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De Marco W. – Voglia di AmmazzArte
Automi privi di identità, questi quasi uomini di De Marco, sembrano degli extra terrestri in avanscoperta in scenari desolati e dal silenzio estraniante.
Piatte, le stesure dei colori, vanno professando il regime del vuoto, forse del nulla.
Comunicato stampa
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Pensi a Carmine De Marco e immagini strani ominidi con le loro aspettative di ascesa, di leggerezza, di libertà.
Al posto della testa hanno un ovale da manichino. Non vedi gli occhi, né la bocca. L’anonimato li ha cancellati, inghiottendoli nel suo gorgo immortale. Le braccia e le gambe, poi, hanno preso l’insolita forma di una scala.
Sicché ti sfila davanti una teoria di esistenze congelate in una stasi metafisica. Sono simulacri spaesanti di vite imprigionate tra le bende e il gesso di un sistema che costringe, distrugge e riduce alla pazzia.
Automi privi di identità, questi quasi uomini di De Marco, sembrano degli extra terrestri in avanscoperta in scenari desolati e dal silenzio estraniante.
Piatte, le stesure dei colori, vanno professando il regime del vuoto, forse del nulla. Come nel deserto, dove regna l’inganno della quiete, come in una rappresentazione di De Chirico o dentro l’illusione di una scena di Dalì, nei lavori di Carmine De Marco ogni apparenza naturale è astratta in un calibratissimo ordine geometrico. Il tempo, allora, si eleva ad enigma attraverso una visone pietrificata.
È un linguaggio artistico cerebrale, ermetico che si realizza in composizioni in evoluzione e che hanno ancora da conquistare nuovi e più fini valori nel laboratorio della tecnica.
Ma, la sua volontà e il suo desiderio di comunicare attraverso il fare arte sono più forti tanto da condurlo verso una sorta di attivismo artistico. E nella ricerca della corretta grammatica per dire le cose, per agire criticamente nella realtà, ritrovi che De Marco è concettuale, mai descrittivo, mai narrativo.
I bizzarri personaggi, allora, si svelano, sempre più nitidamente quali simboli di una complessa e infelice condizione dell’uomo. Perché le figure al centro delle sue tele si fanno allegoria, riflessioni molto ampie sull’individuo, sulla qualità delle sue relazioni e del suo essere nel mondo.
Penso alle teorie avanguardistiche del dadaismo, a “Metropolis”, a “l’Urlo” di Allen Ginsberg e alla poetica appassionata e di protesta della “Beat Generation”, al “Deserto B” di Moebius, a “Fluxus”..ognuno di questi alle prese con istanze antropocentriche.
Ma mi torna in mente anche l’esordio pubblico di Piero Manzoni, che espose, senza successo, alcuni quadri al premio San Fedele nel 1956. Le sue opere avevano a che fare con la rappresentazione umana, col concetto di perdita di identità.
Dunque, De Marco con gli “uomini scala”, raccogliendo l’eredità di Duchamp, è come se dicesse che, in una società moderna dove esiste e viene abusata la riproduzione dell’immagine, l’artista deve essere concettuale e pensante e fare della sua arte il medium comunicativo per eccellenza, capace di unire gli uomini sulla base di processi creativi che sono soprattutto processi vitali.
Alla denuncia della deriva dell’uomo contemporaneo, De Marco aggiunge anche una serrata ed ironica accusa contro la deriva dell’attuale sistema artistico. Egli avverte un forte disagio, quello stesso che lo lega a numerosi operatori estetici. Stigmatizza ovvero la difficoltà di riuscire a trovare spazio per esprimersi e lasciar vivere/manifestarsi le proprie energie creative che sono intelletto, che sono sentimento ed emozione, senza che esse vengano svendute nella “piazza” dei collezionisti e dei galleristi senza scrupoli.
De Marco critica quello che anche a me pare essere un meraviglioso mercato agitato, dove l’informe gestualità ti agguanta/ti confonde come in un vortice di polvere. Dove il disordine comincia a picchiare forte mentre, tra urti e spinte centripete, assisti ad uno spettacolo caotico ma così splendido e vero da poterti ingannare.
