Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Di Bernardo Rietti Toppeta – Ludopatia
Una riflessione sulla patologia, convulsiva e ossessiva, del gioco d’azzardo
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Nei temi generali del nostro mondo di finzioni, certamente la ludopatia ha trovato facilmente casa: in fondo essa è una sorta di illusione costante dell’eccezionale, del destino salvifico che potrebbe accadere, che ci meriteremmo e che guarderà proprio noi e nessun altro; abbiamo bisogno dello straordinario, della fortuna, della sorte benigna per riscattarci dal grigiore dell'ordinario, dalla fatica, dalle incomprensioni che ci hanno condannato a non essere il sogno che avremmo voluto.
Il ludopatico è la prova vivente del fallimento del sogno e allo stesso tempo la testimonianza dell’irriducibile necessità di continuare ad avere un sogno: si desidera una vita in cui non dovrebbe essere necessaria la fatica della lenta costruzione del quotidiano, ma dove tutto accada per un fato salvifico. L’euforia del gioco è l’euforia della sfida: perché dopamina e adrenalina ci fanno sentire vivi, coraggiosi, invincibili e non riusciamo ad accettare che non sia cosi o che le cose non vadano secondo il nostro desiderio o la nostra necessità di gratificazione.
Ed ecco cosa ci raccontano queste installazioni, questi video, queste immagini; la prima “narrazione” viene generata e proposta da uno stimolo sonoro: nell’installazione dal titolo Craving (bramosia) il suono sintetico di una macchinetta mangiasoldi è l’evocazione sonora della ricchezza possibile, della fortuna che verrà. A volte si interrompe, ma riprende incessante e si mischia con due note ripetute (un Mib e un Sib) che simulano, evocano un battito cardiaco. Vivere è sperare nella fortuna, vivere è la tensione alla possibile felicità, vivere e l’attesa del possibile e se qualcosa si interrompe, se la fortuna non è stata quel che speravamo ecco che poco dopo, dopo fallimenti e assenze, tutto riprende uguale, l’eccitazione e l’aspettativa ripartono, in un ciclo infinito dove conta solo illudersi. Questa condizione non è esprimibile o simboleggiabile in un oggetto, ma è immateriale, interiore, per questo è espressa con il suono.
Ma nel secondo passaggio incomincia lo svelamento dell’illusione: il video Fruit Machine riprende il tradizionale movimento rotatorio della più famosa iconografia della macchinetta mangiasoldi: la rotazione genera le combinazioni e si attende quella vincente dei frutti allineati. Si gira incessantemente la ruota nell’attesa spasmodica della cascata di monete che daranno un significato a tutte le frustrazioni, le umiliazioni di una vita, alle ansie, aspettando che il destino ci renda giustizia della fiducia che abbiamo nei sui confronti.
Ma nel video le cose sono sottilmente diverse: i cesti di frutta non sono disegni, sono “reali” e sono reali le persone che li sostengono: dietro il simbolo ci sarebbero persone ma spesso nella combinazione appaiono le persone con le mani vuote, che non sorreggono nulla o che sembrano tenere ancora un qualcosa che è andato via che è assente. Il gioco non si conclude, le combinazioni segnalano la perdita dell’oggetto ed è la “perdita”, una delle combinazioni possibili. La musica incalza, cresce, ipnotizza: si è in attesa dell’evento ma appare ciclicamente l’immagine di un fallimento. Il crescendo monotono evoca il video gioco e contribuisce all’ipnosi capace di descrivere lo stato semivegetativo del giocatore.
Del resto le slot machine sono tarate in modo tale che possano avvenire delle vincite cospicue soltanto dopo un buon incasso e con probabilità estremamente rare, per cui sostanzialmente le slot non sono nemmeno un gioco d’azzardo ma un reale “gioco a perdere”: perdere soldi, tempo, coscienza, perdere se stessi in termini di denaro, attenzione, relazioni; si perde consapevolezza, si attende meccanicamente l’evento mentre passano davanti agli occhi le combinazioni di mani vuote.
Che esista qualcuno che riesca a mantenere una qualche responsabilità o consapevolezza di se in questo tipo di giochi è pia illusione. Il decalogo “etico” del giocatore responsabile ha la stessa efficacia del grillo parlante per Pinocchio o dell’acqua fresca per una colica renale, perché l'azzardo che è la natura stessa della slot machine, è l'esatto contrario della consapevolezza che il “decalogo” pretende dal giocatore.
