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Dolores Ricci
Dolores Ricci in mostra a Bologna
Comunicato stampa
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Un manipolo di creature bizzarre e fortemente espressive accoglie il visitatore curioso che si affacci sul mondo di Dolores Ricci. Su semplici carte colorate, usando soprattutto matite e chine (in precedenza acquarelli, tempere, acrilici e olio), l’artista ha dato vita a una generazione di creature polimorfe e trasformiste, tutte orgogliose della loro singolarità eppure tutte intimamente apparentate. Stanco, Chepeau, Edipo, Gentleman, Bella Faccia, Sorry-Dente, Bux, Centaura, Amleto, Pettirosso chiassoso e molte altre sembrano fiorire con immensa facilità, quasi spontanee, da un irresistibile impulso della matita e del colore a organizzarsi in linee che finiscono per prendere forma compiuta pur senza perdere il loro legame con una natura fondamentalmente astratta. Lei, l’autrice, che per trent’anni ha insegnato inglese a scuola, dichiara di aver sempre dipinto e voluto dipingere per piacere e, anzi, vocazione ma di aver dovuto affrontare, come capita spesso, casi di un’esistenza non troppo semplice che l’hanno portata altrove ma non così lontano da non poter più coltivare, privatamente, una passione che per lei era ed è esigenza di vita. Nel frattempo, arricchendo un bagaglio di conoscenze e di esperienze di relazione che, nel suo caso, è ricco e pesante, ella ha aggiunto al suo lavoro solitario un’altra componente, quella di una solida, personale cultura. Non mancava che un ingrediente perché la sua maturità fosse completa: la tecnica, che l’artista si è prontamente procurata all’indomani della pensione, frequentando con impegno, quasi con golosità, la Scuola degli Artefici di Brera per quattro anni.
Mi si perdoni questa apparente digressione biografica, ma ho bisogno di affermare, sin da queste prime righe, che il lavoro di Dolores Ricci è tutto fuorché ingenuo, naïve o simili, ma fondato su una lunga costruzione di consapevolezza, personalità creativa e di stile. Il cui risultato, come capita talvolta, è la leggerezza, sì, l’ironia, un’apparente e talora sostanziale giocosità in cui si annida, però, un’intensa capacità di espressione, sintetica e aggraziata. Viene da domandarsi, infatti, se in questa famiglia di lineari e colorati mostriciattoli nasca prima il titolo, l’intenzione poetica e narrativa, o se invece arrivi prima un guizzo dell’immagine che all’occhio acuto dell’artista, suggerisce un senso quasi sempre, peraltro, molto evidente anche ad altri occhi. Abile interprete di quelle che, un paio di secoli fa si sarebbero definite le “passioni” umane, l’artista le tratteggia senza pedanteria ma con una sapienza che, a volte, è quasi illustrativa:l’Erinni, per esempio, è tutta nel suo occhio triangolare dal contorno molto marcato e le ciglia capricciose e sproporzionate, nella linea insinuante che forma un intreccio elegante ma affilato, segretamente minaccioso. E il Sapiente è quasi una caricatura dell’incantatore di serpenti o del saggio indiano immaginato da una fantasia infantile, ma delineato da un veloce tratto curvilineo che muove da poche e semplici figure geometriche centrali per procedere poi quasi a onde progressive di moto che si allargano passando da un colore all’altro, dal verde prato all’azzurro e poi all’arancione e poi di nuovo al verde.
Non c’è e non ci può essere pentimento in queste creature scaturite da un tratto singolo, spesso o sottile, ma insofferente di ogni incertezza o indecisione. Il segno, infatti, mobile, organico ed irrequieto, sembra muoversi di un’istantanea energia sua propria, un’energia propriamente “creativa” che vive soltanto il tempo necessario, credo brevissimo, perché la forma si definisca e sia così, tutta intera e vuota sul foglio. Qualche volta, è vero, accade che il colore più o meno sfumato accenni o imprima una sottolineatura ad alcune parti del lavoro ma non necessariamente e, in ogni caso, il nucleo fondamentale, l’idea è già lì, tutta intera e tutta ribadita da quel semplice tratteggio. Dolores Ricci parla di queste creature come di “forme dell’interiorità … legate all’elemento tempo nel suo passaggio”. Parole che io interpreto come il riferimento ad un’efflorescenza fantastica priva di legami col referente reale, che si snoda un’immagine dopo l’altranel tempo, un tempo che è quello della vita e, insieme, quello dell’esecuzione. Non a caso, l’artista insiste che il corpus delle sue opere “si potrebbe definire … quasi un diario quotidiano di sensazioni, emozioni, pensieri”; una cronaca, insomma, di appunti pungenti e significativi, incantati ironici o leggeri, custodi di un tempo prezioso e parallelo, che scorre delicatamente nel flusso e col flusso delle cose e del mutamento.
