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Dellaclà – Chiodi delle mie pene
Dellaclà realizza una mostra personale estremamente articolata che sviluppa lavorando con un ventaglio di mezzi espressivi decisamente ampio.
Comunicato stampa
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Dellaclà realizza una mostra personale estremamente articolata che sviluppa lavorando con un ventaglio di mezzi espressivi decisamente ampio. Passa dall'installazione alla pittura, dalla performance con documentazione video a nuovi modi di concepire l'utilizzo dell'acquerello e dell'incisione e giostra la complessità strutturale della mostra con un controllo maturo che mantiene il tutto bilanciato, uniforme, denso e omogeneo.
E' del resto complicato e tortuoso anche il raggio di tematiche che l'artista intente affrontare e che, come il titolo aiuta bene a capire, si concentra sul dolore, su quella vasta area di situazioni umane negative, quelle “pene” che possono essere più o meno personali e intime oppure comuni e condivise. Sono esperienze incentrate su una forte umanità, con una direzione più specificatamente femminile e una sotto-venatura vagamente romantica e nostalgica. Il tutto tende però all'idea di superamento e il vero fulcro del messaggio è chiaramente un quasi ricettario di come recuperare se stessi dopo le sconfitte in un ripristino di una situazione di speranza e fiducia senza la quale la vita non varrebbe la pena di essere vissuta.
Nel linguaggio metaforico utilizzato da Dellaclà il dolore è raffigurato con la presenza di armi o strumenti che hanno la capacità potenziale di ferire, come pistole, mannaie o come appunto i chiodi, in questa occasione messi particolarmente in risalto dall'installazione che apre la mostra. Si tratta, infatti, di una pedana di tre metri per tre con una base di gommapiuma su cui sono stati depositati cinque quintali di chiodi. Essendo la pedana una tappa obbligata di passaggio nella galleria per riuscire a visitare il resto della mostra, il visitatore è obbligato a calpestarla. E' a questo punto che ci si rende conto della discrepanza tra l'apparente durezza e asperità dell'installazione e la reale sensazione di morbidezza che si ottiene calpestandolo grazie alla gommapiuma nascosta al di sotto, esperienza interpretabile anche in un'ottica di premio per chi decide di affrontare gli apparenti ostacoli della vita e di compiere uno sforzo per passare oltre. Ma non è tutto. Sulla pedana si trova anche un cuscino di lamiera dentro cui è conficcato un gigantesco chiodo alto 1.64 cm, inciso su due lati in uno sforzo fisico ed emotivo dettato da una visceralità autobiografica. Da una parte, infatti, sono raccolte per immagini una serie di elementi, avvenimenti e sensazioni positive vissute in prima persona dall'artista, dall'altra, specularmente, sono rappresentate una serie di momenti difficili e avversità, raccontate in modo quasi iconico.
Oltrepassata la pedana, gesto che possiamo vedere anche come rito di iniziazione per entrare nella sfera più intima dell'artista, troviamo una mostra in cui si combatte perennemente tra leggerezza e pesantezza, gioia e dolore, spiritualità e rinuncia. La forte componente umana investita da Dellaclà è segnalata soprattutto dal fatto che in un modo o nell'altro ogni opera è un autoritratto, il che implica la presenza quasi ossessiva di un'auto-analisi meditata, alla ricerca di una soluzione di positività che deve emergere dall'interno di noi stessi.
Prendiamo ad esempio le incisioni su gommapiuma. Tecnicamente è da rilevare che Dellaclà è la prima artista a incidere questo materiale, ma più che un esperimento di nuovi linguaggi l'artista ricerca il contrasto tra uno strumento che presuppone forza fisica e che dà l'idea di pressione, scalfittura e forzatura, utilizzando però come base un materiale fragile e morbido per antonomasia. A essere rappresentate sono poi le caratteristiche di durezza e di micidiale potenziale delle armi, metafora di un dolore che resta attaccato alla fragilità dell'anima e che, reso oggetto attraverso una rappresentazione a metà tra il teatrale e il magico, diventa condivisibile come strumento di conoscenza tra gli esseri umani, uno specchio dove ognuno può vedere riflesse e accettare le proprie pene, le proprie ferite, il rischio della sofferenza a cui ogni uomo è esposto continuamente.
