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Derleth | Leofreddi | Mauro – Effemeridi
Il tempo e lo spazio nell’arte contemporanea
Comunicato stampa
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EFFEMERIDI
Il tempo e lo spazio nell’arte contemporanea.
Stefano Cecchetto
Il tempo è un’illusione percepita.
Il senso che noi riusciamo a percepire del tempo è un aspetto basilare della condizione umana; ma il tempo, inteso come trascorso del nostro quotidiano, rivela problematiche più soggettive e profonde di quelle che riusciamo a concepire; lo spazio e la materia si fondono e si confondono nei significati reconditi di parole quali: passato, presente e futuro, ma una cosa è certa: il tempo e la memoria determinano la nostra identità.
Il tempo è anche il segnale che rivela l’essenza delle cose, e la patina del tempo, stesa come un elemento di bellezza, è lo scandaglio che rivela il legame più sicuro tra la natura e l’arte.
Lo scenario di un paesaggio concepito attraverso le effemeridi, questa tavola numerica che scandisce le coordinate e gli altri elementi variabili nel tempo e negli astri, per istanti regolarmente intervallati, ritrova nell’espressione artistica, la visione istantanea di una poetica dichiarata.
La confluenza di questi istanti, la loro consonante armonia, determina il tempo sospeso tra il pensiero e l’azione, che nel caso specifico si materializza nella creatività dell’artista.
In questa mostra un fotografo tedesco e due artisti italiani si confrontano sul tema del tempo e dello spazio in relazione all’espressione artistica nel panorama dell’arte contemporanea; in un confronto/incontro con l’infinito e le sue varianti, per la ricerca e la scoperta, di nuovi paesaggi metafisici.
Se l’immagine di un paesaggio in movimento viene fermata dalla fotografia, che cosa resta della nostra concezione del tempo? Stiamo parlando di un passato che diventa presente o di un futuro che regredisce? Sant’Agostino descrive bene il suo tentativo di definire il tempo. Cos’è dunque il tempo? Chiede il teologo nelle sue Confessioni: “Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. Come possono esistere questi due tipi di tempo – passato e futuro – quando il passato non è più, e il futuro non è ancora?”
Lo spazio sospeso di questa domanda è forse riscontrabile nella materia dell’arte che trova risposta nella fissità dell’immagine: Günter Derleth, nella sua straordinaria ricognizione fotografica di Ruta de la Plata, la grande strada spagnola che in tempi preromanici è stata l’itinerario utilizzato dalle migrazioni stagionali tra sud e nord dell’occidente peninsulare, riesce a fissare con la determinazione di un bianco e nero spettacolare, le immagini di un paesaggio della memoria. Ogni suo scatto diventa la dichiarazione apparente della sua maniera di osservare il presente attraverso la visione arcaica di un passato ancora sostenibile.
Nel II secolo a.C. iniziò a costruirsi un’antica calzada romana, con il proposito di far comunicare le città di Mérida e Astorga, Ruta de la Plata diventa così una delle vie di comunicazione più importanti di tutta la Penisola Iberica. Ancora oggi ci sono alcune costruzioni realizzate dai romani, come ponti, fortezze, pietre miliari, massi di granito che indicano le miglia, e piccole pensioni dove i viaggiatori trovavano riposo. Questo paesaggio, saturo di presenze e di rimembranze, è lo spunto che ha spinto il fotografo tedesco Günter Derleth a sviluppare un percorso parallelo che incrocia il passo devoto dei pellegrini diretti a Santiago de Compostela. Il silenzio metafisico che attraversa le sue fotografie ha il respiro di una contemplazione melanconica: lo spirito del tempo resta sospeso nella fissità dell’immagine, magari al limite dello straordinario, dentro ai labirinti intricati dell’enigma, quella strada potrebbe indicare una via d’uscita dal senso arcano della vita. I segni di una rinascita sono percepibili nel contrasto delle sfumature, che nell’ingrandimento acquistano una visibilità amplificata; ed è proprio in questo rendersi visibile che l’artista diventa concreto, è nella sua spettacolarità che l’immagine riesce a trasformare la vita in evento, mitico o drammatico che sia. La trasposizione fotografica che Günter Derleth riesce a rendere con il suo lavoro è affascinante; la congiunzione visiva tra il tempo e lo spazio che riusciamo a percepire nelle sue opere non è soltanto quella che appare, ma è l’indizio di un passato recondito che l’immagine stessa fa trasparire, come un’evocazione lontana, come una confidenza segreta che finalmente viene rivelata.
