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David Roitberg – Migranti
fotografie dall’Archivio David Roitberg
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Con la mostra “Migranti”, sesta iniziativa del progetto “Humanitas
2009-2011”, l’Associazione Amici dei Musei di Monza e
Brianza propone un evento espositivo di particolare importanza
documentaria: la prima presentazione dell’Archivio di David
Roitberg, fotografo ucraino che agli inizi del Novecento emigrò a
Buenos Aires diventando uno dei ritrattisti ufficiali degli emigrati in
Argentina.
L’archivio consta di varie centinaia di lastre e pellicole che documentano
rari interni ed esterni della Buenos Aires del primo
Novecento, ma soprattutto le figure degli emigrati, in posa, in abito
festivo, nello studio del fotografo.
Ringrazio per la concessione del patrocinio il Consolato
Generale Argentino di Milano nella persona del Console Generale
della Repubblica Argentina Ambasciatore Gustavo Moreno. Un
grazie agli eredi Roitberg che hanno cortesemente messo a disposizione
i materiali preziosi del loro archivio.
Grazie all’Assessorato alla Comunicazione Dr. Pierfranco
Maffé per la concessione dello spazio espositivo dell’Urban
Center.
Gigi Caregnato
Presidente Associazione Amici dei Musei di Monza e Brianza
Accade rare volte di scoprire un archivio fotografico così significativo,
fortunatamente salvato dal passare del tempo e dagli
eventi bellici che si sono susseguiti nel secolo scorso. E ancor
più bello scoprire che l’archivio in questione è conservato oggi
nella nostra città. Si tratta di fotografie uniche che documentano
il fenomeno dell’emigrazione in particolare verso l’Argentina ai
primi del ‘900.
La mostra “Migranti” è scaturita dall’archivio del fotografo
ucraino David Roitberg che emigrò a Buenos Aires diventando
uno dei ritrattisti dagli emigranti in terra argentina. La nipote, residente
nella nostra città, lo ha salvato dalla distruzione regalandoci
oggi una stupenda retrospettiva che cade in occasione del bicentenario
della Repubblica Argentina alla quale la nostra nazione
è legata da forti vincoli stabilitisi proprio dalla presenza dei nostri
connazionali.
In un periodo in cui viviamo quotidianamente il fenomeno dell’immigrazione,
questa mostra ci fa riflettere attraverso volti ormai
lontani che hanno vissuto questa realtà prima di noi e dall’interno.
Un punto di partenza su cui far leva per affrontare l’immigrazione
con una coscienza diversa e un pensiero più aperto.
Pierfranco Maffè
Assessore alla Comunicazione, Comune di Monza
Nell’anno in cui ricorre il bicentenario del “Primer Gobierno Patrio
1810-2010” della Repubblica Argentina si festeggiano e si ricordano
inoltre i forti legami esistenti tra l’Italia e l’Argentina stessa.
A tal proposito, eccovi una breve sintesi sulla storica “Revolucion
de Mayo” che oggi celebriamo.
La cosiddetta “Revolución de Mayo” costituì un processo storico
che produsse nell’anno 1810 la rottura dei vincoli coloniali con la
Spagna, che si trovava in conflitto politico con la Francia; in questo
modo si ponevano le basi verso l’indipendenza della nostra Nazione,
conclusasi il 9 luglio del 1816.
Nell’immigrazione dell’Italia verso l’Argentina, avvenuta in diverse
ondate e differenti periodi, il ruolo dei migranti piemontesi, liguri e lombardi
ha rappresentato un rilevante elemento di costruzione dell’identità
argentina.
Nell’elenco degli eroi protagonisti della Settimana di Maggio, figurano
numerose personalità, discendenti di italiani, che lasciarono un
indelebile segno nella storia della mia Nazione.
L’Argentina ha saputo accogliere negli anni difficili del dopo guerra
i cittadini italiani, così come l’Italia ha saputo ospitare, durante le crisi
economiche attraversate della mia Nazione, numerosi connazionali in
cerca di un futuro migliore. Questo interscambio ha favorito il crearsi di
profondi legami culturali, economici e sociali fra queste due nazioni,
permettendo che un italiano in Argentina o un argentino in Italia si possano
comunque sentire a casa propria.
Ambasciatore Gustavo Moreno
Console Generale della Repubblica Argentina
L’Archivio fotografico David Roitberg.
Ragioni di una mostra.
di Alberto Crespi
Un archivio fotografico che riemerge dall’oblio dopo settant’anni
ha il potere incontrovertibile di riannodare improvvisamente
i fili di un discorso che il tempo ha spezzato e velato,
di ritrovare intatti situazioni e volti che gli anni hanno cancellato
alla vista ma cui attiene un’esistenza segreta, sotterranea
rispetto alla nostra che sembra votata alla visibilità immediata
a tutti i costi. Con l’arte della fotografia si apre, direi statutariamente,
una sorta di archivio universale. E migliaia di archivi
in tutto il mondo mostrano una capacità di resistere alla
distruzione che è quella di un organismo vitale. Ma un archivio
non ha memoria propria: è necessario interrogarlo, incrociare
i suoi dati affinchè ne emerga il portato di storia sotteso.