Le armi, o meglio, le lastre a forma di armi che sono servite per le incisioni, sono poi riutilizzate in sculture che riproducono in scala minore l'installazione di apertura mostra. Altri tre cuscini di lamiera, infatti, sono disposti in galleria con conficcate al loro interno le forme incise di un'accetta, una mannaia e un nuovo chiodo stavolta in dimensioni ridotte. E le stesse sono poi riproposte, per chiudere una struttura ciclica completa, in dipinti di grandi dimensioni in cui l'artista si autoritrae alle prese con la manifestazione fisica e allegorica del proprio dolore, illustrando visivamente quei modi di dire colloquiali che utilizziamo quotidianamente per esprimere il nostro dolore: “un proiettile nel cuore”, “una coltellata”, “un chiodo nel petto” e via dicendo. Una sofferenza che viene però superata attraverso un fascio di luce che la illumina direttamente nelle ultime opere che ha realizzato e che è di fatto il rischiararsi dopo la lotta, la volontà di seguire una strada di salvezza, una presa di coscienza della necessità del superamento, del raggiungimento di una meta nonostante le avversità che tutti prima o poi incontriamo.
Così il dolore inverte il suo senso di marcia e compie un back-forward nel quadro che dà il titolo alla mostra in cui Dellaclà si strappa via dei chiodi dal petto, culminando in un atto estremo e viscerale la radicale decisione di riappropriarsi della propria esistenza. Questo processo è del resto esplicitato da una performance teatrale testimoniata in galleria da un video e da una serie di acquerelli tratti da frames della ripresa. La danza che Dellaclà compie nel suo atto performativo è completamente tesa a un'auto-liberazione da un sentimento che la tiene schiava e che esprime attraverso il testo della canzona “Paloma nera”, in una serie di atti teatrali drammatici che però culminano in un riscatto finale che la vede come rinata.
Da sottolineare che Dellaclà compie una continua ricerca della rappresentazione del dolore femminile nella storia dell'arte, avvicinandosi ad alcune artiste come Frida Kahlo, con cui condivide diversi escamotage stilistici come l'autoritrarsi, l'estrapolarsi fuori da un contesto realistico, la cura per le espressioni del viso in modo molto più meticoloso che tutto il resto dell'opera e un senso onnipresente di una forza superiore che ci trascina avanti ugualmente nonostante l'apparente insostenibilità di quello che può accadere. Così come altre analogie possono essere ricercate con il lavoro fotografico della nostra Tina Modotti, con gli aghi di Mona Hatoum, con l'autoritrarsi insistito e inquietante di Cindy Sherman e via dicendo. La sua ricerca prende dunque ancora più forza in quanto si inserisce in un percorso storico e sociale di un'arte al femminile tradizionalmente impegnata contro la sofferenza e il dolore, si tratti di “pene” e “ferite” intime o sociali, messe in luce da una sensibilità che l'animo femminile può rendere sconcertatamente poetiche.
Carolina Lio
E' del resto complicato e tortuoso anche il raggio di tematiche che l'artista intente affrontare e che, come il titolo aiuta bene a capire, si concentra sul dolore, su quella vasta area di situazioni umane negative, quelle “pene” che possono essere più o meno personali e intime oppure comuni e condivise. Sono esperienze incentrate su una forte umanità, con una direzione più specificatamente femminile e una sotto-venatura vagamente romantica e nostalgica. Il tutto tende però all'idea di superamento e il vero fulcro del messaggio è chiaramente un quasi ricettario di come recuperare se stessi dopo le sconfitte in un ripristino di una situazione di speranza e fiducia senza la quale la vita non varrebbe la pena di essere vissuta.
Nel linguaggio metaforico utilizzato da Dellaclà il dolore è raffigurato con la presenza di armi o strumenti che hanno la capacità potenziale di ferire, come pistole, mannaie o come appunto i chiodi, in questa occasione messi particolarmente in risalto dall'installazione che apre la mostra. Si tratta, infatti, di una pedana di tre metri per tre con una base di gommapiuma su cui sono stati depositati cinque quintali di chiodi. Essendo la pedana una tappa obbligata di passaggio nella galleria per riuscire a visitare il resto della mostra, il visitatore è obbligato a calpestarla. E' a questo punto che ci si rende conto della discrepanza tra l'apparente durezza e asperità dell'installazione e la reale sensazione di morbidezza che si ottiene calpestandolo grazie alla gommapiuma nascosta al di sotto, esperienza interpretabile anche in un'ottica di premio per chi decide di affrontare gli apparenti ostacoli della vita e di compiere uno sforzo per passare oltre. Ma non è tutto. Sulla pedana si trova anche un cuscino di lamiera dentro cui è conficcato un gigantesco chiodo alto 1.64 cm, inciso su due lati in uno sforzo fisico ed emotivo dettato da una visceralità autobiografica. Da una parte, infatti, sono raccolte per immagini una serie di elementi, avvenimenti e sensazioni positive vissute in prima persona dall'artista, dall'altra, specularmente, sono rappresentate una serie di momenti difficili e avversità, raccontate in modo quasi iconico.
