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De Soto, esplora te stesso (Emily Dickinson)
si alternano i percorsi creativi di otto artiste italiane e straniere di varie generazioni che attraverso la fotografia esprimono se stesse, la propria esperienza di vita, indugiando con lo sguardo a cogliere i luoghi e le presenze del vissuto, la natura, il paesaggio, come spazi interiori
Comunicato stampa
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Negli spazi espositivi si alternano i percorsi creativi di otto artiste italiane e straniere di varie generazioni che attraverso la fotografia esprimono se stesse, la propria esperienza di vita, indugiando con lo sguardo a cogliere i luoghi e le presenze del vissuto, la natura, il paesaggio, come spazi interiori.
Il titolo della mostra che corrisponde al primo verso dell’omonima poesia della statunitense Emily Dickinson invita ad “approfondire” la vista nel proprio universo e, al tempo stesso, esprime la difficoltà di conoscersi, di scavare nel gorgo. E’ un’esortazione rivolta apparentemente a Hernando De Soto, un esploratore spagnolo vissuto nei tempi delle conquiste dei territori dell’America Latina, ma realmente diretta all’essere umano. Si percepisce l’impegno a perseguire questa grande meta, considerando anche l’impossibile o utopica pretesa di giungere completamente a conoscere il proprio io. L’indagine nel “continente sconosciuto” non ha mai fine.
“L’inconscio – scrive Johann Paul Richter – è veramente il campo più vasto della nostra mente, e, proprio per questa incoscienza, è l’Africa interiore, i cui ignoti confini possono estendersi lontanissimo”.
Percorrere territori e spazi incommensurabili in cui percepire il riflesso di noi stessi, l’esterno come specchio dell’interno, in confronto dialettico, l’uno proiezione dell’altro.
Renate Aller focalizza il suo occhio fotografico sul mare, ripreso sempre dal medesimo punto di osservazione, calmo nella notte o luminoso durante il giorno; un magma che si stende a petto della terra e che si fonde nel cielo, ogni volta diverso, come gli umori dell’io, profondo e infinito, in cui ritrovarsi per perdersi di nuovo e poi riprendere il cammino della ricerca.
Le “stanze” di Stefania Balestri celano ed al tempo stesso rivelano indizi, suggeriscono aperture e velano intimi segreti, sono interni del proprio vissuto che sollecitano a scavare nel fondo e ad alimentare il proprio sguardo per insinuarsi nei meandri della soggettività, attraverso un’immagine che sembra sospesa nella durata come tempo interiore.
Le postcards di Connie Dekker rinviano ai luoghi della propria esistenza, il paese d’origine e quello in cui ha soggiornato per anni, come spazi della memoria tra i quali stabilire un legame unico e continuo, costituito di ricordi, di affetti, di nostalgie, diario di un viaggio che permane illimitato nella coscienza.
L’occhio interno di Martina Della Valle si rivolge, come un flashback istantaneo, all’infanzia, a scandagliare i territori dell’inconscio, tramite i nascondigli, trovati o creati da bambini, nel desiderio di isolarsi per un attimo dal mondo degli altri, stare in silenzio per non farsi scoprire, sollecitando la ricerca e la curiosità di conoscere.
Rachel Morellet propone un dialogo affettivo che perdura nel tempo del vissuto, un’amicizia che supera ogni confine, indissolubile al di là di distanze geografiche, come ad unire punti diversi nel proprio paesaggio interiore per costruire una mappa emozionale.
Così Elisabetta Scarpini nelle sequenze fotografiche racconta se stessa, traccia la propria impronta come nei ricami dilatando il tempo di coscienza, dà forma ad una scrittura che delinea una presenza tra consistenza ed evanescenza e che rivela uno stato di attesa e un desiderio di riscoprirsi come identità al di là dell’istantaneità fuggevole .
Negli autoscatti di Donatella Spaziani la figura umana assume posizioni naturali o forzate nel tentativo di ritrovare una dimensione intima in spazi chiusi, anonimi, in cui le finestre diventano gli unici varchi, frontiere tra l’esterno e l’interno in cui i gesti, i movimenti del corpo testimoniano un’urgenza, sono espressioni di un dinamismo interiore, di uno scavo psicologico alle radici dell’essere, ai limiti della rarefazione e della perdita.
Gli oggetti presenti del soggetto assente che appaiono nelle opere di Margherita Verdi permettono di captare i segnali di un tempo interno, diventano quasi “intermittenze di cuore” che consentono di recuperare il filo della memoria, di emozioni, di atmosfere magiche, come illuminazioni attimali da rivivere, che riemergono dall’oscurità del profondo.
Una mostra, dunque, in cui le opere si alternano come ritmi interiori, che suggeriscono di spaziare con lo sguardo per calarsi dentro, a discoprire l’essenza nell’apparenza dell’immagine, a registrare se stessi su tempi lunghi, incommensurabili, di storie personali, di scene vissute, di pause emotive, rispetto ai ritmi convulsivi del mondo tecnologico.