Ma, da storica dell’arte, è tempo di chiedermi a chi, a che cosa si apparentino queste fantastiche ed originalissime creature che però, come tutti i fatti d’arte, una famiglia ce l’hanno sempre, anzi più di una ? c’è del surrealismo, in primo luogo, c’è il magico fluido che ha animato tante esperienze prossime al “segno automatico”, la velocità, la libertà, la mancanza di controllo. Questa geniale risorsa dell’esperienza creativa, artistica e letteraria, donata al Novecento da André Breton, è senz’altro applicata gioiosamente da Dolores Ricci per sfuggire tanto alle categorie del naturalismo quanto a quelle dell’astrazione, per permettere, in altre parole, ad un altro livello di coscienza, assolutamente addomesticato ma pur sempre e ancora selvaggio, di presenziare all’atto di nascita di ogni singola immagine. Per come Breton ne parla, infatti, l’automatismo surrealista è “automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere sia per iscritto o in qualunque altra maniera, il reale funzionamento del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale. [...] Il Surrealismo si basa sulla credenza nella realtà superiore di certe forme di associazione fino ad ora trascurate, nell’onnipotenza del sogno, nel gioco disinteressato del pensiero. Tende a distruggere definitivamente tutti i meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella soluzione dei principali problemi di vita”. Così il Primo Manifesto del Surrealismo e si potrebbe scommettere che il metodo elaborato per proprio conto da Dolores Ricci abbia qualcosa a che fare con questo. Ma spetta a Max Ernst aver tradotto questa procedura adatta e pensata per la scrittura lineare in una forma di pensiero “visivo”, un pensiero per immagini: “Il processo semi-automatico intensifica le facoltà visionarie del pittore e caratterizza la rappresentazione creata, più che il suo intervento cosciente e attivo. [...]Esclude qualsiasi forma di controllo mentale cosciente (ragione, gusto, morale) e restringe di molto la parte attiva, che finora si designava con il nome dell'autore dell'opera”, scrive l’artista nel 1936.
E’ un’apertura importante su nuovi orizzonti: qualche anno dopo Osvaldo Licini ideando i protagonisti della sua opera matura, le Amalasunte e i vistosi e tragicomici Angeli ribelli, permette che la pratica dell’astrazione, l’ironia e l’esperienza umana del tragico, oltre che una potentissima dimensione fantastica tutta fusa e affogata nell’olio della pittura, partoriscano figli e figlie nati senza madre completamente originali, puri guizzi del segno e di un’epica nuova, annidata nei dintorni di Monte Vidon Corrado.
Ma, più di ogni altra cosa, questi figuri bonari e colorati che continuamente scaturiscono dalla ricerca libera di Dolores Ricci, sono parenti inconsapevoli e involontari delle creature pittoriche di Gillo Dorfles. Il grande filosofo, critico ed intellettuale sin dagli anni trenta ha coltivato una pittura liberissima, avulsa da tentazioni naturalistiche ma ricca ed immaginifica, sui cui risultati si è espresso più volte egli stesso, psichiatra di formazione: “è la ricerca precisa e lucida di una determinata forma a guidare la matita e il pennello: forma che parte da alcunché di già sperimentato o a quello tende, sia che la mano tracci un segno preso a prestito da un elemento reale (ma non però copia d’oggetto naturalistico), sia che si valga di alcuni schemi formali sempre ricorrenti che, a mio avviso, si possono considerare come i progenitori di ogni espressione grafica, conscia o inconscia…potremo assistere alla proiezione di archetipi formativi, restati a lungo inutilizzati, e che oggi riappaiono, diventando i generatori di nuovi spunti plastici” (1951).