Così è stato per l’archivio di David Roitberg, fotografo nato
a Kiev nel 1899, emigrato prima ad Odessa e, subito dopo la
prima guerra mondiale, ventenne appena, a causa della chiusura
delle frontiere statunitensi, in Argentina a Buenos Aires,
al tempo di un flusso inarrestabile di lavoratori, connazionali e
di tutta Europa, in fuga dall’endemica povertà provocata dalla
guerra che aveva verificato la caduta dell’impero austro ungarico.
Con la giovanissima fidanzata che sarebbe divenuta sua
moglie aveva compiuto la traversata atlantica su una nave
spagnola, la “Cantabrica”, in partenza dal porto di Amburgo.
Nello studio in affitto nell‘allora poverissimo quartiere periferico
di Avellaneda, abitato quasi esclusivamente da operai
europei di ogni provenienza, dalla Galizia al Friuli, David
Roitberg ha lavorato col suo banco ottico e con una formidabile
esperienza di ritocco fotografico sui negativi, fino all’anno
della scomparsa, il 1956, lasciando il proprio studio al figlio.
L’archivio Roitberg, salvato grazie alla nipote del fotografo,
è oggi conservato a Monza: per la prima volta si mostra al
pubblico un novero di stampe tratte dalle sue centinaia di
negativi, su lastra a gelatina di bromuro d’argento o su pellicola
di formato costante 13x18, di fabbricazione italiana (ditta
A. Cappello di via Friuli a Milano) o inglese.
È significativo che ciò accada proprio in questo tornante
della nostra vicenda (nostra soltanto per intenderci, perché
nessuna comunità umana è più pensabile come distaccata da
un globale vorticare di eventi), in anni che vedono i flussi
migratori rinnovarsi per coinvolgere ogni continente. Le ragioni
delle migrazioni odierne sono le stesse denunciate dai
nostri connazionali in partenza per le Americhe nell’ultimo
terzo dell’Ottocento: la fame per mancanza di lavoro o per la schiavitù di paghe miserande, la “forbice” che si apriva in ogni
nazione europea tra la ricchezza appannaggio di pochi e la
povertà di molti, l’insicurezza di fronte al nascere di dittature,
la fuga dalla cieca violenza.
Quest’anno l’Argentina celebra i duecento anni dall’insediamento
del primo governo nazionale (1810) e in Italia si apre
finalmente in Roma l’atteso museo dedicato ad una realtà storica
a lungo lasciata in ombra e pressochè ignorata dalle
nuove generazioni: il “Museo Nazionale dell’Emigrazione”,
allestito negli spazi della Gipsoteca del Vittoriano, cuore del
simbolo dell’Unità nazionale, affinchè nelle celebrazioni per il 150°
anniversario della nascita della Nazione, nel momento in cui ci viene
chiesto di accogliere gli immigrati, non si dimentichino i 29 milioni di
Italiani emigrati nel mondo e si giunga a leggere il fenomeno dell’emigrazione
come patrimonio della società.
A Buenos Aires, il “Museo Nacional de Inmigracion” è una realtà
che appartiene da decenni alla cultura del Paese.
L’archivio Roitberg spazia su una realtà locale, quella della
Buenos Aires dei primi decenni del Novecento durante la terza fase
della crescita demografica innescata dall’immigrazione dall’Europa,
ma soprattutto dall’Italia, e si costituisce come un incrocio di microstorie
capace di testimoniare un clima particolare, l’urgenza dell’ascesa
nella scala sociale da parte di emigrati già facenti a tutti gli effetti
parte della comunità. Gli inizi della vicenda migratoria erano ormai lontani.
Dal secondo terzo dell’Ottocento le compagnie di navigazione
transatlantica collegavano sistematicamente l’Europa alle Americhe
(per l’Italia dal 1852) e guide a stampa fornivano i primi rudimenti per
affrontare, se non il concetto di emigrazione, almeno il viaggio, che si
svolgeva non senza amarissime sorprese e tragedie. I flussi migratori
dall’Italia ebbero momenti altalenanti: nel 1913, ad esempio, raggiunsero
le 870 mila unità a fronte di una popolazione sul suolo nazionale
di 33 milioni; si ridussero temporaneamente solo negli anni
Trenta per riprendere dopo il secondo conflitto mondiale - ma furono
sempre in testa alle classifiche europee. Stando alle statistiche italiane
ufficiali di quindici anni fa, soltanto in Argentina si contavano oltre
15 milioni di connazionali. Tra Stati Uniti, Brasile e Argentina sono oggi
oltre 55 milioni i discendenti di emigrati italiani.