Il titolo della mostra che corrisponde al primo verso dell’omonima poesia della statunitense Emily Dickinson invita ad “approfondire” la vista nel proprio universo e, al tempo stesso, esprime la difficoltà di conoscersi, di scavare nel gorgo. E’ un’esortazione rivolta apparentemente a Hernando De Soto, un esploratore spagnolo vissuto nei tempi delle conquiste dei territori dell’America Latina, ma realmente diretta all’essere umano. Si percepisce l’impegno a perseguire questa grande meta, considerando anche l’impossibile o utopica pretesa di giungere completamente a conoscere il proprio io. L’indagine nel “continente sconosciuto” non ha mai fine.
“L’inconscio – scrive Johann Paul Richter – è veramente il campo più vasto della nostra mente, e, proprio per questa incoscienza, è l’Africa interiore, i cui ignoti confini possono estendersi lontanissimo”.
Percorrere territori e spazi incommensurabili in cui percepire il riflesso di noi stessi, l’esterno come specchio dell’interno, in confronto dialettico, l’uno proiezione dell’altro.
Renate Aller focalizza il suo occhio fotografico sul mare, ripreso sempre dal medesimo punto di osservazione, calmo nella notte o luminoso durante il giorno; un magma che si stende a petto della terra e che si fonde nel cielo, ogni volta diverso, come gli umori dell’io, profondo e infinito, in cui ritrovarsi per perdersi di nuovo e poi riprendere il cammino della ricerca.
Le “stanze” di Stefania Balestri celano ed al tempo stesso rivelano indizi, suggeriscono aperture e velano intimi segreti, sono interni del proprio vissuto che sollecitano a scavare nel fondo e ad alimentare il proprio sguardo per insinuarsi nei meandri della soggettività, attraverso un’immagine che sembra sospesa nella durata come tempo interiore.
Le postcards di Connie Dekker rinviano ai luoghi della propria esistenza, il paese d’origine e quello in cui ha soggiornato per anni, come spazi della memoria tra i quali stabilire un legame unico e continuo, costituito di ricordi, di affetti, di nostalgie, diario di un viaggio che permane illimitato nella coscienza.
L’occhio interno di Martina Della Valle si rivolge, come un flashback istantaneo, all’infanzia, a scandagliare i territori dell’inconscio, tramite i nascondigli, trovati o creati da bambini, nel desiderio di isolarsi per un attimo dal mondo degli altri, stare in silenzio per non farsi scoprire, sollecitando la ricerca e la curiosità di conoscere.
Rachel Morellet propone un dialogo affettivo che perdura nel tempo del vissuto, un’amicizia che supera ogni confine, indissolubile al di là di distanze geografiche, come ad unire punti diversi nel proprio paesaggio interiore per costruire una mappa emozionale.
Così Elisabetta Scarpini nelle sequenze fotografiche racconta se stessa, traccia la propria impronta come nei ricami dilatando il tempo di coscienza, dà forma ad una scrittura che delinea una presenza tra consistenza ed evanescenza e che rivela uno stato di attesa e un desiderio di riscoprirsi come identità al di là dell’istantaneità fuggevole .
Negli autoscatti di Donatella Spaziani la figura umana assume posizioni naturali o forzate nel tentativo di ritrovare una dimensione intima in spazi chiusi, anonimi, in cui le finestre diventano gli unici varchi, frontiere tra l’esterno e l’interno in cui i gesti, i movimenti del corpo testimoniano un’urgenza, sono espressioni di un dinamismo interiore, di uno scavo psicologico alle radici dell’essere, ai limiti della rarefazione e della perdita.
Gli oggetti presenti del soggetto assente che appaiono nelle opere di Margherita Verdi permettono di captare i segnali di un tempo interno, diventano quasi “intermittenze di cuore” che consentono di recuperare il filo della memoria, di emozioni, di atmosfere magiche, come illuminazioni attimali da rivivere, che riemergono dall’oscurità del profondo.
Una mostra, dunque, in cui le opere si alternano come ritmi interiori, che suggeriscono di spaziare con lo sguardo per calarsi dentro, a discoprire l’essenza nell’apparenza dell’immagine, a registrare se stessi su tempi lunghi, incommensurabili, di storie personali, di scene vissute, di pause emotive, rispetto ai ritmi convulsivi del mondo tecnologico.
17
dicembre 2006
De Soto, esplora te stesso (Emily Dickinson)
Dal 17 dicembre 2006 al 15 marzo 2007
arte contemporanea
Location
D’A SPAZIO D’ARTE
Empoli, Via Della Repubblica, 52, (Firenze)
Empoli, Via Della Repubblica, 52, (Firenze)
Vernissage
17 Dicembre 2006, ore 11-19
Autore