Quelli di Dorfles sono veri e propri frammenti di “racconto attraverso le immagini”, costruiti con grande libertà, riassemblando insieme pezzi di un antico e sperimentato repertorio simbolico e segnico di arabeschi, grafemi, lessemi, macchie e ghirigori. Da questo precipitato continuamente variabile di unità compositive sono nati “personaggi” ironici e talvolta caricaturali ma anche superfici puramente astratte, libere articolazioni di segni, forme e colori senza alcun riferimento alla realtà, oppure invece raccolte intorno a una qualche specie di significato riconoscibile, più o meno cosparso di accessori simbolici. Le stesse cose potrebbero essere dette per le composizioni grafico-pittoriche di Dolores Ricci. Identica è anche la componente narrativa e il gusto dell’invenzione spiritosa, oppure addirittura grottesca, la vena narrativa che non va confusa con un’imprevista insorgenza “rappresentativa” e in nessun modo “realista”, ma che risponde invece a una sottile licenza al gioco, all’insinuazione e, al tempo stesso, a portare un punto o una linea fino alle estreme conseguenze aforistiche.
I personaggi di Dorfles e di Dolores Ricci scaturiscono dunque per una specie di generazione spontanea, “il percorso di un detective che non avendo ancora una prova certa lascia sul terreno qualche traccia, o ipotesi, senza rinunciare nemmeno per un attimo, con un notevole senso dell’humour, a nessuno dei frammenti di possibilità rilevati”, come diceva Roberto Sanesi. Entrambi nascono per una specie di “deduzione”, non dell’intelligenza però, ma della mano e dei suoi movimenti spontanei, sospinti da una soggettività profonda e imperscrutabile, che produce dei tipi strani, elastici, polimorfi e ubiquitari. Talora sono anche sensuali ed accennano a questa loro caratteristica senza moralismi né esibizionismo, anzi con gioiosa spontaneità e fragranza. Essi sono tutti collegati l’uno all’altro come perle di una collana, da una specie di riflesso automatico che si muove con sicurezza da un quadro all’altro, apparentemente senza scosse, lungo un solco ininterrotto, un “filo illogico” costituito da un unico tema lineare dalle variazioni innumerevoli, motivi nuovi e diversi, seri o piacevoli o talora quasi grotteschi.
Questa familiarità, se così vogliamo chiamarla, oppure “affinità elettiva” non calcolata e probabilmente nemmeno consapevole è fatto assai notevole, che dimostra la vitalità di una certa componente vagamente surrealista, sospesa fra astrazione e figurazione, nella ricerca artistica contemporanea. Ma dimostra anche che Dolores Ricci, pur essendo rimasta “al coperto” una buona parte della sua vita, praticando in apparenza un esercizio del tutto solitario e personale, in realtà è artista in contatto con una corrente ben viva, vitale e, se me lo si consente, illustre, dell’arte contemporanea. Tanto più vitale e significativa quanto apparentemente dimessa, scherzosa e amichevole.
Martina Corgnati
Mi si perdoni questa apparente digressione biografica, ma ho bisogno di affermare, sin da queste prime righe, che il lavoro di Dolores Ricci è tutto fuorché ingenuo, naïve o simili, ma fondato su una lunga costruzione di consapevolezza, personalità creativa e di stile. Il cui risultato, come capita talvolta, è la leggerezza, sì, l’ironia, un’apparente e talora sostanziale giocosità in cui si annida, però, un’intensa capacità di espressione, sintetica e aggraziata. Viene da domandarsi, infatti, se in questa famiglia di lineari e colorati mostriciattoli nasca prima il titolo, l’intenzione poetica e narrativa, o se invece arrivi prima un guizzo dell’immagine che all’occhio acuto dell’artista, suggerisce un senso quasi sempre, peraltro, molto evidente anche ad altri occhi. Abile interprete di quelle che, un paio di secoli fa si sarebbero definite le “passioni” umane, l’artista le tratteggia senza pedanteria ma con una sapienza che, a volte, è quasi illustrativa:l’Erinni, per esempio, è tutta nel suo occhio triangolare dal contorno molto marcato e le ciglia capricciose e sproporzionate, nella linea insinuante che forma un intreccio elegante ma affilato, segretamente minaccioso. E il Sapiente è quasi una caricatura dell’incantatore di serpenti o del saggio indiano immaginato da una fantasia infantile, ma delineato da un veloce tratto curvilineo che muove da poche e semplici figure geometriche centrali per procedere poi quasi a onde progressive di moto che si allargano passando da un colore all’altro, dal verde prato all’azzurro e poi all’arancione e poi di nuovo al verde.