Si affollano le voci di critici e di storici dell’arte intorno al problema. Addetti ai lavori o tuttologi, esperti o semplici appassionati, nostalgici o integralisti della provocazione, avanzano ipotesi e teorie, si azzuffano parlando critichese. E intanto perdono di vista la questione. Il Parnaso continua ad essere in rivolta, l’arte e le disquisizioni intorno ad essa, sempre più aggrovigliate e criptiche. Sempre più inutili. Il nocciolo della questione è sempre quello, da un secolo questa parte, legato al problema del significato contrattuale dell’arte ovvero a suo aspetto comunicativo. Ho sentito dire che l’arte è in crisi; e non credo di esserne stata l’unica.
L’arte non è in crisi, almeno certa arte. Crisi significa inappagamento per quanto è stato fatto quindi spinta a mutare lo stato delle cose, slancio verso il miglioramento, verso un altrove. Ritengo, al contrario, che l’arte sia in pieno regime accademico. E questo De Marco lo ha avvertito. Le sue ultime tele ne sono l’esempio. Contro l’arte come pura sensazione; contro l’immagine, glassata in mera apparecchiatura esteriore, che si è fatta avara di significati, di messaggi, di idee; contro il mondo sacerdotale che amministra l’arte solo come affare, esiste una tribù di operatori artistici e culturali che credono nell’arte come mezzo di comunicazione. E li in mezzo ho ritrovato Carmine De Marco che vuole continuare a fare arte per stimolare ed attivare la mente dello spettatore. Non per adeguarsi alle tendenze imposte dal mercato.
Dalla poetica di Pablo Picasso al pensiero di Carlo Giulio Argan, dagli scritti Achille Bonito Oliva a quelli di Germano Celant e di Felix Vogel emerge chiaro come l’arte abbia bisogno di dialogare col contesto sociale, di uscire dal museo, dalle gallerie per incontrare il pubblico e giocare la sua parte nella realtà per produrre domande e moti di coscienza.
Le grandi manifestazioni di promozione della giovane arte internazionale, non ultima l’esperienza di Manifesta 7, svoltasi in Trentino Alto Adige tra settembre e novembre 2008, ci lasciano sperare che una buona parte del sistema dell’arte continui a proporsi come oggetto di lucida riflessione sul fare degli uomini e sugli enigmi da esso custoditi e non più o non solo come svago, ulteriore, compreso nel pacchetto preconfezionato dei futili piaceri di massa. Che Carmine De Marco, quindi, sia parte di questa tribù non possiamo che esserne orgogliosi.
Melania Longo
Al posto della testa hanno un ovale da manichino. Non vedi gli occhi, né la bocca. L’anonimato li ha cancellati, inghiottendoli nel suo gorgo immortale. Le braccia e le gambe, poi, hanno preso l’insolita forma di una scala.
Sicché ti sfila davanti una teoria di esistenze congelate in una stasi metafisica. Sono simulacri spaesanti di vite imprigionate tra le bende e il gesso di un sistema che costringe, distrugge e riduce alla pazzia.
Automi privi di identità, questi quasi uomini di De Marco, sembrano degli extra terrestri in avanscoperta in scenari desolati e dal silenzio estraniante.
Piatte, le stesure dei colori, vanno professando il regime del vuoto, forse del nulla. Come nel deserto, dove regna l’inganno della quiete, come in una rappresentazione di De Chirico o dentro l’illusione di una scena di Dalì, nei lavori di Carmine De Marco ogni apparenza naturale è astratta in un calibratissimo ordine geometrico. Il tempo, allora, si eleva ad enigma attraverso una visone pietrificata.
È un linguaggio artistico cerebrale, ermetico che si realizza in composizioni in evoluzione e che hanno ancora da conquistare nuovi e più fini valori nel laboratorio della tecnica.
Ma, la sua volontà e il suo desiderio di comunicare attraverso il fare arte sono più forti tanto da condurlo verso una sorta di attivismo artistico. E nella ricerca della corretta grammatica per dire le cose, per agire criticamente nella realtà, ritrovi che De Marco è concettuale, mai descrittivo, mai narrativo.
I bizzarri personaggi, allora, si svelano, sempre più nitidamente quali simboli di una complessa e infelice condizione dell’uomo. Perché le figure al centro delle sue tele si fanno allegoria, riflessioni molto ampie sull’individuo, sulla qualità delle sue relazioni e del suo essere nel mondo.
Penso alle teorie avanguardistiche del dadaismo, a “Metropolis”, a “l’Urlo” di Allen Ginsberg e alla poetica appassionata e di protesta della “Beat Generation”, al “Deserto B” di Moebius, a “Fluxus”..ognuno di questi alle prese con istanze antropocentriche.