Dunque, la povertà diffusa di vaste zone del territorio nazionale,
ma anche di altre plaghe europee, e la voglia di riscatto,
costituirono i moventi della partenze che ebbero, come primo
esito, un certo alleggerimento della pressione demografica per
gli stati e le società, in particolare nel caso italiano. La disponibilità
di terre e la richiesta di manodopera fu il corollario convincente.
L’Argentina, organizzata in stato federale nel 1853, profuse
grande impegno nel progetto di colonizzazione agricola attirando
gli europei: a quel periodo risalgono i primi tentativi di
immigrati italiani di acquistare lotti fondiari dalle province o direttamente
dallo stato. Tra il 1860 e il 1878 l’acquisizione di nuove
ampie aree della Pampa conferì una spinta alla politica fondiaria
governativa. Di conseguenza al fatto che varie società private di
colonizzazione subaffittavano alle famiglie, si era diffiso alla
metà degli anni ‘60 il cosiddetto “sistema di Corrientes” cioè l’anticipazione
agli emigranti delle spese di viaggio e di quelle
necessarie per impiantarsi nel lotto assegnato da parte delle
stesse società.
La Comision de Inmigracion nacque per aumentare la produzione
agricola - insufficiente al fabbisogno nazionale - e favorire
l’immigrazione contadina nel paese. Bilanciava allora l’importazione
dei cereali la vendita delle carni, controllata dal capitalismo
inglese alle spalle dei gauchos, in contrasto con la politica
politica agricola del paese.
La legge del 1876 promuoveva insediamenti urbani e suburbani
proponendo assegnazioni di terreno gratuite o rateizzabili a
prezzi favorevoli. Dall’Italia, la Calabria soprattutto diede il massimo
contributo all’emigrazione. Ma già dal ’70 un provvedimento
assegnava terreni a giovani coppie di agricoltori con l’obbligo
g - Stampe fotografiche su carta baritata a cura di Beniamino Terraneo, Milano - Grazie alla dr. Natalia Dupuy, a Nora e Pablo Roitberg, a Paola Zovetti - Info: 039 2372343 / 347 6986580 - www.amicimuseimonza.it
della residenza e della coltivazione. A fine secolo, un quarto dei
proprietari terrieri in Argentina erano stranieri e fra di loro più della
metà erano Italiani del Meridione. Molte le terre assegnate vicine
alla costa, da Santa Fe a Buenos Aires, da Corrientes a Entre
Rios, ma moltissime quelle dell’interno, difficili da raggiungere, da
coltivare nella stagione delle piogge, a lungo isolate.
Il viaggio sui grandi bastimenti, spesso privi di comfort per la
classe gli emigranti, intrapreso da vari porti d’Italia, da Genova a
Palermo, terminava sull’estuario fangoso del Rio de la Plata
donde la nave risaliva fino al porto di Buenos Aires, in un paesaggio
piatto la cui immagine è rimasta impressa nel ricordo di
tutti gli emigranti. Erano singoli lavoratori o famiglie intere che
sovente avevano venduto ogni bene per pagare quel trasporto.
Erano individui certo sradicati ma sorretti ancora da una segreta
speranza, in attesa di una ricomposizione d’identità che contemplava,
seppure su un lontano orizzonte, la possibilità del rientro,
a differenza d’oggi, per la drammatica frammentazione che attiene
alla nostra epoca. In quei porti lontani, le navi costituivano in
fondo l’ultimo lembo della patria, con i loro nomi - riportati a grandi
lettere sulle fiancate e sulla poppa - che circa dagli anni Dieci alla
seconda guerra si chiamavano Cavour, Duca di Genova, Dante
Alighieri, Garibaldi, Giuseppe Verdi, Colombo, Duilio, Conte Rosso,
Conte Verde e su su nella gamma fino alla Giulio Cesare, al Conte
Biancamano, Virgilio, Roma, Orazio, Saturnia, Conte Grande,
Vulcania, Augustus, Victoria, Conte di Savoia, Rex, Piemonte.
Sull’Oceano si allineavano milioni di vicende parallele. In una
pagina di “Sull’Oceano”, il libro di Edmondo De Amicis pubblicato nel
1889, un emigrante dichiarava chiaramente il movente del suo viaggio:
“Mi emigro per magnar”. E il governo italiano prendeva troppo
lentamente coscienza di quell’asserto e delle sue conseguenze, in
termini sociali, demografici e di produzione, implicato nell’ossequio
a potentati economici dagli interessi contrastanti. Al sud, ad esempio,
le partenze determinarono abbandono delle colture, con aumenti
salariali a causa della scarsità di manodopera. La famiglia diventava
precaria, in assenza delle braccia degli emigrati. D’altro canto,
le compagnie di trasporto navale, sostenute anche da sussidi governativi,
potevano agire senza scrupoli sfruttando la debolezza economica
e la mancanza d’istruzione dei migranti. Nasceva la teoria dell’espansione
fondata sull’emigrazione, grazie all’aumento dei commerci
tra i due continenti.