Non c’è e non ci può essere pentimento in queste creature scaturite da un tratto singolo, spesso o sottile, ma insofferente di ogni incertezza o indecisione. Il segno, infatti, mobile, organico ed irrequieto, sembra muoversi di un’istantanea energia sua propria, un’energia propriamente “creativa” che vive soltanto il tempo necessario, credo brevissimo, perché la forma si definisca e sia così, tutta intera e vuota sul foglio. Qualche volta, è vero, accade che il colore più o meno sfumato accenni o imprima una sottolineatura ad alcune parti del lavoro ma non necessariamente e, in ogni caso, il nucleo fondamentale, l’idea è già lì, tutta intera e tutta ribadita da quel semplice tratteggio. Dolores Ricci parla di queste creature come di “forme dell’interiorità … legate all’elemento tempo nel suo passaggio”. Parole che io interpreto come il riferimento ad un’efflorescenza fantastica priva di legami col referente reale, che si snoda un’immagine dopo l’altranel tempo, un tempo che è quello della vita e, insieme, quello dell’esecuzione. Non a caso, l’artista insiste che il corpus delle sue opere “si potrebbe definire … quasi un diario quotidiano di sensazioni, emozioni, pensieri”; una cronaca, insomma, di appunti pungenti e significativi, incantati ironici o leggeri, custodi di un tempo prezioso e parallelo, che scorre delicatamente nel flusso e col flusso delle cose e del mutamento.
Ma, da storica dell’arte, è tempo di chiedermi a chi, a che cosa si apparentino queste fantastiche ed originalissime creature che però, come tutti i fatti d’arte, una famiglia ce l’hanno sempre, anzi più di una ? c’è del surrealismo, in primo luogo, c’è il magico fluido che ha animato tante esperienze prossime al “segno automatico”, la velocità, la libertà, la mancanza di controllo. Questa geniale risorsa dell’esperienza creativa, artistica e letteraria, donata al Novecento da André Breton, è senz’altro applicata gioiosamente da Dolores Ricci per sfuggire tanto alle categorie del naturalismo quanto a quelle dell’astrazione, per permettere, in altre parole, ad un altro livello di coscienza, assolutamente addomesticato ma pur sempre e ancora selvaggio, di presenziare all’atto di nascita di ogni singola immagine. Per come Breton ne parla, infatti, l’automatismo surrealista è “automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere sia per iscritto o in qualunque altra maniera, il reale funzionamento del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale. [...] Il Surrealismo si basa sulla credenza nella realtà superiore di certe forme di associazione fino ad ora trascurate, nell’onnipotenza del sogno, nel gioco disinteressato del pensiero. Tende a distruggere definitivamente tutti i meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella soluzione dei principali problemi di vita”. Così il Primo Manifesto del Surrealismo e si potrebbe scommettere che il metodo elaborato per proprio conto da Dolores Ricci abbia qualcosa a che fare con questo. Ma spetta a Max Ernst aver tradotto questa procedura adatta e pensata per la scrittura lineare in una forma di pensiero “visivo”, un pensiero per immagini: “Il processo semi-automatico intensifica le facoltà visionarie del pittore e caratterizza la rappresentazione creata, più che il suo intervento cosciente e attivo. [...]Esclude qualsiasi forma di controllo mentale cosciente (ragione, gusto, morale) e restringe di molto la parte attiva, che finora si designava con il nome dell'autore dell'opera”, scrive l’artista nel 1936.
E’ un’apertura importante su nuovi orizzonti: qualche anno dopo Osvaldo Licini ideando i protagonisti della sua opera matura, le Amalasunte e i vistosi e tragicomici Angeli ribelli, permette che la pratica dell’astrazione, l’ironia e l’esperienza umana del tragico, oltre che una potentissima dimensione fantastica tutta fusa e affogata nell’olio della pittura, partoriscano figli e figlie nati senza madre completamente originali, puri guizzi del segno e di un’epica nuova, annidata nei dintorni di Monte Vidon Corrado.