You are here, Voi siete qui! Sembra quasi scandire una certezza, questa frase che ritorna più volte, scritta a matita, nei disegni di Emilio Leofreddi, è una ripetuta affermazione per determinare il luogo degli accadimenti; anche se avete il presentimento di essere altrove, state certi che voi siete qui, siete nel posto dove le cose accadono, perché è sicuro che le cose accadono. Uno dei comandamenti di Nietzsche è proprio questo: “Volere tutto ciò che è già accaduto”. E che altro fa Leofreddi se non mandare dei segnali di avviso ai naviganti: tutto quello che è già accaduto potrebbe accadere di nuovo, da un’altra parte, in tempi e modi differenti. La frazione dell’attimo, quell’istante che appartiene al non tempo, e che a volte riusciamo a cogliere prima dell’accaduto, rientra nei tempi sospesi della percezione: il passato e il presente sono la stessa identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono una struttura immobile e di significato eternamente uguale.
Nel fascicolo di Valori Plastici dell’aprile-maggio 1919, Giorgio de Chirico scriveva: “Ogni cosa ha due aspetti: uno corrente, quello che riusciamo a vedere quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro, lo spettrale o metafisico, che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica, così come certi corpi occultati da materia impenetrabile ai raggi solari non possono apparire che sotto la potenza di luci artificiali quali sarebbero i raggi X.” Una dichiarazione questa che si addice all’opera di Emilio Leofreddi, misteriosa per certi aspetti e rivelata per altri: le immagini emblematiche che l’artista esplora attraverso la sua poetica solare, sono dichiarazioni circostanziate di un’appartenenza al mondo reale visto sotto uno sguardo utopico che disorienta. Lo smarrimento che traspare dalle sue carte, una sorta di mappe per orientare il pensiero, altro non è che la proiezione di un labirinto interiore che trova la sua via d’uscita soltanto tra i segnali replicati di un immaginario estetico. I poli d’attrazione, ripetutamente evocati a matita, servono a mantenere la rotta, a dirigere il mondo verso la strada maestra che riporta tutto a casa: Mettere al mondo il mondo, invocava Alighiero Boetti in una sua opera degli anni settanta che rimane viva ed attuale come un codice di lettura per l’immortalità. Emilio Leofreddi cerca nel suo lavoro l’identità di un alter ego: dalla molteplicità dell’invisibile compaiono le indicazioni per ritrovare, e ritrovarsi, dentro all’abbraccio cosmico con l’universo intero: le suggestioni culturali che provengono dalla disciplina Zen; i disegni realizzati con combinazioni di linee dentro alle forme strutturali del collage, la babele di lingue e segni che l’artista utilizza hanno lo scopo recondito di forgiare una lingua nuova comprensibile a tutti.
Hic sunt leones, se la locuzione determina anche una locazione, a che serve cercare? Come un cartografo dell’era preindustriale, Emilio adorna le sue tende indiane con disegni ornamentali che rimandano alle zone inesplorate dell’inconscio: qui sono i leoni, dentro ai luoghi immaginari e irraggiungibili della nostra coscienza interiore, qui possiamo trovare le risposte alle numerose domande che ci poniamo continuamente. La terra abitata dall’uomo è un organismo strutturato sulle armonie parallele: i poli opposti e contrastanti dell’Oriente e dell’Occidente ritrovano, dentro alle tende di Leofreddi, la fascinazione di una temperatura cromatica che scalda il cuore del pianeta; ma se questa armonia viene minacciata – ovunque o da chiunque – da guerre o da malefatte politiche, anche l’intera umanità viene minacciata, e allora hic sun leones diventa la situazione o la condizione per cui è necessario prestare particolare attenzione a quel determinato gruppo di persone che ne mettono a rischio la salvaguardia. All’artista quindi è affidato il ruolo di una difesa imprescindibile da tutto; alla leggerezza del sogno, possiamo consegnare la mappa per l’imperscrutabile percorso di un viaggio onirico che raggiunga tutti i poli dell’infinito emisfero terrestre.