Giunti a destinazione, gli immigrati erano ospiti delle “case d’immigrazione”
come l’immenso “Asilo” di legno di Buenos Aires: vi si
dormiva in camerate, uomini e donne separati, si ricevevano cure
mediche ma ci si doveva rendere indipendenti entro cinque giorni
trovando abitazione e lavoro, alla mercè di speculatori. Si deve dire
che l’ambiente, privo di conflitti razziali, facilitò l’integrazione. L’ascesa
sociale avvenne con la seconda e la terza generazione e ciò
portò gli emigrati a riallacciare con la madrepatria attraverso le lettere,
i giornali e le associazioni. Attorno al 1900 quasi un terzo dell’oltre
mezzo milione di abitanti di Buenos Aires era italiano e in italiano
era scritto un periodico su dieci. La crescita della comunità
italiana nell’imprenditoria, a tutto campo, si può dire, dalle costruzioni
alle infrastrutture, dal ferro al legno, dall’abbigliamento all’alimentare
- nel lavoro e nella cultura, provocò la reazione della
cultura nazionale argentina, con un irrigidimento di fronte ai
portati del socialismo e una reazione contro esponenti anarchici,
causando un pericoloso processo involutivo nei rapporti
tra le due nazionalità lungo il primo decennio del Novecento.
L’impasse fu superata con la presidenza di Roque Sàenz
Pena, con la promulgazione della legge elettorale che contemplava
suffragio segreto e universale, via sicura verso la
piena integrazione. Attorno al 1920 si chiudeva dunque un
ciclo. Oltre quella data emigrarono in Sudamerica antifascisti
perseguitati e, dopo il ’45, personaggi implicati nel regime che
fuggivano la giustizia italiana.
Al di là di ogni revisione storiografica rimangono i fatti: il distacco
dalla propria comunità e dalla patria, soprattutto l’abbandono
delle campagne, dove più radicata era la tradizione
familiare, furono fenomeni dolorosi. Alla ricchezza che gli emigrati
apportarono all’Italia e all’Europa con le loro rimesse fa edificare e di cui esistono
ricche raccolte d’immagini che illustrano l’architettura, la vita,
il lusso e le miserie, come di ogni altra città del mondo. Le
poche fotografie di Roitberg ci parlano invece di una città
quasi agli albori, le vie deserte, un lontano tram dalla periferia,
fabbriche dalle linee impersonali, auto monumentali che son
già cimeli. La maggior parte delle immagini è dedicata agli
emigranti, come l’artefice stesso fu, con la sua famiglia che le
fotografie documentano. Figure uniche o gruppi, in abito festivo
o da cerimonia, in una “mise” a volte procurata dal fotografo
stesso, a testimoniare uno status sociale precariamente
raggiunto - documento da spedire ai parenti in madrepatria -
nell’occasione di sposalizi o feste di laurea o diploma, in divisa
collegiale, in travestimento da gaucho, o in divisa militare o
di polizia, ma anche in curiosi abiti estemporanei per le occasioni
del carnevale, in pose a bella posta maliziose e ironiche
nei gruppi di ragazze. Non mancano i bambini, sui loro cavalli
a dondolo o liberi di sgambettare nudi sul letto, a testimoniare
l’arrivo dell’erede maschio. Tra i gruppi, adunate nell’intervallo
di pranzo o alla soglia delle fabbriche, delle concerìe,
o alle giostre. L’occhio fotografico di David Roitberg ha saputo
documentare il clima di un’epoca e i costumi di quel mondo
lontano. Le fotografie costituscono anche il documento della
moda di quel tempo, adunata in studio ma con la calma dei
tempi lunghi, sospesa come le dame e gli uomini che la indossano
davanti ad incerti fondali dipinti, quasi personaggi immaginari.
Fuori, una strada assolata e relativamente silenziosa.
Quando Roitberg giunse in Argentina per cercar fortuna col
proprio occhio meccanico, Jorge Luis Borges, che era cresciuto
divorando libri in calle Maipú, era già partito per la Svizzera.
Il picaresco cuore amato della capitale che si sarebbe trasformata,
suo malgrado, nella città moderna di cui s’è detto, avrebbe
continuato a vivere intatto nelle pagine dei suoi libri. Lo scrittore
sarebbe tornato a Buenos Aires dopo sette anni, nel 1921
e non certo nelle condizioni degli emigranti.
Oggi le fotografie di David Roitberg ritornano dall’afasia
restituendoci i fremiti d’emozione di tanti protagonisti di un attimo
davanti al suo obbiettivo, facendoci partecipi di vicende
minuziose nel flusso di vite sconosciute, lasciandoci aperto il
campo delle ipotesi, dove fantasia e riflessi della nostra vicenda
personale, reminiscenze e vaghe somiglianze, soccorrono
ai mille dati incogniti.
