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Dario Costa – Lost and found
Colpisce nell’opera di Dario Costa la capacità di tessere un discorso, far dialogare le opere tra loro e con i loro referenti esterni,conferendo al contempo autonomia e completezza ad ogni singolo pezzo, con una cura per la tecnica e la forma che dimostra un forte grado di consapevolezza estetica.
Comunicato stampa
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Lost and Found, Service des objets trouvé, Deposito oggetti smarriti: piccoli magazzini presenti in luoghi pubblici come aeroporti, stazioni, centri commerciali, dove gli oggetti si accumulano in modo apparentemente casuale, legati in realtà dall'esperienza, opposta eppure dialetticamente connessa, del perdere e del trovare, e dall'inevitabile statuto di merce.
Ciò che è, inoltre, perduto, ed in qualche modo precariamente ritrovato, è l'eredità del Modernismo, il riferimento ai grandi maestri del passato (Van Gogh, in questo caso), anch'essi presi nella rete della riproducibilità tecnica di benjaminiana memoria.
L'esposizione si articola in due sale molto diverse tra loro, collegate da una sottile rete di rimandi.
Nella prima, caratterizzata da una atmosfera fredda e rarefatta, una grande H e un orecchio, delineati con un pennarello blu su una carta sottile, attirano lo sguardo. Montati su mdf, nobilitati da un fondo specchiante, i fogli, spiegazzati e sfrangiati ai margini, danneggiati da vistose bruciature, veicolano un senso di precarietà e attesa: si definiscono come indizi di qualcosa di familiare ma al tempo stesso indefinibile. Difficile risalire dalla traccia indicale all'oggetto: si tratta di disegni preparatori per insegne al neon, destinati ad essere perduti, distrutti dal calore del vetro incandescente, invece ritrovati e messi in luce. Non ready made inscritti di prepotenza nel registro dell'arte, ma piuttosto objets trouvés scelti dall'artista per qualità formali e carica simbolica.
È la più piccola delle opere presenti nella sala, Self-Portrait, la chiave di lettura che svela le interconnessioni del discorso: una bustina trasparente racchiude una riproduzione, poco più grande di un francobollo, dell'autoritratto eseguito da Van Gogh nel 1889, immersa in un nugolo di sottili filamenti colorati che richiamano i tocchi di pennello ma sono in realtà ottenuti cancellando con una gomma bianca superfici colorate. Questi piccoli elementi, grazie ad un processo paziente, quasi meditativo, costituiscono anche la materia mimetica di cui si compone la Stanza di Van Gogh. In un rovesciamento simbolico, il residuo di ciò che era servito a cancellare, a perdere, diviene l'elemento costitutivo di una nuova immagine, che al tempo stesso nega la sua novità autodenunciandosi come copia.
La dialettica tra negazione e affermazione, la possibilità di recuperare lo scarto, sottraendolo così almeno temporaneamente al circuito del consumo, è ciò che spinge l'artista ad adoperare le gomme.
Il processo di cancellazione dell'immagine, questa volta attuato in modo digitale, è all'opera anche nella Stanza, che gioca sul senso di straniamento generato dal contrasto tra l'apparente familiarità e l'effettiva incongruenza. Il riferimento è alla Stanza di Van Gogh ad Arles, uno tra i dipinti più noti e riprodotti (ad iniziare dall'artista stesso, che ne eseguì tre versioni), qui svuotata del mobilio, resa spazio vuoto di ironica riflessione sul rapporto tra artista, opera e spettatori in un mondo dominato dall'immagine e dal mercato.
La mercificazione è del resto tema ricorrente nella poetica dell'artista: un dato di fatto della società contemporanea che investe l'arte, le idee, gli individui, presi in un vortice di uso, consumo e smaltimento, ben esemplificato dagli urinali "travestiti" da lattine di bibite e bottiglie di alcolici: un'ironica, in parte amara, sintesi della rapida catena commerciale.
I “pappagalli”, nei quali non può sfuggire il riferimento, en passant, all'orinatoio di Marcel Duchamp, si affollano tra gli scaffali del bar nella seconda sala, caratterizzata dall'accumulo di stimoli visivi e dalla brillantezza dei colori. Nei simulacri delle insegne al neon, PRVO e BAR, il rosso si sostituisce al blu (il caldo al freddo); scintillanti tavole monocrome si rivelano, ad uno sguardo ravvicinato, composizioni di tappi metallici. Il riferimento al consumismo si fa più scoperto e meno intellettualistico, mentre ancora una volta appare il tema del riuso, del dare nuova vita e funzione a ciò che è stato scartato, ritenuto inutile.