L’Alchimia, designata come Grande Arte (Ars Magna), Arte sacra e divina, Arte reale, Arte filosofale o Arte di Ermete, è sempre stata considerata dai suoi adepti che si autodefinivano Artisti, come l’espressione pragmatica dell’attività artistica. L’Alchimista era denominato anche artista, poeta o filosofo. Non a caso il frutto del magistero era chiamato, appunto, pietra filosofale.
La nozione del colore è di grande importanza nel sistema dell’alchimista - il colore è il riflesso dell’essenza - e la trasformazione di un metallo in un altro si riduce il più delle volte alla ricerca di una tintura che possa cambiare il colore originario del metallo vile nel giallo colore dell’oro.
Per attuare questa trasformazione Eraldo Mauro mette in atto un processo creativo basato sostanzialmente sulla materia e sul colore: la sperimentazione con i diversi pigmenti, con le resine e con l’applicazione dei differenti materiali organici sui più diversi supporti, pone l’artista alla stregua di un filosofo alchimista che lavora su due livelli di pensiero: mistico-iniziatico e terapeutico-sperimentale, spesso comunicanti tra di loro, in una formula che racchiude la filosofia della vita e la visione liberatrice del mondo.
Eraldo Mauro dichiara nel titolo di una sua opera recente: Un tempo ero così giovane, se l’artista si ritrova poi a parlare di se stesso, allora sta perpetrando anche una sorta di analisi del suo trascorso attraverso la dichiarazione di un autoritratto concettuale che anela alle zone recondite della memoria. Il riferimento letterario al testo di James Joyce: Dedalus o Ritratto dell’artista da giovane, non è casuale, si tratta soltanto di ricomporre i frammenti di un mondo poetico che si riallaccia alla scrittura per definire l’universo delle immagini. Eraldo Mauro parla con la sua voce attraverso la molteplice voce dei poeti, e usa il linguaggio della poesia come particelle sparse nell’atmosfera che ricadono a pioggia dentro alla molteplicità dell’opera.
Le Effemeridi di Eraldo sono pervase dalla poetica del silenzio e dalla meditazione introspettiva e rivelano, nel pulviscolo delle citazioni, un composito universo interiore che assimila in modo confuso, molteplici stimoli esterni per poi rimandarli nell’opera ordinati e corretti.
La qualità concettuale di questo processo dipende spesso dal fatto che il suo creatore è spinto da forze e da pulsioni che, il più delle volte, lui stesso ignora. Marie Bonaparte nei suoi scritti sulla psicanalisi afferma: “Meno l’autore indovina i temi nascosti nella sua opera, più è facile che siano veramente creativi”. Il carattere inconscio di questo processo è soprattutto medianico, lo stesso Marchel Duchamp lo conferma in una sua conferenza tenuta nell’aprile del 1957: “Secondo ogni apparenza, l’artista si comporta come un essere medianico che, dal labirinto oltre il tempo e lo spazio, cerca la sua via verso un luogo aperto. Se concediamo all’artista gli attributi di un medium, sul piano estetico dobbiamo negargli la coscienza di quello che fa o del perché lo fa”.
Il carattere ineffabile dell’arte è proprio il suo modo di essere; per verificare se esiste una confluenza tra l’artista e il suo linguaggio bisogna ritornare alla parola ‘emozione’, solo quando l’artefice riesce ad emozionare i suoi voyeur è sicuro di aver raggiunto lo scopo, di aver centrato l’obiettivo, e le opere che presentiamo in questa mostra sono certo che rispondono a queste sensazioni, anche nella misura in cui l’osservatore riesce a mettersi in sintonia con esse, e a ricreare quel clima di serenità intellettuale necessario a decifrarle.
Il tempo e lo spazio nell’arte contemporanea.
Stefano Cecchetto
Il tempo è un’illusione percepita.
