattistica mascherata. Ci vedo, ribaltata di 180 gradi, l'idea ossessiva di Rembrandt di rivolgere la propria pittura verso se stesso, producendo la più vasta e significativa autoritrattistica della storia dell'arte. Tu lo fai per interposti personaggi, ma alla fine quelle maschere sono le tue...
Le maschere vengono fuori da sé. Sono sempre venute, già dai primi anni di lavoro, quando a Livorno ero accusato di essere triste e macabro. Ma credo che i miei personaggi possano essere piuttosto definiti come maschere tragicomiche. Erano facce che io attingevo dal fumetto. Una volta Vittorio Sgarbi ha detto che sono un incrocio tra Picasso e i Simpson. Mi pare vero. Se guardi gli occhi dei miei personaggi ti accorgi che sono vicini a quelli di Matt Groening: in fondo si rivelano disperati, tristi e tragicomici. Non ho mai saputo farli diversamente.
Nella tua produzione c’è spesso la città in sottofondo. Che rapporto hai con lei?
Io ho avuto un’esperienza direi negativa con le città. Ora questo modo di viverle è un po’ scomparso, ma ritengo che la città sia una costruzione dell’uomo che mi ha sempre un po’ angosciato. I palazzi, ad esempio, li ho sempre identificati come luoghi in cui le vicende umane scorrono e si alternano mentre loro rimangono lì a fissarti con le finestre che sembrano tanti occhi. Dentro di loro la vita delle persone trascorre e passa. E loro restano lì, minacciosi. I paesaggi industriali invece sono per me il simbolo dell’alienazione dell’uomo rispetto ad un progresso forzato. Se vuoi, si può affermare che nella mia pittura realizzo un “futurismo alla rovescia”. Invece di inneggiare alla macchina la esalto come causa della decadenza dell’essere umano.
Eppure, ribaltando il discorso, si potrebbe sostenere che, a differenza della tetra rappresentazione che ne ha dato Mario Sironi, la tua città è sì opprimente e incombente, ma viene tratteggiata con una tale esplosione cromatica, e con una graffiante paletta post fauvista, che si direbbe essere una città vitale, luminosa, sgargiante, piena di rumori e di vita. Lo si vede bene ne “Il giorno davanti” (2006) o in “Ferma un attimo” (2007).
Senz’altro quello che mi ha spaventato della metropoli è anche quello che mi ha affascinato e che mi ha permesso di attuare una svolta professionale. Soltanto con il mio trasferimento a Milano, e soltanto nel confronto con le persone che la città ha reso possibile, ho realizzato quanto desideravo. Quello che sono professionalmente lo devo alla metropoli. Vi si fa una vita diversa, una vita che cerco disperatamente di evidenziare nei miei colori e che coinvolge la vitalità e l’angoscia provocata dall’urbanizzazione selvaggia. La città è un coacervo di stimoli ma è anche una pressa. Per quel che mi riguarda, sono uscito bene dal rapporto con la città, ma non ci si può nascondere che la sua nascita abbia cancellato tante cose, nel mio passato come in quello delle persone che un tempo, prima di noi, trovavano nella dimensione paesana altri nuclei di aggregazione, ormai scomparsi.
Lo racconta bene il film di Fritz Lang “Metropolis”: la città che macina esseri umani ridotti a schiavi senz’anima a persone de-individualizzate. Ma la città è anche una risposta. Italo Calvino ha scritto: “D 'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.
La metropoli offre anche una buona occasione a certi individui di mostrare la forza dell’essere umano. In queste condizioni vengono fuori i messaggeri di qualcosa di più alto, anche se tristemente la maggior parte soccombe.
Vorrei parlare di alcune opere selezionate per questa mostra: dopo molti anni di produzione rivolta alla tematica della figura immersa o pressata nella città, Due mondi (2009) lascia da parte lo sfondo urbano, che si trasforma in pura pittura d’azione, brutale e divertente come quella di un maestro assoluto come Jean Dubuffet.
Quella dell’Art Brut era un direzione che mi suggeriva tempo fa Achille Bonito Oliva. Ma io non considero i miei quadri un divertimento per il pubblico, anche se per me lo sono. Mi diverte usare una pittura “brutta” o “brutale”, mi affascina deformare i volti e le cose, ma lo faccio più per riflesso o per istintivo. Non seguo uno stile specifico già codificato dalla storia dell’arte.
I titoli delle tue opere sono spesso evocativi, sembrano frammenti caduti da un discorso interiore oppure con un “tu” così intimo da far pensare ad una relazione esclusiva, alla quale lo spettatore viene ammesso affinché conosca la propria distanza. Ad esempio, nell’opera “Cosa ho visto” (2008), l’uomo si tiene con le mani il capo. Ricorda “L’urlo” di Munch. La domanda è: che cosa hai visto?