Ma, più di ogni altra cosa, questi figuri bonari e colorati che continuamente scaturiscono dalla ricerca libera di Dolores Ricci, sono parenti inconsapevoli e involontari delle creature pittoriche di Gillo Dorfles. Il grande filosofo, critico ed intellettuale sin dagli anni trenta ha coltivato una pittura liberissima, avulsa da tentazioni naturalistiche ma ricca ed immaginifica, sui cui risultati si è espresso più volte egli stesso, psichiatra di formazione: “è la ricerca precisa e lucida di una determinata forma a guidare la matita e il pennello: forma che parte da alcunché di già sperimentato o a quello tende, sia che la mano tracci un segno preso a prestito da un elemento reale (ma non però copia d’oggetto naturalistico), sia che si valga di alcuni schemi formali sempre ricorrenti che, a mio avviso, si possono considerare come i progenitori di ogni espressione grafica, conscia o inconscia…potremo assistere alla proiezione di archetipi formativi, restati a lungo inutilizzati, e che oggi riappaiono, diventando i generatori di nuovi spunti plastici” (1951).
Quelli di Dorfles sono veri e propri frammenti di “racconto attraverso le immagini”, costruiti con grande libertà, riassemblando insieme pezzi di un antico e sperimentato repertorio simbolico e segnico di arabeschi, grafemi, lessemi, macchie e ghirigori. Da questo precipitato continuamente variabile di unità compositive sono nati “personaggi” ironici e talvolta caricaturali ma anche superfici puramente astratte, libere articolazioni di segni, forme e colori senza alcun riferimento alla realtà, oppure invece raccolte intorno a una qualche specie di significato riconoscibile, più o meno cosparso di accessori simbolici. Le stesse cose potrebbero essere dette per le composizioni grafico-pittoriche di Dolores Ricci. Identica è anche la componente narrativa e il gusto dell’invenzione spiritosa, oppure addirittura grottesca, la vena narrativa che non va confusa con un’imprevista insorgenza “rappresentativa” e in nessun modo “realista”, ma che risponde invece a una sottile licenza al gioco, all’insinuazione e, al tempo stesso, a portare un punto o una linea fino alle estreme conseguenze aforistiche.
I personaggi di Dorfles e di Dolores Ricci scaturiscono dunque per una specie di generazione spontanea, “il percorso di un detective che non avendo ancora una prova certa lascia sul terreno qualche traccia, o ipotesi, senza rinunciare nemmeno per un attimo, con un notevole senso dell’humour, a nessuno dei frammenti di possibilità rilevati”, come diceva Roberto Sanesi. Entrambi nascono per una specie di “deduzione”, non dell’intelligenza però, ma della mano e dei suoi movimenti spontanei, sospinti da una soggettività profonda e imperscrutabile, che produce dei tipi strani, elastici, polimorfi e ubiquitari. Talora sono anche sensuali ed accennano a questa loro caratteristica senza moralismi né esibizionismo, anzi con gioiosa spontaneità e fragranza. Essi sono tutti collegati l’uno all’altro come perle di una collana, da una specie di riflesso automatico che si muove con sicurezza da un quadro all’altro, apparentemente senza scosse, lungo un solco ininterrotto, un “filo illogico” costituito da un unico tema lineare dalle variazioni innumerevoli, motivi nuovi e diversi, seri o piacevoli o talora quasi grotteschi.
Questa familiarità, se così vogliamo chiamarla, oppure “affinità elettiva” non calcolata e probabilmente nemmeno consapevole è fatto assai notevole, che dimostra la vitalità di una certa componente vagamente surrealista, sospesa fra astrazione e figurazione, nella ricerca artistica contemporanea. Ma dimostra anche che Dolores Ricci, pur essendo rimasta “al coperto” una buona parte della sua vita, praticando in apparenza un esercizio del tutto solitario e personale, in realtà è artista in contatto con una corrente ben viva, vitale e, se me lo si consente, illustre, dell’arte contemporanea. Tanto più vitale e significativa quanto apparentemente dimessa, scherzosa e amichevole.
Martina Corgnati
17
novembre 2014
Dolores Ricci
Dal 17 novembre al 09 dicembre 2014
arte contemporanea
Location
GALLERIA 9 COLONNE SPE
Bologna, Via Cesare Boldrini, 10, (Bologna)
Bologna, Via Cesare Boldrini, 10, (Bologna)
Orario di apertura
9.00-13.00 / 14.00-17.30
sabato e festıvı chıuso
Vernissage
17 Novembre 2014, su invito
Autore
Curatore