Il senso che noi riusciamo a percepire del tempo è un aspetto basilare della condizione umana; ma il tempo, inteso come trascorso del nostro quotidiano, rivela problematiche più soggettive e profonde di quelle che riusciamo a concepire; lo spazio e la materia si fondono e si confondono nei significati reconditi di parole quali: passato, presente e futuro, ma una cosa è certa: il tempo e la memoria determinano la nostra identità.
Il tempo è anche il segnale che rivela l’essenza delle cose, e la patina del tempo, stesa come un elemento di bellezza, è lo scandaglio che rivela il legame più sicuro tra la natura e l’arte.
Lo scenario di un paesaggio concepito attraverso le effemeridi, questa tavola numerica che scandisce le coordinate e gli altri elementi variabili nel tempo e negli astri, per istanti regolarmente intervallati, ritrova nell’espressione artistica, la visione istantanea di una poetica dichiarata.
La confluenza di questi istanti, la loro consonante armonia, determina il tempo sospeso tra il pensiero e l’azione, che nel caso specifico si materializza nella creatività dell’artista.
In questa mostra un fotografo tedesco e due artisti italiani si confrontano sul tema del tempo e dello spazio in relazione all’espressione artistica nel panorama dell’arte contemporanea; in un confronto/incontro con l’infinito e le sue varianti, per la ricerca e la scoperta, di nuovi paesaggi metafisici.
Se l’immagine di un paesaggio in movimento viene fermata dalla fotografia, che cosa resta della nostra concezione del tempo? Stiamo parlando di un passato che diventa presente o di un futuro che regredisce? Sant’Agostino descrive bene il suo tentativo di definire il tempo. Cos’è dunque il tempo? Chiede il teologo nelle sue Confessioni: “Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. Come possono esistere questi due tipi di tempo – passato e futuro – quando il passato non è più, e il futuro non è ancora?”
Lo spazio sospeso di questa domanda è forse riscontrabile nella materia dell’arte che trova risposta nella fissità dell’immagine: Günter Derleth, nella sua straordinaria ricognizione fotografica di Ruta de la Plata, la grande strada spagnola che in tempi preromanici è stata l’itinerario utilizzato dalle migrazioni stagionali tra sud e nord dell’occidente peninsulare, riesce a fissare con la determinazione di un bianco e nero spettacolare, le immagini di un paesaggio della memoria. Ogni suo scatto diventa la dichiarazione apparente della sua maniera di osservare il presente attraverso la visione arcaica di un passato ancora sostenibile.
Nel II secolo a.C. iniziò a costruirsi un’antica calzada romana, con il proposito di far comunicare le città di Mérida e Astorga, Ruta de la Plata diventa così una delle vie di comunicazione più importanti di tutta la Penisola Iberica. Ancora oggi ci sono alcune costruzioni realizzate dai romani, come ponti, fortezze, pietre miliari, massi di granito che indicano le miglia, e piccole pensioni dove i viaggiatori trovavano riposo. Questo paesaggio, saturo di presenze e di rimembranze, è lo spunto che ha spinto il fotografo tedesco Günter Derleth a sviluppare un percorso parallelo che incrocia il passo devoto dei pellegrini diretti a Santiago de Compostela. Il silenzio metafisico che attraversa le sue fotografie ha il respiro di una contemplazione melanconica: lo spirito del tempo resta sospeso nella fissità dell’immagine, magari al limite dello straordinario, dentro ai labirinti intricati dell’enigma, quella strada potrebbe indicare una via d’uscita dal senso arcano della vita. I segni di una rinascita sono percepibili nel contrasto delle sfumature, che nell’ingrandimento acquistano una visibilità amplificata; ed è proprio in questo rendersi visibile che l’artista diventa concreto, è nella sua spettacolarità che l’immagine riesce a trasformare la vita in evento, mitico o drammatico che sia. La trasposizione fotografica che Günter Derleth riesce a rendere con il suo lavoro è affascinante; la congiunzione visiva tra il tempo e lo spazio che riusciamo a percepire nelle sue opere non è soltanto quella che appare, ma è l’indizio di un passato recondito che l’immagine stessa fa trasparire, come un’evocazione lontana, come una confidenza segreta che finalmente viene rivelata.