Monza, maggio 2010
2009-2011”, l’Associazione Amici dei Musei di Monza e
Brianza propone un evento espositivo di particolare importanza
documentaria: la prima presentazione dell’Archivio di David
Roitberg, fotografo ucraino che agli inizi del Novecento emigrò a
Buenos Aires diventando uno dei ritrattisti ufficiali degli emigrati in
Argentina.
L’archivio consta di varie centinaia di lastre e pellicole che documentano
rari interni ed esterni della Buenos Aires del primo
Novecento, ma soprattutto le figure degli emigrati, in posa, in abito
festivo, nello studio del fotografo.
Ringrazio per la concessione del patrocinio il Consolato
Generale Argentino di Milano nella persona del Console Generale
della Repubblica Argentina Ambasciatore Gustavo Moreno. Un
grazie agli eredi Roitberg che hanno cortesemente messo a disposizione
i materiali preziosi del loro archivio.
Grazie all’Assessorato alla Comunicazione Dr. Pierfranco
Maffé per la concessione dello spazio espositivo dell’Urban
Center.
Gigi Caregnato
Presidente Associazione Amici dei Musei di Monza e Brianza
Accade rare volte di scoprire un archivio fotografico così significativo,
fortunatamente salvato dal passare del tempo e dagli
eventi bellici che si sono susseguiti nel secolo scorso. E ancor
più bello scoprire che l’archivio in questione è conservato oggi
nella nostra città. Si tratta di fotografie uniche che documentano
il fenomeno dell’emigrazione in particolare verso l’Argentina ai
primi del ‘900.
La mostra “Migranti” è scaturita dall’archivio del fotografo
ucraino David Roitberg che emigrò a Buenos Aires diventando
uno dei ritrattisti dagli emigranti in terra argentina. La nipote, residente
nella nostra città, lo ha salvato dalla distruzione regalandoci
oggi una stupenda retrospettiva che cade in occasione del bicentenario
della Repubblica Argentina alla quale la nostra nazione
è legata da forti vincoli stabilitisi proprio dalla presenza dei nostri
connazionali.
In un periodo in cui viviamo quotidianamente il fenomeno dell’immigrazione,
questa mostra ci fa riflettere attraverso volti ormai
lontani che hanno vissuto questa realtà prima di noi e dall’interno.
Un punto di partenza su cui far leva per affrontare l’immigrazione
con una coscienza diversa e un pensiero più aperto.
Pierfranco Maffè
Assessore alla Comunicazione, Comune di Monza
Nell’anno in cui ricorre il bicentenario del “Primer Gobierno Patrio
1810-2010” della Repubblica Argentina si festeggiano e si ricordano
inoltre i forti legami esistenti tra l’Italia e l’Argentina stessa.
A tal proposito, eccovi una breve sintesi sulla storica “Revolucion
de Mayo” che oggi celebriamo.
La cosiddetta “Revolución de Mayo” costituì un processo storico
che produsse nell’anno 1810 la rottura dei vincoli coloniali con la
Spagna, che si trovava in conflitto politico con la Francia; in questo
modo si ponevano le basi verso l’indipendenza della nostra Nazione,
conclusasi il 9 luglio del 1816.
Nell’immigrazione dell’Italia verso l’Argentina, avvenuta in diverse
ondate e differenti periodi, il ruolo dei migranti piemontesi, liguri e lombardi
ha rappresentato un rilevante elemento di costruzione dell’identità
argentina.
Nell’elenco degli eroi protagonisti della Settimana di Maggio, figurano
numerose personalità, discendenti di italiani, che lasciarono un
indelebile segno nella storia della mia Nazione.
L’Argentina ha saputo accogliere negli anni difficili del dopo guerra
i cittadini italiani, così come l’Italia ha saputo ospitare, durante le crisi
economiche attraversate della mia Nazione, numerosi connazionali in
cerca di un futuro migliore. Questo interscambio ha favorito il crearsi di
profondi legami culturali, economici e sociali fra queste due nazioni,
permettendo che un italiano in Argentina o un argentino in Italia si possano
comunque sentire a casa propria.
Ambasciatore Gustavo Moreno
Console Generale della Repubblica Argentina
L’Archivio fotografico David Roitberg.
Ragioni di una mostra.
di Alberto Crespi
Un archivio fotografico che riemerge dall’oblio dopo settant’anni
ha il potere incontrovertibile di riannodare improvvisamente
i fili di un discorso che il tempo ha spezzato e velato,
di ritrovare intatti situazioni e volti che gli anni hanno cancellato
alla vista ma cui attiene un’esistenza segreta, sotterranea
rispetto alla nostra che sembra votata alla visibilità immediata
a tutti i costi. Con l’arte della fotografia si apre, direi statutariamente,
una sorta di archivio universale. E migliaia di archivi
in tutto il mondo mostrano una capacità di resistere alla
distruzione che è quella di un organismo vitale. Ma un archivio
non ha memoria propria: è necessario interrogarlo, incrociare
i suoi dati affinchè ne emerga il portato di storia sotteso.