Il problema di fondo sta esattamente nel termine “gioco”: se l'azione che io compio o che vengo indotto a compiere prevede un premio e se questo premio non dipende da un saper fare, ma da una eventualità, tale azione non è propriamente “gioco” proprio perché determinazione, intenzione e premialità, tolgono tale azione dalla indeterminatezza del termine che Wittgenstein scelse come esempio stesso dell'indeterminazione semantica di certi termini e di certe azioni umane.
L'azzardo non è dunque propriamente un gioco: nel bambino esso è gratuità e fa diventare vero ciò che si immagina; il suo giocare non ha scopo determinabile coerentemente ed il suo senso è tutto nella sua azione. il gioco dello sport è fatica, implica una fisicità e una responsabilità una competenza. Chi gioca davvero non ha scopo se non il gioco stesso. Il professionista dello sport non gioca realmente, ma lavora; infatti si prepara duramente per avere successo in ciò che fa. Non si affida all’eventuale, ma lotta contro di esso per strappare un risultato.
Chi pratica l’azzardo non sta “giocando” affatto perché azzardo non crea, non determina, non sceglie ma “causa” qualcosa, provoca conseguenze a chi lo pratica e a chi vive intorno a lui: chi pratica l’azzardo sta sottomettendo se stesso al caso, consente che il caso giochi con lui e con la sua vita; non gioca ma “è giocato” deresponsabilizzandosi, compiendo un atto di resa della coscienza e della consapevolezza, di fatto, disumanizzandosi.
La “resa” della propria dignità umana, il piegarsi all’imponderabile e ai suoi capricci è qualcosa che definisce “in negativo” la umanità: è appunto, la resa della decisione, della coscienza di se, della scelta. Certo, se si arriva a questo vuol dire che nella struttura psicologica ed esistenziale della persona c’è stato un cedimento, una frattura tra se stessi e il reale e dentro se stessi, tra ciò che si credeva di essere è l’impossibilità di esserlo e di ritrovarsi. Questo accade per molti motivi ed è impossibile e ingiusto giudicare chi dentro di sé avuto questo crollo di fiducia verso se stesso: è una vera malattia, è una patologia da curare. Ma certamente è perfettamente e negativamente giudicabile chi sfrutta, chi si trincera dietro uno stupido decalogo lava coscienze, chi ne trae vantaggio, chi chiamandolo “gioco” favorisce e invoglia alla patologia. E ciò accade non solo mistificando termini e azioni ma anche educando all’azzardo e rendendo disponibili le cause della rovina del giocatore. Ma anche ciascuno di noi non può sottrarsi alle sue responsabilità: siamo anche noi concause di questo, al momento in cui disconfermiamo, umiliamo, sopprimiamo e disprezziamo la dignità dell’Altro perché tutte queste cose pongono le condizioni per l’annichilimento dell’umanità dell’altro.
ll risultato di tutto questo ci viene mostrato sottilmente dall‘ultima installazione In – Cubo, che vuole essere una plastica rappresentazione della trasformazione finale provocata dalla patologia dell’azzardo. Il “box”, il cubo di cartone, rappresenta sulle sue facce, la simbologia del gioco delle slot; gli scatoloni sono i giocatori che dentro sono vuoti, e di loro la resta un involucro, annullati nel proprio esasperante desiderio di trovare “sorte” benigna: è diventata involucro in attesa di ricevere un “senso” da un destino che non c’è. La persona è diventata il “dado” da gioco e ciascuno si ritrova ammonticchiato l’uno sull’altro in una serie di cose svuotate, senza senso e coscienza, in una serie di combinazioni casuali di segni senza fortuna e senza speranza di rimedio o senso: si ritrova cioè oggetto del nonsenso, immagine dell'inesistenza del destino stesso.
Il “destino” è una proiezione umana che usiamo per illuderci che la nostra storia, la narrazione della nostra vita abbia un significato oltre noi: serve a giustificare gli errori soprattutto, serve a compensare il senso di immanenza, il peso della “responsabilità” del quotidiano. Ma in realtà, il “destino” non c'è: ci sono solo le scelte da fare, la narrazione di noi da costruire.
Sostituiamo le scelte con le combinazioni casuali, facendo comandare la nostra vita da loro, ci procuriamo svuotamento, non senso, nullificazione, afflizione, cadiamo nel vittimismo, ci impietosiamo di noi stessi, diamo le colpe ad altro. E così, con l'azzardo le vite si trasformano in serialità di combinazioni coperte da colori sgargianti, e parvenze innocenti. Mani vuote, sogni travolti, coscienze svuotate, senza logica, senza più parvenza umana, gettati a caso senza più nemmeno coscienza del caso.