You are here, Voi siete qui! Sembra quasi scandire una certezza, questa frase che ritorna più volte, scritta a matita, nei disegni di Emilio Leofreddi, è una ripetuta affermazione per determinare il luogo degli accadimenti; anche se avete il presentimento di essere altrove, state certi che voi siete qui, siete nel posto dove le cose accadono, perché è sicuro che le cose accadono. Uno dei comandamenti di Nietzsche è proprio questo: “Volere tutto ciò che è già accaduto”. E che altro fa Leofreddi se non mandare dei segnali di avviso ai naviganti: tutto quello che è già accaduto potrebbe accadere di nuovo, da un’altra parte, in tempi e modi differenti. La frazione dell’attimo, quell’istante che appartiene al non tempo, e che a volte riusciamo a cogliere prima dell’accaduto, rientra nei tempi sospesi della percezione: il passato e il presente sono la stessa identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono una struttura immobile e di significato eternamente uguale.
Nel fascicolo di Valori Plastici dell’aprile-maggio 1919, Giorgio de Chirico scriveva: “Ogni cosa ha due aspetti: uno corrente, quello che riusciamo a vedere quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro, lo spettrale o metafisico, che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica, così come certi corpi occultati da materia impenetrabile ai raggi solari non possono apparire che sotto la potenza di luci artificiali quali sarebbero i raggi X.” Una dichiarazione questa che si addice all’opera di Emilio Leofreddi, misteriosa per certi aspetti e rivelata per altri: le immagini emblematiche che l’artista esplora attraverso la sua poetica solare, sono dichiarazioni circostanziate di un’appartenenza al mondo reale visto sotto uno sguardo utopico che disorienta. Lo smarrimento che traspare dalle sue carte, una sorta di mappe per orientare il pensiero, altro non è che la proiezione di un labirinto interiore che trova la sua via d’uscita soltanto tra i segnali replicati di un immaginario estetico. I poli d’attrazione, ripetutamente evocati a matita, servono a mantenere la rotta, a dirigere il mondo verso la strada maestra che riporta tutto a casa: Mettere al mondo il mondo, invocava Alighiero Boetti in una sua opera degli anni settanta che rimane viva ed attuale come un codice di lettura per l’immortalità. Emilio Leofreddi cerca nel suo lavoro l’identità di un alter ego: dalla molteplicità dell’invisibile compaiono le indicazioni per ritrovare, e ritrovarsi, dentro all’abbraccio cosmico con l’universo intero: le suggestioni culturali che provengono dalla disciplina Zen; i disegni realizzati con combinazioni di linee dentro alle forme strutturali del collage, la babele di lingue e segni che l’artista utilizza hanno lo scopo recondito di forgiare una lingua nuova comprensibile a tutti.
Hic sunt leones, se la locuzione determina anche una locazione, a che serve cercare? Come un cartografo dell’era preindustriale, Emilio adorna le sue tende indiane con disegni ornamentali che rimandano alle zone inesplorate dell’inconscio: qui sono i leoni, dentro ai luoghi immaginari e irraggiungibili della nostra coscienza interiore, qui possiamo trovare le risposte alle numerose domande che ci poniamo continuamente. La terra abitata dall’uomo è un organismo strutturato sulle armonie parallele: i poli opposti e contrastanti dell’Oriente e dell’Occidente ritrovano, dentro alle tende di Leofreddi, la fascinazione di una temperatura cromatica che scalda il cuore del pianeta; ma se questa armonia viene minacciata – ovunque o da chiunque – da guerre o da malefatte politiche, anche l’intera umanità viene minacciata, e allora hic sun leones diventa la situazione o la condizione per cui è necessario prestare particolare attenzione a quel determinato gruppo di persone che ne mettono a rischio la salvaguardia. All’artista quindi è affidato il ruolo di una difesa imprescindibile da tutto; alla leggerezza del sogno, possiamo consegnare la mappa per l’imperscrutabile percorso di un viaggio onirico che raggiunga tutti i poli dell’infinito emisfero terrestre.