Così è stato per l’archivio di David Roitberg, fotografo nato
a Kiev nel 1899, emigrato prima ad Odessa e, subito dopo la
prima guerra mondiale, ventenne appena, a causa della chiusura
delle frontiere statunitensi, in Argentina a Buenos Aires,
al tempo di un flusso inarrestabile di lavoratori, connazionali e
di tutta Europa, in fuga dall’endemica povertà provocata dalla
guerra che aveva verificato la caduta dell’impero austro ungarico.
Con la giovanissima fidanzata che sarebbe divenuta sua
moglie aveva compiuto la traversata atlantica su una nave
spagnola, la “Cantabrica”, in partenza dal porto di Amburgo.
Nello studio in affitto nell‘allora poverissimo quartiere periferico
di Avellaneda, abitato quasi esclusivamente da operai
europei di ogni provenienza, dalla Galizia al Friuli, David
Roitberg ha lavorato col suo banco ottico e con una formidabile
esperienza di ritocco fotografico sui negativi, fino all’anno
della scomparsa, il 1956, lasciando il proprio studio al figlio.
L’archivio Roitberg, salvato grazie alla nipote del fotografo,
è oggi conservato a Monza: per la prima volta si mostra al
pubblico un novero di stampe tratte dalle sue centinaia di
negativi, su lastra a gelatina di bromuro d’argento o su pellicola
di formato costante 13x18, di fabbricazione italiana (ditta
A. Cappello di via Friuli a Milano) o inglese.
È significativo che ciò accada proprio in questo tornante
della nostra vicenda (nostra soltanto per intenderci, perché
nessuna comunità umana è più pensabile come distaccata da
un globale vorticare di eventi), in anni che vedono i flussi
migratori rinnovarsi per coinvolgere ogni continente. Le ragioni
delle migrazioni odierne sono le stesse denunciate dai
nostri connazionali in partenza per le Americhe nell’ultimo
terzo dell’Ottocento: la fame per mancanza di lavoro o per la schiavitù di paghe miserande, la “forbice” che si apriva in ogni
nazione europea tra la ricchezza appannaggio di pochi e la
povertà di molti, l’insicurezza di fronte al nascere di dittature,
la fuga dalla cieca violenza.
Quest’anno l’Argentina celebra i duecento anni dall’insediamento
del primo governo nazionale (1810) e in Italia si apre
finalmente in Roma l’atteso museo dedicato ad una realtà storica
a lungo lasciata in ombra e pressochè ignorata dalle
nuove generazioni: il “Museo Nazionale dell’Emigrazione”,
allestito negli spazi della Gipsoteca del Vittoriano, cuore del
simbolo dell’Unità nazionale, affinchè nelle celebrazioni per il 150°
anniversario della nascita della Nazione, nel momento in cui ci viene
chiesto di accogliere gli immigrati, non si dimentichino i 29 milioni di
Italiani emigrati nel mondo e si giunga a leggere il fenomeno dell’emigrazione
come patrimonio della società.
A Buenos Aires, il “Museo Nacional de Inmigracion” è una realtà
che appartiene da decenni alla cultura del Paese.
L’archivio Roitberg spazia su una realtà locale, quella della
Buenos Aires dei primi decenni del Novecento durante la terza fase
della crescita demografica innescata dall’immigrazione dall’Europa,
ma soprattutto dall’Italia, e si costituisce come un incrocio di microstorie
capace di testimoniare un clima particolare, l’urgenza dell’ascesa
nella scala sociale da parte di emigrati già facenti a tutti gli effetti
parte della comunità. Gli inizi della vicenda migratoria erano ormai lontani.
Dal secondo terzo dell’Ottocento le compagnie di navigazione
transatlantica collegavano sistematicamente l’Europa alle Americhe
(per l’Italia dal 1852) e guide a stampa fornivano i primi rudimenti per
affrontare, se non il concetto di emigrazione, almeno il viaggio, che si
svolgeva non senza amarissime sorprese e tragedie. I flussi migratori
dall’Italia ebbero momenti altalenanti: nel 1913, ad esempio, raggiunsero
le 870 mila unità a fronte di una popolazione sul suolo nazionale
di 33 milioni; si ridussero temporaneamente solo negli anni
Trenta per riprendere dopo il secondo conflitto mondiale - ma furono
sempre in testa alle classifiche europee. Stando alle statistiche italiane
ufficiali di quindici anni fa, soltanto in Argentina si contavano oltre
15 milioni di connazionali. Tra Stati Uniti, Brasile e Argentina sono oggi
oltre 55 milioni i discendenti di emigrati italiani.
Dunque, la povertà diffusa di vaste zone del territorio nazionale,
ma anche di altre plaghe europee, e la voglia di riscatto,
costituirono i moventi della partenze che ebbero, come primo
esito, un certo alleggerimento della pressione demografica per
gli stati e le società, in particolare nel caso italiano. La disponibilità
di terre e la richiesta di manodopera fu il corollario convincente.