Ma mi torna in mente anche l’esordio pubblico di Piero Manzoni, che espose, senza successo, alcuni quadri al premio San Fedele nel 1956. Le sue opere avevano a che fare con la rappresentazione umana, col concetto di perdita di identità.
Dunque, De Marco con gli “uomini scala”, raccogliendo l’eredità di Duchamp, è come se dicesse che, in una società moderna dove esiste e viene abusata la riproduzione dell’immagine, l’artista deve essere concettuale e pensante e fare della sua arte il medium comunicativo per eccellenza, capace di unire gli uomini sulla base di processi creativi che sono soprattutto processi vitali.
Alla denuncia della deriva dell’uomo contemporaneo, De Marco aggiunge anche una serrata ed ironica accusa contro la deriva dell’attuale sistema artistico. Egli avverte un forte disagio, quello stesso che lo lega a numerosi operatori estetici. Stigmatizza ovvero la difficoltà di riuscire a trovare spazio per esprimersi e lasciar vivere/manifestarsi le proprie energie creative che sono intelletto, che sono sentimento ed emozione, senza che esse vengano svendute nella “piazza” dei collezionisti e dei galleristi senza scrupoli.
De Marco critica quello che anche a me pare essere un meraviglioso mercato agitato, dove l’informe gestualità ti agguanta/ti confonde come in un vortice di polvere. Dove il disordine comincia a picchiare forte mentre, tra urti e spinte centripete, assisti ad uno spettacolo caotico ma così splendido e vero da poterti ingannare.
Si affollano le voci di critici e di storici dell’arte intorno al problema. Addetti ai lavori o tuttologi, esperti o semplici appassionati, nostalgici o integralisti della provocazione, avanzano ipotesi e teorie, si azzuffano parlando critichese. E intanto perdono di vista la questione. Il Parnaso continua ad essere in rivolta, l’arte e le disquisizioni intorno ad essa, sempre più aggrovigliate e criptiche. Sempre più inutili. Il nocciolo della questione è sempre quello, da un secolo questa parte, legato al problema del significato contrattuale dell’arte ovvero a suo aspetto comunicativo. Ho sentito dire che l’arte è in crisi; e non credo di esserne stata l’unica.
L’arte non è in crisi, almeno certa arte. Crisi significa inappagamento per quanto è stato fatto quindi spinta a mutare lo stato delle cose, slancio verso il miglioramento, verso un altrove. Ritengo, al contrario, che l’arte sia in pieno regime accademico. E questo De Marco lo ha avvertito. Le sue ultime tele ne sono l’esempio. Contro l’arte come pura sensazione; contro l’immagine, glassata in mera apparecchiatura esteriore, che si è fatta avara di significati, di messaggi, di idee; contro il mondo sacerdotale che amministra l’arte solo come affare, esiste una tribù di operatori artistici e culturali che credono nell’arte come mezzo di comunicazione. E li in mezzo ho ritrovato Carmine De Marco che vuole continuare a fare arte per stimolare ed attivare la mente dello spettatore. Non per adeguarsi alle tendenze imposte dal mercato.
Dalla poetica di Pablo Picasso al pensiero di Carlo Giulio Argan, dagli scritti Achille Bonito Oliva a quelli di Germano Celant e di Felix Vogel emerge chiaro come l’arte abbia bisogno di dialogare col contesto sociale, di uscire dal museo, dalle gallerie per incontrare il pubblico e giocare la sua parte nella realtà per produrre domande e moti di coscienza.
Le grandi manifestazioni di promozione della giovane arte internazionale, non ultima l’esperienza di Manifesta 7, svoltasi in Trentino Alto Adige tra settembre e novembre 2008, ci lasciano sperare che una buona parte del sistema dell’arte continui a proporsi come oggetto di lucida riflessione sul fare degli uomini e sugli enigmi da esso custoditi e non più o non solo come svago, ulteriore, compreso nel pacchetto preconfezionato dei futili piaceri di massa. Che Carmine De Marco, quindi, sia parte di questa tribù non possiamo che esserne orgogliosi.
Melania Longo
18
aprile 2009
De Marco W. – Voglia di AmmazzArte
Dal 18 aprile al primo maggio 2009
giovane arte
Location
ENOTECA RISTORANTE FALSOPEPE
Massafra, Via Santi Ii Medici, 42, (Taranto)
Massafra, Via Santi Ii Medici, 42, (Taranto)
Orario di apertura
da giovedì a domenica ore 19 - 01
Vernissage
18 Aprile 2009, ore 18.30
Autore
Curatore