Colpisce nell'opera di Dario Costa la capacità di tessere un discorso, far dialogare le opere tra loro e con i loro referenti esterni (pubblico e società in generale), conferendo al contempo autonomia e completezza ad ogni singolo pezzo, con una cura per la tecnica e la forma che dimostra un forte grado di consapevolezza estetica.
Ciò che è, inoltre, perduto, ed in qualche modo precariamente ritrovato, è l'eredità del Modernismo, il riferimento ai grandi maestri del passato (Van Gogh, in questo caso), anch'essi presi nella rete della riproducibilità tecnica di benjaminiana memoria.
L'esposizione si articola in due sale molto diverse tra loro, collegate da una sottile rete di rimandi.
Nella prima, caratterizzata da una atmosfera fredda e rarefatta, una grande H e un orecchio, delineati con un pennarello blu su una carta sottile, attirano lo sguardo. Montati su mdf, nobilitati da un fondo specchiante, i fogli, spiegazzati e sfrangiati ai margini, danneggiati da vistose bruciature, veicolano un senso di precarietà e attesa: si definiscono come indizi di qualcosa di familiare ma al tempo stesso indefinibile. Difficile risalire dalla traccia indicale all'oggetto: si tratta di disegni preparatori per insegne al neon, destinati ad essere perduti, distrutti dal calore del vetro incandescente, invece ritrovati e messi in luce. Non ready made inscritti di prepotenza nel registro dell'arte, ma piuttosto objets trouvés scelti dall'artista per qualità formali e carica simbolica.
È la più piccola delle opere presenti nella sala, Self-Portrait, la chiave di lettura che svela le interconnessioni del discorso: una bustina trasparente racchiude una riproduzione, poco più grande di un francobollo, dell'autoritratto eseguito da Van Gogh nel 1889, immersa in un nugolo di sottili filamenti colorati che richiamano i tocchi di pennello ma sono in realtà ottenuti cancellando con una gomma bianca superfici colorate. Questi piccoli elementi, grazie ad un processo paziente, quasi meditativo, costituiscono anche la materia mimetica di cui si compone la Stanza di Van Gogh. In un rovesciamento simbolico, il residuo di ciò che era servito a cancellare, a perdere, diviene l'elemento costitutivo di una nuova immagine, che al tempo stesso nega la sua novità autodenunciandosi come copia.
La dialettica tra negazione e affermazione, la possibilità di recuperare lo scarto, sottraendolo così almeno temporaneamente al circuito del consumo, è ciò che spinge l'artista ad adoperare le gomme.
Il processo di cancellazione dell'immagine, questa volta attuato in modo digitale, è all'opera anche nella Stanza, che gioca sul senso di straniamento generato dal contrasto tra l'apparente familiarità e l'effettiva incongruenza. Il riferimento è alla Stanza di Van Gogh ad Arles, uno tra i dipinti più noti e riprodotti (ad iniziare dall'artista stesso, che ne eseguì tre versioni), qui svuotata del mobilio, resa spazio vuoto di ironica riflessione sul rapporto tra artista, opera e spettatori in un mondo dominato dall'immagine e dal mercato.
La mercificazione è del resto tema ricorrente nella poetica dell'artista: un dato di fatto della società contemporanea che investe l'arte, le idee, gli individui, presi in un vortice di uso, consumo e smaltimento, ben esemplificato dagli urinali "travestiti" da lattine di bibite e bottiglie di alcolici: un'ironica, in parte amara, sintesi della rapida catena commerciale.
I “pappagalli”, nei quali non può sfuggire il riferimento, en passant, all'orinatoio di Marcel Duchamp, si affollano tra gli scaffali del bar nella seconda sala, caratterizzata dall'accumulo di stimoli visivi e dalla brillantezza dei colori. Nei simulacri delle insegne al neon, PRVO e BAR, il rosso si sostituisce al blu (il caldo al freddo); scintillanti tavole monocrome si rivelano, ad uno sguardo ravvicinato, composizioni di tappi metallici. Il riferimento al consumismo si fa più scoperto e meno intellettualistico, mentre ancora una volta appare il tema del riuso, del dare nuova vita e funzione a ciò che è stato scartato, ritenuto inutile.
Colpisce nell'opera di Dario Costa la capacità di tessere un discorso, far dialogare le opere tra loro e con i loro referenti esterni (pubblico e società in generale), conferendo al contempo autonomia e completezza ad ogni singolo pezzo, con una cura per la tecnica e la forma che dimostra un forte grado di consapevolezza estetica.
24
aprile 2010
Dario Costa – Lost and found
Dal 24 aprile al 12 maggio 2010
arte contemporanea
Location
SPAZIO P
Cagliari, Via Napoli, 62, (Cagliari)
Cagliari, Via Napoli, 62, (Cagliari)
Orario di apertura
da lunedi a sabato ore 19-24
Vernissage
24 Aprile 2010, ore 19.00
Autore
Curatore