Mi colpiva molto il disperato nichilismo di questa installazione e il suo essere formalmente sgargiante, vivace che è poi lo stesso nichilismo che sta dietro le infinite luci con cui le sale giochi accolgono le proprie vittime: costruire preparare l’illusione della felicità, attirare nella pura emozione per poi svuotare dal di dentro le coscienze, e restituire involucri vuoti
“ … la vita diventa un incubo. Avvolto dalla disperazione, il giocatore è angosciato per la sua situazione economica fatta di debiti e prestiti. E’ sempre alla ricerca di un colpo grosso per risolvere i suoi problemi, la grossa vincita non arriva mai, l’illusione diventa l’unica speranza. Nonostante la consapevolezza che non sia più possibile recuperare il denaro perso, continua a giocare. “In-cubo” diventa contenitore ed espressione del gioco patologico, vera e propria dipendenza, problema di natura sociale.”
Avete compreso che questa è una mostra “per pensare” e per “prendere posizione” e che richiede un approccio profondo. E’ esattamente quello che penso una mostra debba fare: generare idee, riflessioni e considerazioni intorno ad alcune questioni sensibili del nostro tempo; frequentare l’arte non è un gioco mondano, o meglio, è un gioco molto serio e soprattutto non è un azzardo.
Dal mio punto di vista l’arte non è affatto un gioco ma è la disposizione di un “campo” di gioco. Mi spiego meglio: essa, se è profonda, innesca il gioco dell’intelligenza, il gioco della decifrazione, della lettura e della comprensione ed è questo che personalmente considero il vero senso del giocare perché capire e comprendere non sono “obblighi”, l’arte non è un gioco a premi, non è strumento di avanzamento sociale ma è apertura di senso e immaginazione.
L’arte è il contrario dell’azzardo: costruisce la coscienza, propone scelte, motiva a capire se stessi e il mondo e credo che questa mostra ci offra ampiamente questa opportunità. Pregherei l’eventuale lettore di non perderla mai.
In breve
Di Bernardo Rietti Toppeta
Ludopatia a cura di Antonio Zimarino
vernissage sabato 1 dicembre 2018 ore 17.30
performance Il giocatore responsabile
Simone Borghese - sax tenore e Ida D’Andrea - voce narrante
Aurum, Sala Flaiano - Largo Gardone Riviera, Pescara
dal 1 al 8 dicembre 2018 - orario17.00 - 20.00
Il ludopatico è la prova vivente del fallimento del sogno e allo stesso tempo la testimonianza dell’irriducibile necessità di continuare ad avere un sogno: si desidera una vita in cui non dovrebbe essere necessaria la fatica della lenta costruzione del quotidiano, ma dove tutto accada per un fato salvifico. L’euforia del gioco è l’euforia della sfida: perché dopamina e adrenalina ci fanno sentire vivi, coraggiosi, invincibili e non riusciamo ad accettare che non sia cosi o che le cose non vadano secondo il nostro desiderio o la nostra necessità di gratificazione.
Ed ecco cosa ci raccontano queste installazioni, questi video, queste immagini; la prima “narrazione” viene generata e proposta da uno stimolo sonoro: nell’installazione dal titolo Craving (bramosia) il suono sintetico di una macchinetta mangiasoldi è l’evocazione sonora della ricchezza possibile, della fortuna che verrà. A volte si interrompe, ma riprende incessante e si mischia con due note ripetute (un Mib e un Sib) che simulano, evocano un battito cardiaco. Vivere è sperare nella fortuna, vivere è la tensione alla possibile felicità, vivere e l’attesa del possibile e se qualcosa si interrompe, se la fortuna non è stata quel che speravamo ecco che poco dopo, dopo fallimenti e assenze, tutto riprende uguale, l’eccitazione e l’aspettativa ripartono, in un ciclo infinito dove conta solo illudersi. Questa condizione non è esprimibile o simboleggiabile in un oggetto, ma è immateriale, interiore, per questo è espressa con il suono.
Ma nel secondo passaggio incomincia lo svelamento dell’illusione: il video Fruit Machine riprende il tradizionale movimento rotatorio della più famosa iconografia della macchinetta mangiasoldi: la rotazione genera le combinazioni e si attende quella vincente dei frutti allineati. Si gira incessantemente la ruota nell’attesa spasmodica della cascata di monete che daranno un significato a tutte le frustrazioni, le umiliazioni di una vita, alle ansie, aspettando che il destino ci renda giustizia della fiducia che abbiamo nei sui confronti.