L’Alchimia, designata come Grande Arte (Ars Magna), Arte sacra e divina, Arte reale, Arte filosofale o Arte di Ermete, è sempre stata considerata dai suoi adepti che si autodefinivano Artisti, come l’espressione pragmatica dell’attività artistica. L’Alchimista era denominato anche artista, poeta o filosofo. Non a caso il frutto del magistero era chiamato, appunto, pietra filosofale.
La nozione del colore è di grande importanza nel sistema dell’alchimista - il colore è il riflesso dell’essenza - e la trasformazione di un metallo in un altro si riduce il più delle volte alla ricerca di una tintura che possa cambiare il colore originario del metallo vile nel giallo colore dell’oro.
Per attuare questa trasformazione Eraldo Mauro mette in atto un processo creativo basato sostanzialmente sulla materia e sul colore: la sperimentazione con i diversi pigmenti, con le resine e con l’applicazione dei differenti materiali organici sui più diversi supporti, pone l’artista alla stregua di un filosofo alchimista che lavora su due livelli di pensiero: mistico-iniziatico e terapeutico-sperimentale, spesso comunicanti tra di loro, in una formula che racchiude la filosofia della vita e la visione liberatrice del mondo.
Eraldo Mauro dichiara nel titolo di una sua opera recente: Un tempo ero così giovane, se l’artista si ritrova poi a parlare di se stesso, allora sta perpetrando anche una sorta di analisi del suo trascorso attraverso la dichiarazione di un autoritratto concettuale che anela alle zone recondite della memoria. Il riferimento letterario al testo di James Joyce: Dedalus o Ritratto dell’artista da giovane, non è casuale, si tratta soltanto di ricomporre i frammenti di un mondo poetico che si riallaccia alla scrittura per definire l’universo delle immagini. Eraldo Mauro parla con la sua voce attraverso la molteplice voce dei poeti, e usa il linguaggio della poesia come particelle sparse nell’atmosfera che ricadono a pioggia dentro alla molteplicità dell’opera.
Le Effemeridi di Eraldo sono pervase dalla poetica del silenzio e dalla meditazione introspettiva e rivelano, nel pulviscolo delle citazioni, un composito universo interiore che assimila in modo confuso, molteplici stimoli esterni per poi rimandarli nell’opera ordinati e corretti.
La qualità concettuale di questo processo dipende spesso dal fatto che il suo creatore è spinto da forze e da pulsioni che, il più delle volte, lui stesso ignora. Marie Bonaparte nei suoi scritti sulla psicanalisi afferma: “Meno l’autore indovina i temi nascosti nella sua opera, più è facile che siano veramente creativi”. Il carattere inconscio di questo processo è soprattutto medianico, lo stesso Marchel Duchamp lo conferma in una sua conferenza tenuta nell’aprile del 1957: “Secondo ogni apparenza, l’artista si comporta come un essere medianico che, dal labirinto oltre il tempo e lo spazio, cerca la sua via verso un luogo aperto. Se concediamo all’artista gli attributi di un medium, sul piano estetico dobbiamo negargli la coscienza di quello che fa o del perché lo fa”.
Il carattere ineffabile dell’arte è proprio il suo modo di essere; per verificare se esiste una confluenza tra l’artista e il suo linguaggio bisogna ritornare alla parola ‘emozione’, solo quando l’artefice riesce ad emozionare i suoi voyeur è sicuro di aver raggiunto lo scopo, di aver centrato l’obiettivo, e le opere che presentiamo in questa mostra sono certo che rispondono a queste sensazioni, anche nella misura in cui l’osservatore riesce a mettersi in sintonia con esse, e a ricreare quel clima di serenità intellettuale necessario a decifrarle.
17
aprile 2010
Derleth | Leofreddi | Mauro – Effemeridi
Dal 17 aprile al 30 maggio 2010
arte contemporanea
Location
MUSEO DEL PAESAGGIO
Torre Di Mosto, Località Boccafossa, (Venezia)
Torre Di Mosto, Località Boccafossa, (Venezia)
Orario di apertura
Venerdì-Sabato 16.00/19.00
Domenica 10.00/12.00 – 16.00/19.00
Vernissage
17 Aprile 2010, ore 17.30
Autore