Ho visto quanto può diventare abisso il vivere umano e quale direzione sbagliata può prendere. Anche se in fondo è riferito a un mio vissuto personale, riguarda tutta l’umanità. Il quadro ritrae un grido muto di spavento ed è una esortazione a non finire nell’abisso. È il rischio del libero arbitrio, dal quale voglio metter in guardia. Grazie a lui si possono commettere atti sublimi o miserrimi.
Nelle tue opere c’è spesso un singolo personaggio oppure una coppia. Mai più di due persone, come se la dimensione della comunità, della vita sociale intesa come aggregazione di più persone, fosse uno scenario a te estraneo. Tanto più singolare in quanto la tua seconda natura ti dichiara “personaggio pubblico”. In “Dalla tua parte” (2009) una coppia si mostra intenta in una delicata relazione.
La mia scelta, come tu hai appena fatto notare, ha a che fare con le relazioni in generale, che ritengo debbano essere preziose, quasi segrete, intime e approfondite. È bello il dialogo fra due amici, fra persone con le medesime affinità. Se le persone sono tre è già troppo. Puoi scoprire che uno si distrae, guarda da un’altra parte. Siamo soli al mondo, va tenuto presente, ma sento che su certi argomenti, sulle affinità come dicevo, ci si può ritrovare e unire. Ciò vale tanto più per il singolo, per il quale il dialogo può avvenire tra le diverse sfaccettature della sua personalità. Anche se ci illudiamo di essere un tutt’uno non possiamo fare a meno di essere una molteplicità in cerca di dialogo con se stessa.
Un dialogo non sempre risolutivo...
Un dialogo destinato a fallire spesso. L’angoscia dell’isolamento credo che dipenda dalla esigua possibilità di aiutare se stessi, di farcela da soli con la propria personalità, con le proprie forze. Nella mia pittura voglio rendere meno drammatico questo aspetto.
Parliamo ancora dei titoli delle tue opere. Sono evocativi, ma anche indeterminati. Lasciano lo spettatore sull’uscio eppure lo chiamano dentro un tentativo di relazione tra lui e te...
Non so cosa sia l’arte, ma so che deve emozionare. L’arte attinge ad un mondo un po’ inspiegabile. Grazie al titolo io posso dialogare con l’opera, dando al pubblico un’indicazione di ciò che ho sentito al termine della realizzazione. Uso molto distacco. Un collega mi disse che avrei dovuto scrivere in grande i titoli su ciascuna opera, ma per me il titolo deve restare un suggerimento. Altrimenti impedisce a chi guarda di trovare la propria interpretazione.
Veniamo alla tua multipla identità. Come dialogano il pittore con l'attore, il trasformista e l'imitatore?
Le mie due attività sono sempre state parallele, ma ho rinforzato quella di trasformista perché in essa c’era una maggiore facilità. Era più appagante essere capito. Arrivavo da una situazione in cui ero un pittore a Livorno macabro e triste, che nessuno capiva bene cosa volesse dire, mentre l’altra attività risultava più facile e remunerativa. Era più immediato far scattare la risata. Tutto si basava su qualcosa di meno imprevedibile. Con la pittura mi era sorto una specie di senso di colpa. Quando non hai la risposta del pubblico significa che hai sbagliato tu e per una persona sensibile può rappresentare una crisi. Fortunatamente, grazie al supporto di Massimo Licinio ho ricominciato a dipingere e oggi la pittura occupa un ottimo posto all’interno della mia vita quotidiana. Mi è tornata una gran voglia di creare, che ricordo di avere da quando ero piccino. Era un desiderio che avevo addirittura dalle elementari. Alle medie riempivo i miei diari di facce. Molti saranno esposti nella mia retrospettiva alla Triennale di Milano, subito dopo la mostra di Alassio. La necessità di disegnare volti è per me una ossessione. Ora che c’è la risposta del pubblico e l’apprezzamento della critica, la mia ossessione non ha più ostacoli.
Se ho ben capito, quindi, la tua attività di esuberante imitatore, conosciuto e amato da milioni di persone, nasce in realtà dal silenzio della pittura, dalla solitudine contemplativa dello studio, tra tele, colori e pennelli. Una vecchia storia, come quella della maschera del clown, che ne cela la personale angoscia esistenziale, che deve piangere per far ridere...
Sì, nasce da lì la mia attività di trasformista. Studio le facce per lavoro, ma lo faccio con tutte le persone che incontro. Nella pittura quei volti ritornano assorbiti nei tratti essenziali. Osservare le rughe d’espressione o la luce degli occhi è un esercizio infinito.
10
settembre 2009
Dario Ballantini
Dal 10 settembre all'undici ottobre 2009
arte contemporanea
Location
EX CHIESA ANGLICANA
Alassio, Via Adelasia, 10, (Savona)
Alassio, Via Adelasia, 10, (Savona)
Orario di apertura
da giovedì a domenica ore 15 - 19
Vernissage
10 Settembre 2009, ore 21,15
Autore
Curatore