Oltrepassata la pedana, gesto che possiamo vedere anche come rito di iniziazione per entrare nella sfera più intima dell'artista, troviamo una mostra in cui si combatte perennemente tra leggerezza e pesantezza, gioia e dolore, spiritualità e rinuncia. La forte componente umana investita da Dellaclà è segnalata soprattutto dal fatto che in un modo o nell'altro ogni opera è un autoritratto, il che implica la presenza quasi ossessiva di un'auto-analisi meditata, alla ricerca di una soluzione di positività che deve emergere dall'interno di noi stessi.
Prendiamo ad esempio le incisioni su gommapiuma. Tecnicamente è da rilevare che Dellaclà è la prima artista a incidere questo materiale, ma più che un esperimento di nuovi linguaggi l'artista ricerca il contrasto tra uno strumento che presuppone forza fisica e che dà l'idea di pressione, scalfittura e forzatura, utilizzando però come base un materiale fragile e morbido per antonomasia. A essere rappresentate sono poi le caratteristiche di durezza e di micidiale potenziale delle armi, metafora di un dolore che resta attaccato alla fragilità dell'anima e che, reso oggetto attraverso una rappresentazione a metà tra il teatrale e il magico, diventa condivisibile come strumento di conoscenza tra gli esseri umani, uno specchio dove ognuno può vedere riflesse e accettare le proprie pene, le proprie ferite, il rischio della sofferenza a cui ogni uomo è esposto continuamente.
Le armi, o meglio, le lastre a forma di armi che sono servite per le incisioni, sono poi riutilizzate in sculture che riproducono in scala minore l'installazione di apertura mostra. Altri tre cuscini di lamiera, infatti, sono disposti in galleria con conficcate al loro interno le forme incise di un'accetta, una mannaia e un nuovo chiodo stavolta in dimensioni ridotte. E le stesse sono poi riproposte, per chiudere una struttura ciclica completa, in dipinti di grandi dimensioni in cui l'artista si autoritrae alle prese con la manifestazione fisica e allegorica del proprio dolore, illustrando visivamente quei modi di dire colloquiali che utilizziamo quotidianamente per esprimere il nostro dolore: “un proiettile nel cuore”, “una coltellata”, “un chiodo nel petto” e via dicendo. Una sofferenza che viene però superata attraverso un fascio di luce che la illumina direttamente nelle ultime opere che ha realizzato e che è di fatto il rischiararsi dopo la lotta, la volontà di seguire una strada di salvezza, una presa di coscienza della necessità del superamento, del raggiungimento di una meta nonostante le avversità che tutti prima o poi incontriamo.
Così il dolore inverte il suo senso di marcia e compie un back-forward nel quadro che dà il titolo alla mostra in cui Dellaclà si strappa via dei chiodi dal petto, culminando in un atto estremo e viscerale la radicale decisione di riappropriarsi della propria esistenza. Questo processo è del resto esplicitato da una performance teatrale testimoniata in galleria da un video e da una serie di acquerelli tratti da frames della ripresa. La danza che Dellaclà compie nel suo atto performativo è completamente tesa a un'auto-liberazione da un sentimento che la tiene schiava e che esprime attraverso il testo della canzona “Paloma nera”, in una serie di atti teatrali drammatici che però culminano in un riscatto finale che la vede come rinata.
Da sottolineare che Dellaclà compie una continua ricerca della rappresentazione del dolore femminile nella storia dell'arte, avvicinandosi ad alcune artiste come Frida Kahlo, con cui condivide diversi escamotage stilistici come l'autoritrarsi, l'estrapolarsi fuori da un contesto realistico, la cura per le espressioni del viso in modo molto più meticoloso che tutto il resto dell'opera e un senso onnipresente di una forza superiore che ci trascina avanti ugualmente nonostante l'apparente insostenibilità di quello che può accadere. Così come altre analogie possono essere ricercate con il lavoro fotografico della nostra Tina Modotti, con gli aghi di Mona Hatoum, con l'autoritrarsi insistito e inquietante di Cindy Sherman e via dicendo. La sua ricerca prende dunque ancora più forza in quanto si inserisce in un percorso storico e sociale di un'arte al femminile tradizionalmente impegnata contro la sofferenza e il dolore, si tratti di “pene” e “ferite” intime o sociali, messe in luce da una sensibilità che l'animo femminile può rendere sconcertatamente poetiche.
Carolina Lio
04
ottobre 2008
Dellaclà – Chiodi delle mie pene
Dal 04 al 31 ottobre 2008
arte contemporanea
Location
911 GALLERIA D’ARTE
La Spezia, Via Del Torretto, 48, (La Spezia)
La Spezia, Via Del Torretto, 48, (La Spezia)
Orario di apertura
dal Lunedì al Sabato dalle 10.30 alle 12.30
e dalle 16.30 alle 19.30
Vernissage
4 Ottobre 2008, 18.00
Autore
Curatore