L’Argentina, organizzata in stato federale nel 1853, profuse
grande impegno nel progetto di colonizzazione agricola attirando
gli europei: a quel periodo risalgono i primi tentativi di
immigrati italiani di acquistare lotti fondiari dalle province o direttamente
dallo stato. Tra il 1860 e il 1878 l’acquisizione di nuove
ampie aree della Pampa conferì una spinta alla politica fondiaria
governativa. Di conseguenza al fatto che varie società private di
colonizzazione subaffittavano alle famiglie, si era diffiso alla
metà degli anni ‘60 il cosiddetto “sistema di Corrientes” cioè l’anticipazione
agli emigranti delle spese di viaggio e di quelle
necessarie per impiantarsi nel lotto assegnato da parte delle
stesse società.
La Comision de Inmigracion nacque per aumentare la produzione
agricola - insufficiente al fabbisogno nazionale - e favorire
l’immigrazione contadina nel paese. Bilanciava allora l’importazione
dei cereali la vendita delle carni, controllata dal capitalismo
inglese alle spalle dei gauchos, in contrasto con la politica
politica agricola del paese.
La legge del 1876 promuoveva insediamenti urbani e suburbani
proponendo assegnazioni di terreno gratuite o rateizzabili a
prezzi favorevoli. Dall’Italia, la Calabria soprattutto diede il massimo
contributo all’emigrazione. Ma già dal ’70 un provvedimento
assegnava terreni a giovani coppie di agricoltori con l’obbligo
g - Stampe fotografiche su carta baritata a cura di Beniamino Terraneo, Milano - Grazie alla dr. Natalia Dupuy, a Nora e Pablo Roitberg, a Paola Zovetti - Info: 039 2372343 / 347 6986580 - www.amicimuseimonza.it
della residenza e della coltivazione. A fine secolo, un quarto dei
proprietari terrieri in Argentina erano stranieri e fra di loro più della
metà erano Italiani del Meridione. Molte le terre assegnate vicine
alla costa, da Santa Fe a Buenos Aires, da Corrientes a Entre
Rios, ma moltissime quelle dell’interno, difficili da raggiungere, da
coltivare nella stagione delle piogge, a lungo isolate.
Il viaggio sui grandi bastimenti, spesso privi di comfort per la
classe gli emigranti, intrapreso da vari porti d’Italia, da Genova a
Palermo, terminava sull’estuario fangoso del Rio de la Plata
donde la nave risaliva fino al porto di Buenos Aires, in un paesaggio
piatto la cui immagine è rimasta impressa nel ricordo di
tutti gli emigranti. Erano singoli lavoratori o famiglie intere che
sovente avevano venduto ogni bene per pagare quel trasporto.
Erano individui certo sradicati ma sorretti ancora da una segreta
speranza, in attesa di una ricomposizione d’identità che contemplava,
seppure su un lontano orizzonte, la possibilità del rientro,
a differenza d’oggi, per la drammatica frammentazione che attiene
alla nostra epoca. In quei porti lontani, le navi costituivano in
fondo l’ultimo lembo della patria, con i loro nomi - riportati a grandi
lettere sulle fiancate e sulla poppa - che circa dagli anni Dieci alla
seconda guerra si chiamavano Cavour, Duca di Genova, Dante
Alighieri, Garibaldi, Giuseppe Verdi, Colombo, Duilio, Conte Rosso,
Conte Verde e su su nella gamma fino alla Giulio Cesare, al Conte
Biancamano, Virgilio, Roma, Orazio, Saturnia, Conte Grande,
Vulcania, Augustus, Victoria, Conte di Savoia, Rex, Piemonte.
Sull’Oceano si allineavano milioni di vicende parallele. In una
pagina di “Sull’Oceano”, il libro di Edmondo De Amicis pubblicato nel
1889, un emigrante dichiarava chiaramente il movente del suo viaggio:
“Mi emigro per magnar”. E il governo italiano prendeva troppo
lentamente coscienza di quell’asserto e delle sue conseguenze, in
termini sociali, demografici e di produzione, implicato nell’ossequio
a potentati economici dagli interessi contrastanti. Al sud, ad esempio,
le partenze determinarono abbandono delle colture, con aumenti
salariali a causa della scarsità di manodopera. La famiglia diventava
precaria, in assenza delle braccia degli emigrati. D’altro canto,
le compagnie di trasporto navale, sostenute anche da sussidi governativi,
potevano agire senza scrupoli sfruttando la debolezza economica
e la mancanza d’istruzione dei migranti. Nasceva la teoria dell’espansione
fondata sull’emigrazione, grazie all’aumento dei commerci
tra i due continenti.
