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Diego Canato – The Big Empty
personale
Comunicato stampa
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IL CODICE DELL’ANIMA
Conversazione con Diego Canato.
di Gabriella Serusi
Gabriella Serusi : quando hai avuto la percezione di essere un artista?
Diego Canato : ti direi dal 16 maggio 2005, da quando cioè me lo hanno scritto sulla Carta d'Identità o potrei dirti da quando faccio la fame. Ma in verità non so, io volevo fare l'astronauta!
G.S. : vivi e lavori a Torino, città nella quale sei nato e che oggi gode di una rinnovata attenzione da parte di artisti, collezionisti e istituzioni pubbliche. Non dimentichiamo però che Torino ha alle spalle una storia artistica importante e per certi aspetti ingombrante. Pensa all’Arte Povera e al modo in cui essa ha influenzato nel bene o nel male la produzione di tanti giovani artisti. Tu stesso conosci personalmente alcuni dei maestri di quell’enturage. Che rapporto hai con loro? Ti hanno in qualche modo condizionato? Come giudichi questa ventata di aria fresca che ha investito soprattutto la tua generazione?
D.C. : non sono nato a Torino ma a Ciriè e fino a 5 anni fa vivevo a San Maurizio Canavese. Sono nuovo di queste parti, non conosco ancora nessuno. Quindi se vuoi parliamo della storia alle spalle delle Valli di Lanzo, li si che c'è della bella arietta fresca!
G.S. : quanto tempo della tua giornata occupa l’arte? Sei riuscito già a farne un mestiere a tempo pieno?
D.C. : le ventiquattro ore sono tutte per lei, sempre a sua disposizione. A volte le occupa tutte, altre si prende solo qualche secondo ed altre ancora addirittura mi lascia in pace, ma questo accade sempre più di rado. Per fortuna non sono sposato, se no sarebbe bigamia. Da un paio d'anni l’arte è diventata un lavoro a tempo pieno ma non una fonte certa di guadagno: per ora è soprattutto gloria. AAA Artista offresi!
G.S. : come molti tuoi coetanei prediligi il linguaggio video, medium agile e particolarmente adatto a raccontare storie piccole o grandi, quotidiane o straordinarie, intime o collettive. Tu però, come mi hai più volte detto, ne fai un uso rudimentale, piegandone regole e schemi in funzione di un progetto spesso più articolato in cui esso diviene elemento fra gli elementi. Ci dici qualcosa di più in proposito?
D.C. : il video è semplicemente la parte audiovisiva della scultura. Mi aiuta ad essere più immediato, a rafforzare o semplificare concetti che voglio esprimere o emozioni che voglio far affiorare in chi osserva. Il modo di usarlo è assolutamente istintivo, per nulla meditato, infantile quasi. Privilegio sempre la spontaneità della ripresa, anche se a discapito della qualità delle immagini: mai una prova, un ripensamento, sempre “buona la prima” e questo di fatto mi sembra dare maggior forza e verità al lavoro finale.
G.S. : restiamo ancora in quest’ambito per puntualizzare meglio modalità e tecniche del tuo fare arte. Da quando conosco il tuo lavoro, hai sempre utilizzato la tecnologia in modo caldo, a volte addirittura sensuale, sfidando i principi di una pratica complessa e analitica con una lunga storia alle spalle. Cosa vuoi suscitare nello spettatore? Di cosa parlano i tuoi lavori?
D.C. : un ricordo, qualcosa di familiare, di conosciuto, di vissuto e che questo generi un’ emozione.
Quindi più che di cosa un lavoro parla, si tratta di cosa tu dici a lui, come non fossi tu ad osservarlo ma lui a scrutarti, indagarti a farti domande e quasi sempre molto personali, intime.
G.S. : dicevamo prima che i video sono solo una delle componenti in gioco nella preparazione di una mostra. Anche in questa personale al Machè, presenti oltre ai video anche sculture minimali e installazioni, secondo un’attitudine per te abituale. È il tuo modo di procedere? ti senti più scultore che videoartista?
D.C. : sono uno scultore e mai mi sentirò o vorrò essere altro.
Non ho mai pensato al mio modus operandi. Procedo e basta; quello che esce è scultura e non riesco a vederla diversamente. Il risultato è decisamente minimale perchè mi piace essere semplice ed essenziale nella forma come nei concetti. La vita è già abbastanza complicata, perchè complicare anche il resto?
G.S. : la mostra al Machè si intitola The Big Empty. Cos’è questo grande vuoto di cui parli?