Ma nel video le cose sono sottilmente diverse: i cesti di frutta non sono disegni, sono “reali” e sono reali le persone che li sostengono: dietro il simbolo ci sarebbero persone ma spesso nella combinazione appaiono le persone con le mani vuote, che non sorreggono nulla o che sembrano tenere ancora un qualcosa che è andato via che è assente. Il gioco non si conclude, le combinazioni segnalano la perdita dell’oggetto ed è la “perdita”, una delle combinazioni possibili. La musica incalza, cresce, ipnotizza: si è in attesa dell’evento ma appare ciclicamente l’immagine di un fallimento. Il crescendo monotono evoca il video gioco e contribuisce all’ipnosi capace di descrivere lo stato semivegetativo del giocatore.
Del resto le slot machine sono tarate in modo tale che possano avvenire delle vincite cospicue soltanto dopo un buon incasso e con probabilità estremamente rare, per cui sostanzialmente le slot non sono nemmeno un gioco d’azzardo ma un reale “gioco a perdere”: perdere soldi, tempo, coscienza, perdere se stessi in termini di denaro, attenzione, relazioni; si perde consapevolezza, si attende meccanicamente l’evento mentre passano davanti agli occhi le combinazioni di mani vuote.
Che esista qualcuno che riesca a mantenere una qualche responsabilità o consapevolezza di se in questo tipo di giochi è pia illusione. Il decalogo “etico” del giocatore responsabile ha la stessa efficacia del grillo parlante per Pinocchio o dell’acqua fresca per una colica renale, perché l'azzardo che è la natura stessa della slot machine, è l'esatto contrario della consapevolezza che il “decalogo” pretende dal giocatore.
Il problema di fondo sta esattamente nel termine “gioco”: se l'azione che io compio o che vengo indotto a compiere prevede un premio e se questo premio non dipende da un saper fare, ma da una eventualità, tale azione non è propriamente “gioco” proprio perché determinazione, intenzione e premialità, tolgono tale azione dalla indeterminatezza del termine che Wittgenstein scelse come esempio stesso dell'indeterminazione semantica di certi termini e di certe azioni umane.
L'azzardo non è dunque propriamente un gioco: nel bambino esso è gratuità e fa diventare vero ciò che si immagina; il suo giocare non ha scopo determinabile coerentemente ed il suo senso è tutto nella sua azione. il gioco dello sport è fatica, implica una fisicità e una responsabilità una competenza. Chi gioca davvero non ha scopo se non il gioco stesso. Il professionista dello sport non gioca realmente, ma lavora; infatti si prepara duramente per avere successo in ciò che fa. Non si affida all’eventuale, ma lotta contro di esso per strappare un risultato.
Chi pratica l’azzardo non sta “giocando” affatto perché azzardo non crea, non determina, non sceglie ma “causa” qualcosa, provoca conseguenze a chi lo pratica e a chi vive intorno a lui: chi pratica l’azzardo sta sottomettendo se stesso al caso, consente che il caso giochi con lui e con la sua vita; non gioca ma “è giocato” deresponsabilizzandosi, compiendo un atto di resa della coscienza e della consapevolezza, di fatto, disumanizzandosi.
La “resa” della propria dignità umana, il piegarsi all’imponderabile e ai suoi capricci è qualcosa che definisce “in negativo” la umanità: è appunto, la resa della decisione, della coscienza di se, della scelta. Certo, se si arriva a questo vuol dire che nella struttura psicologica ed esistenziale della persona c’è stato un cedimento, una frattura tra se stessi e il reale e dentro se stessi, tra ciò che si credeva di essere è l’impossibilità di esserlo e di ritrovarsi. Questo accade per molti motivi ed è impossibile e ingiusto giudicare chi dentro di sé avuto questo crollo di fiducia verso se stesso: è una vera malattia, è una patologia da curare. Ma certamente è perfettamente e negativamente giudicabile chi sfrutta, chi si trincera dietro uno stupido decalogo lava coscienze, chi ne trae vantaggio, chi chiamandolo “gioco” favorisce e invoglia alla patologia. E ciò accade non solo mistificando termini e azioni ma anche educando all’azzardo e rendendo disponibili le cause della rovina del giocatore. Ma anche ciascuno di noi non può sottrarsi alle sue responsabilità: siamo anche noi concause di questo, al momento in cui disconfermiamo, umiliamo, sopprimiamo e disprezziamo la dignità dell’Altro perché tutte queste cose pongono le condizioni per l’annichilimento dell’umanità dell’altro.