Giunti a destinazione, gli immigrati erano ospiti delle “case d’immigrazione”
come l’immenso “Asilo” di legno di Buenos Aires: vi si
dormiva in camerate, uomini e donne separati, si ricevevano cure
mediche ma ci si doveva rendere indipendenti entro cinque giorni
trovando abitazione e lavoro, alla mercè di speculatori. Si deve dire
che l’ambiente, privo di conflitti razziali, facilitò l’integrazione. L’ascesa
sociale avvenne con la seconda e la terza generazione e ciò
portò gli emigrati a riallacciare con la madrepatria attraverso le lettere,
i giornali e le associazioni. Attorno al 1900 quasi un terzo dell’oltre
mezzo milione di abitanti di Buenos Aires era italiano e in italiano
era scritto un periodico su dieci. La crescita della comunità
italiana nell’imprenditoria, a tutto campo, si può dire, dalle costruzioni
alle infrastrutture, dal ferro al legno, dall’abbigliamento all’alimentare
- nel lavoro e nella cultura, provocò la reazione della
cultura nazionale argentina, con un irrigidimento di fronte ai
portati del socialismo e una reazione contro esponenti anarchici,
causando un pericoloso processo involutivo nei rapporti
tra le due nazionalità lungo il primo decennio del Novecento.
L’impasse fu superata con la presidenza di Roque Sàenz
Pena, con la promulgazione della legge elettorale che contemplava
suffragio segreto e universale, via sicura verso la
piena integrazione. Attorno al 1920 si chiudeva dunque un
ciclo. Oltre quella data emigrarono in Sudamerica antifascisti
perseguitati e, dopo il ’45, personaggi implicati nel regime che
fuggivano la giustizia italiana.
Al di là di ogni revisione storiografica rimangono i fatti: il distacco
dalla propria comunità e dalla patria, soprattutto l’abbandono
delle campagne, dove più radicata era la tradizione
familiare, furono fenomeni dolorosi. Alla ricchezza che gli emigrati
apportarono all’Italia e all’Europa con le loro rimesse fa edificare e di cui esistono
ricche raccolte d’immagini che illustrano l’architettura, la vita,
il lusso e le miserie, come di ogni altra città del mondo. Le
poche fotografie di Roitberg ci parlano invece di una città
quasi agli albori, le vie deserte, un lontano tram dalla periferia,
fabbriche dalle linee impersonali, auto monumentali che son
già cimeli. La maggior parte delle immagini è dedicata agli
emigranti, come l’artefice stesso fu, con la sua famiglia che le
fotografie documentano. Figure uniche o gruppi, in abito festivo
o da cerimonia, in una “mise” a volte procurata dal fotografo
stesso, a testimoniare uno status sociale precariamente
raggiunto - documento da spedire ai parenti in madrepatria -
nell’occasione di sposalizi o feste di laurea o diploma, in divisa
collegiale, in travestimento da gaucho, o in divisa militare o
di polizia, ma anche in curiosi abiti estemporanei per le occasioni
del carnevale, in pose a bella posta maliziose e ironiche
nei gruppi di ragazze. Non mancano i bambini, sui loro cavalli
a dondolo o liberi di sgambettare nudi sul letto, a testimoniare
l’arrivo dell’erede maschio. Tra i gruppi, adunate nell’intervallo
di pranzo o alla soglia delle fabbriche, delle concerìe,
o alle giostre. L’occhio fotografico di David Roitberg ha saputo
documentare il clima di un’epoca e i costumi di quel mondo
lontano. Le fotografie costituscono anche il documento della
moda di quel tempo, adunata in studio ma con la calma dei
tempi lunghi, sospesa come le dame e gli uomini che la indossano
davanti ad incerti fondali dipinti, quasi personaggi immaginari.
Fuori, una strada assolata e relativamente silenziosa.
Quando Roitberg giunse in Argentina per cercar fortuna col
proprio occhio meccanico, Jorge Luis Borges, che era cresciuto
divorando libri in calle Maipú, era già partito per la Svizzera.
Il picaresco cuore amato della capitale che si sarebbe trasformata,
suo malgrado, nella città moderna di cui s’è detto, avrebbe
continuato a vivere intatto nelle pagine dei suoi libri. Lo scrittore
sarebbe tornato a Buenos Aires dopo sette anni, nel 1921
e non certo nelle condizioni degli emigranti.
Oggi le fotografie di David Roitberg ritornano dall’afasia
restituendoci i fremiti d’emozione di tanti protagonisti di un attimo
davanti al suo obbiettivo, facendoci partecipi di vicende
minuziose nel flusso di vite sconosciute, lasciandoci aperto il
campo delle ipotesi, dove fantasia e riflessi della nostra vicenda
personale, reminiscenze e vaghe somiglianze, soccorrono
ai mille dati incogniti.
Monza, maggio 2010
26
maggio 2010
David Roitberg – Migranti
Dal 26 maggio al 26 giugno 2010
fotografia
Location
URBAN CENTER
Monza, Via Filippo Turati, 6, (Milano)
Monza, Via Filippo Turati, 6, (Milano)
Orario di apertura
giovedì-venerdì 10-18, sabato 10-12.30/15-18 domenica 14-18
Vernissage
26 Maggio 2010, ore 18
Autore
Curatore