D.C. : The Big Empty allude al vuoto interiore e al vuoto nella comunicazione, all'incapacità o impossibilità di comunicare, di trasmettere un pensiero, un sentimento non trattenibile.
Si comunica per scorprire qualcosa dell'interlocutore o per far scoprire qualcosa di se stessi. Ma se per qualche motivo questo non fosse possibile? Tra i due individui cosa resterebbe? Un vuoto?
G.S. : il punto, la nota dolente, la piaga in cui mettere il dito è, bien evidemment, la relazione interpersonale: l’impossibilità di stabilire un contatto profondo e corrisposto fra individui, di dare forma a una comunicazione reale e aperta. Un male dei nostri tempi ma anche di una generazione sempre più individualista e fondamentalmente disabituata a confrontarsi con l’aspetto emotivo della vita. Tu invece ti butti a capofitto in questo magma sensoriale? Stai forse cercando di esorcizzare il Grande Male?
D.C. : è' un discorso molto complesso ma per farla breve, se c'è un “male”, grande o piccolo che sia, da qualche parte nel mondo, nella vita, ci sarà anche un “bene”. Io cerco solo di trovarlo.
G.S. : quanto c’è di autobiografico nei tuoi lavori?
D.C. : tutto nel momento che sono io a guardarli; niente, spero, nel momento in cui li guarderai tu.
In questo The Big Empty è un lavoro diverso da quelli che ho in precedenza. Normalmente evito riferimenti evidenti a me e alla mia storia ma, in questo caso, avevo l'esigenza di raccontare qualcosa che mi riguarda, desideravo essere scoperto più che altro.
Così attraverso codici cifrati e forme di comunicazione particolari ho nascosto all'interno del lavoro una storia molto personale che solo la curiosità e un piccolo sforzo d'attenzione potranno svelare.
G.S. : ultimo libro letto?
D.C. : il manuale d'istruzioni della stufa. Fa un freddo in studio!
G.S. : ultimo film che ti ha lasciato senza fiato?
D.C. : che mi abbia lasciato senza fiato nessuno, che mi abbia fatto respirare Kirikù e la strega Karabà,
è un film d'animazione francese, credo tratto da una favola africana.
Conversazione con Diego Canato.
di Gabriella Serusi
Gabriella Serusi : quando hai avuto la percezione di essere un artista?
Diego Canato : ti direi dal 16 maggio 2005, da quando cioè me lo hanno scritto sulla Carta d'Identità o potrei dirti da quando faccio la fame. Ma in verità non so, io volevo fare l'astronauta!
G.S. : vivi e lavori a Torino, città nella quale sei nato e che oggi gode di una rinnovata attenzione da parte di artisti, collezionisti e istituzioni pubbliche. Non dimentichiamo però che Torino ha alle spalle una storia artistica importante e per certi aspetti ingombrante. Pensa all’Arte Povera e al modo in cui essa ha influenzato nel bene o nel male la produzione di tanti giovani artisti. Tu stesso conosci personalmente alcuni dei maestri di quell’enturage. Che rapporto hai con loro? Ti hanno in qualche modo condizionato? Come giudichi questa ventata di aria fresca che ha investito soprattutto la tua generazione?
D.C. : non sono nato a Torino ma a Ciriè e fino a 5 anni fa vivevo a San Maurizio Canavese. Sono nuovo di queste parti, non conosco ancora nessuno. Quindi se vuoi parliamo della storia alle spalle delle Valli di Lanzo, li si che c'è della bella arietta fresca!
G.S. : quanto tempo della tua giornata occupa l’arte? Sei riuscito già a farne un mestiere a tempo pieno?
D.C. : le ventiquattro ore sono tutte per lei, sempre a sua disposizione. A volte le occupa tutte, altre si prende solo qualche secondo ed altre ancora addirittura mi lascia in pace, ma questo accade sempre più di rado. Per fortuna non sono sposato, se no sarebbe bigamia. Da un paio d'anni l’arte è diventata un lavoro a tempo pieno ma non una fonte certa di guadagno: per ora è soprattutto gloria. AAA Artista offresi!
G.S. : come molti tuoi coetanei prediligi il linguaggio video, medium agile e particolarmente adatto a raccontare storie piccole o grandi, quotidiane o straordinarie, intime o collettive. Tu però, come mi hai più volte detto, ne fai un uso rudimentale, piegandone regole e schemi in funzione di un progetto spesso più articolato in cui esso diviene elemento fra gli elementi. Ci dici qualcosa di più in proposito?