ll risultato di tutto questo ci viene mostrato sottilmente dall‘ultima installazione In – Cubo, che vuole essere una plastica rappresentazione della trasformazione finale provocata dalla patologia dell’azzardo. Il “box”, il cubo di cartone, rappresenta sulle sue facce, la simbologia del gioco delle slot; gli scatoloni sono i giocatori che dentro sono vuoti, e di loro la resta un involucro, annullati nel proprio esasperante desiderio di trovare “sorte” benigna: è diventata involucro in attesa di ricevere un “senso” da un destino che non c’è. La persona è diventata il “dado” da gioco e ciascuno si ritrova ammonticchiato l’uno sull’altro in una serie di cose svuotate, senza senso e coscienza, in una serie di combinazioni casuali di segni senza fortuna e senza speranza di rimedio o senso: si ritrova cioè oggetto del nonsenso, immagine dell'inesistenza del destino stesso.
Il “destino” è una proiezione umana che usiamo per illuderci che la nostra storia, la narrazione della nostra vita abbia un significato oltre noi: serve a giustificare gli errori soprattutto, serve a compensare il senso di immanenza, il peso della “responsabilità” del quotidiano. Ma in realtà, il “destino” non c'è: ci sono solo le scelte da fare, la narrazione di noi da costruire.
Sostituiamo le scelte con le combinazioni casuali, facendo comandare la nostra vita da loro, ci procuriamo svuotamento, non senso, nullificazione, afflizione, cadiamo nel vittimismo, ci impietosiamo di noi stessi, diamo le colpe ad altro. E così, con l'azzardo le vite si trasformano in serialità di combinazioni coperte da colori sgargianti, e parvenze innocenti. Mani vuote, sogni travolti, coscienze svuotate, senza logica, senza più parvenza umana, gettati a caso senza più nemmeno coscienza del caso.
Mi colpiva molto il disperato nichilismo di questa installazione e il suo essere formalmente sgargiante, vivace che è poi lo stesso nichilismo che sta dietro le infinite luci con cui le sale giochi accolgono le proprie vittime: costruire preparare l’illusione della felicità, attirare nella pura emozione per poi svuotare dal di dentro le coscienze, e restituire involucri vuoti
“ … la vita diventa un incubo. Avvolto dalla disperazione, il giocatore è angosciato per la sua situazione economica fatta di debiti e prestiti. E’ sempre alla ricerca di un colpo grosso per risolvere i suoi problemi, la grossa vincita non arriva mai, l’illusione diventa l’unica speranza. Nonostante la consapevolezza che non sia più possibile recuperare il denaro perso, continua a giocare. “In-cubo” diventa contenitore ed espressione del gioco patologico, vera e propria dipendenza, problema di natura sociale.”
Avete compreso che questa è una mostra “per pensare” e per “prendere posizione” e che richiede un approccio profondo. E’ esattamente quello che penso una mostra debba fare: generare idee, riflessioni e considerazioni intorno ad alcune questioni sensibili del nostro tempo; frequentare l’arte non è un gioco mondano, o meglio, è un gioco molto serio e soprattutto non è un azzardo.
Dal mio punto di vista l’arte non è affatto un gioco ma è la disposizione di un “campo” di gioco. Mi spiego meglio: essa, se è profonda, innesca il gioco dell’intelligenza, il gioco della decifrazione, della lettura e della comprensione ed è questo che personalmente considero il vero senso del giocare perché capire e comprendere non sono “obblighi”, l’arte non è un gioco a premi, non è strumento di avanzamento sociale ma è apertura di senso e immaginazione.
L’arte è il contrario dell’azzardo: costruisce la coscienza, propone scelte, motiva a capire se stessi e il mondo e credo che questa mostra ci offra ampiamente questa opportunità. Pregherei l’eventuale lettore di non perderla mai.
In breve
Di Bernardo Rietti Toppeta
Ludopatia a cura di Antonio Zimarino
vernissage sabato 1 dicembre 2018 ore 17.30
performance Il giocatore responsabile
Simone Borghese - sax tenore e Ida D’Andrea - voce narrante
Aurum, Sala Flaiano - Largo Gardone Riviera, Pescara
dal 1 al 8 dicembre 2018 - orario17.00 - 20.00
01
dicembre 2018
Di Bernardo Rietti Toppeta – Ludopatia
Dal primo all'otto dicembre 2018
arte contemporanea
Location
AURUM
Pescara, Via Francesco Ferdinando D'avalos, (Pescara)
Pescara, Via Francesco Ferdinando D'avalos, (Pescara)
Orario di apertura
17:00 – 20:00
Vernissage
1 Dicembre 2018, ore 17.30
Autore
Curatore