D.C. : il video è semplicemente la parte audiovisiva della scultura. Mi aiuta ad essere più immediato, a rafforzare o semplificare concetti che voglio esprimere o emozioni che voglio far affiorare in chi osserva. Il modo di usarlo è assolutamente istintivo, per nulla meditato, infantile quasi. Privilegio sempre la spontaneità della ripresa, anche se a discapito della qualità delle immagini: mai una prova, un ripensamento, sempre “buona la prima” e questo di fatto mi sembra dare maggior forza e verità al lavoro finale.
G.S. : restiamo ancora in quest’ambito per puntualizzare meglio modalità e tecniche del tuo fare arte. Da quando conosco il tuo lavoro, hai sempre utilizzato la tecnologia in modo caldo, a volte addirittura sensuale, sfidando i principi di una pratica complessa e analitica con una lunga storia alle spalle. Cosa vuoi suscitare nello spettatore? Di cosa parlano i tuoi lavori?
D.C. : un ricordo, qualcosa di familiare, di conosciuto, di vissuto e che questo generi un’ emozione.
Quindi più che di cosa un lavoro parla, si tratta di cosa tu dici a lui, come non fossi tu ad osservarlo ma lui a scrutarti, indagarti a farti domande e quasi sempre molto personali, intime.
G.S. : dicevamo prima che i video sono solo una delle componenti in gioco nella preparazione di una mostra. Anche in questa personale al Machè, presenti oltre ai video anche sculture minimali e installazioni, secondo un’attitudine per te abituale. È il tuo modo di procedere? ti senti più scultore che videoartista?
D.C. : sono uno scultore e mai mi sentirò o vorrò essere altro.
Non ho mai pensato al mio modus operandi. Procedo e basta; quello che esce è scultura e non riesco a vederla diversamente. Il risultato è decisamente minimale perchè mi piace essere semplice ed essenziale nella forma come nei concetti. La vita è già abbastanza complicata, perchè complicare anche il resto?
G.S. : la mostra al Machè si intitola The Big Empty. Cos’è questo grande vuoto di cui parli?
D.C. : The Big Empty allude al vuoto interiore e al vuoto nella comunicazione, all'incapacità o impossibilità di comunicare, di trasmettere un pensiero, un sentimento non trattenibile.
Si comunica per scorprire qualcosa dell'interlocutore o per far scoprire qualcosa di se stessi. Ma se per qualche motivo questo non fosse possibile? Tra i due individui cosa resterebbe? Un vuoto?
G.S. : il punto, la nota dolente, la piaga in cui mettere il dito è, bien evidemment, la relazione interpersonale: l’impossibilità di stabilire un contatto profondo e corrisposto fra individui, di dare forma a una comunicazione reale e aperta. Un male dei nostri tempi ma anche di una generazione sempre più individualista e fondamentalmente disabituata a confrontarsi con l’aspetto emotivo della vita. Tu invece ti butti a capofitto in questo magma sensoriale? Stai forse cercando di esorcizzare il Grande Male?
D.C. : è' un discorso molto complesso ma per farla breve, se c'è un “male”, grande o piccolo che sia, da qualche parte nel mondo, nella vita, ci sarà anche un “bene”. Io cerco solo di trovarlo.
G.S. : quanto c’è di autobiografico nei tuoi lavori?
D.C. : tutto nel momento che sono io a guardarli; niente, spero, nel momento in cui li guarderai tu.
In questo The Big Empty è un lavoro diverso da quelli che ho in precedenza. Normalmente evito riferimenti evidenti a me e alla mia storia ma, in questo caso, avevo l'esigenza di raccontare qualcosa che mi riguarda, desideravo essere scoperto più che altro.
Così attraverso codici cifrati e forme di comunicazione particolari ho nascosto all'interno del lavoro una storia molto personale che solo la curiosità e un piccolo sforzo d'attenzione potranno svelare.
G.S. : ultimo libro letto?
D.C. : il manuale d'istruzioni della stufa. Fa un freddo in studio!
G.S. : ultimo film che ti ha lasciato senza fiato?
D.C. : che mi abbia lasciato senza fiato nessuno, che mi abbia fatto respirare Kirikù e la strega Karabà,
è un film d'animazione francese, credo tratto da una favola africana.
08
novembre 2006
Diego Canato – The Big Empty
Dall'otto novembre al 10 dicembre 2006
arte contemporanea
Location
MACHE’
Torino, Via Della Consolata, 9/G, (Torino)
Torino, Via Della Consolata, 9/G, (Torino)
Orario di apertura
lunedì/sabato 21.00-02.00
Vernissage
8 Novembre 2006, ore 21
Autore
Curatore