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Domenico Piccolo
Domenico Piccolo presenta alla galleria Federico Bianchi Contemporary Art il suo ultimo ciclo di lavori.
Interessato da sempre alla condizione dell’individuo all’interno del contesto sociale in cui vive,
l’ultima ricerca dell’artista si è concentrata sullo studio degli ospedali psichiatrici.
Comunicato stampa
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NON TUTTO È PERDUTO!
Nel tempo e per ragioni diverse, di cui qui darò per ovvia necessità solo breve conto, si è andata formando in me l’idea che la pittura sia diventata la dimostrazione della mancanza di certezze che proviamo di fronte alla realtà, e che proprio questa sia la causa della sua persistenza come del suo nuovo ruolo. A nessuno, sono sicuro, sfugge che la partenza e buona parte della storia del dipingere si è svolta sotto l’influenza di una ragione - o meglio di una necessità - del tutto contraria. Ma il paradosso vero non è tanto in questo ribaltamento, quanto nel fatto che man mano che procedevamo nella capacità di riprodurre la realtà in modo sempre più verosimile, i dubbi sulla veridicità di quella stessa realtà aumentavano, e continuano ad aumentare. Chi crede oggi alla fotografia, alla presunta verità che dovrebbe testimoniare? E chi può pensare lo stesso di un video, o del virtuale ieri e del 3D oggi? Ma ancora: se l’immagine è manipolabile, chi può garantirci che non lo sia la stessa realtà?
Senza avventurarci troppo per paranoici ragionamenti, l’unica certezza a proposito del reale sta nella singolarità della sua percezione, che naturalmente non dà nessuna garanzia di verità genericamente condivisibili. Eppure e in tutta evidenza la realtà esiste, tutti continuiamo in modi diversi a confrontarci con essa, da cui procede anche la necessità di rappresentarla. È però altrettanto chiaro che siamo ormai giunti alla pacifica consapevolezza che rappresentazione e realtà pur somigliandosi molto, possono condividere poco. Ed è proprio qui che si è andato formando uno spazio e un ruolo in principio appunto non prevedibili per la pittura. La sua stessa condizione di pratica manuale realizzata da un individuo, che non ha alcuna pretesa di oggettività e che realizza una rappresentazione che con la realtà non ha alcuna decisiva verosimiglianza, ha infatti spostato la pittura sul ben diverso piano dello svelamento dell’essenza di quella stessa realtà. Quando riesce, la pittura scopre dunque quel nocciolo del reale, che a volte e improvvisamente balugina tra gli strati più superficiali dell’apparenza, come una rivelazione che ne modifica definitivamente la comprensione. La pittura si è trovata di fatto costretta a cercare questa dimensione, se non altro perché rappresentare la superficie della realtà oggi è per lei decisamente inattuabile e inattuale. Non sempre la pittura è consapevole di questa sua neo-condizione e non sempre riesce a perseguire e ottenere risultati in questo senso. Ma questo è parte inevitabile dello svolgimento complesso e contraddittorio di tutte le storie.
Eccomi quindi di fronte a questa geografia della follia dipinta da Domenico Piccolo. Una mappa del dolore e della solitudine, fragile e misteriosa. Una trama sottile di eventi e situazioni in cui il dubbio sulla natura della realtà è già intrinseca alla natura del soggetto rappresentato. Siamo di fronte all’incertezza elevata all’ennesima potenza. E attraverso questo doppio binario di una pittura che cerca l’essenza del reale e che ritrae chi ne ha smarrito il senso, perlomeno delle sembianze convenzionalmente condivise, si arriva ad una riflessione imprevista sul mondo e sul nostro stare in esso, ma nondimeno su come può mostrarcelo la pittura. L’impressione è che tutto all’interno di questi quadri sia muto. Mute sono le persone, muti i bambini e i malati, muti gli oggetti e gli ambienti. È come se i suoni fossero trattenuti dal monocromo della pittura che crea un’intercapedine isolante tra il nostro spazio e quello della rappresentazione. Improvvisamente è chiaro che l’elemento dotato di senso, quello che porta all’essenza di questa realtà di reclusione e di pena inflitta alla diversità, è proprio il silenzio. Decisamente poco figurabile e pittorico, il silenzio diventa invece il protagonista della rappresentazione di Piccolo, assommando su di sé tutti i silenzi che a vario titolo e in vario modo rendono possibile questo stato delle cose. Il nocciolo della realtà che ci appare improvviso e inderogabile sotto gli occhi è costituito proprio dalle cause che determinano quell’ottusa violenza, quella sottomissione e conseguente perdita di dignità, e che non sono affatto così lontane come ci piace immaginare dalla normalità della nostra sana vita quotidiana. Quelle cause sono infatti ascrivibili in senso più esteso, ma non meno concreto, all’esplicita pretesa dei poteri (e il plurale non è un errore) di dare di volta in volta un significato determinato ed univoco alla realtà, al quale bisogna corrispondere, pena appunto l’isolamento. Nel silenzio verso queste imposizioni coatte sta la causa dell’asservimento mentale, l’atteggiamento di cui tutti noi siamo colpevolmente responsabili. Ed è proprio di questo che ci parla la pittura di Piccolo. Guardando queste piccole e delicate superfici dipinte, viene fuori tutta la forza della ribellione profonda, dell’indignazione accompagnata da quella pietas che appartiene alla nostra più profonda e necessaria umanità. Ma non tutto è perduto. È sicuro. Se l’arte e la pittura, proprio e ancora la pittura, riescono a darci un segnale rilevatore del vero senso del reale in cui siamo, allora è sicuro che non tutto è perduto, malgrado appunto le apparenze.
Raffaele Gavarro
Nel tempo e per ragioni diverse, di cui qui darò per ovvia necessità solo breve conto, si è andata formando in me l’idea che la pittura sia diventata la dimostrazione della mancanza di certezze che proviamo di fronte alla realtà, e che proprio questa sia la causa della sua persistenza come del suo nuovo ruolo. A nessuno, sono sicuro, sfugge che la partenza e buona parte della storia del dipingere si è svolta sotto l’influenza di una ragione - o meglio di una necessità - del tutto contraria. Ma il paradosso vero non è tanto in questo ribaltamento, quanto nel fatto che man mano che procedevamo nella capacità di riprodurre la realtà in modo sempre più verosimile, i dubbi sulla veridicità di quella stessa realtà aumentavano, e continuano ad aumentare. Chi crede oggi alla fotografia, alla presunta verità che dovrebbe testimoniare? E chi può pensare lo stesso di un video, o del virtuale ieri e del 3D oggi? Ma ancora: se l’immagine è manipolabile, chi può garantirci che non lo sia la stessa realtà?
Senza avventurarci troppo per paranoici ragionamenti, l’unica certezza a proposito del reale sta nella singolarità della sua percezione, che naturalmente non dà nessuna garanzia di verità genericamente condivisibili. Eppure e in tutta evidenza la realtà esiste, tutti continuiamo in modi diversi a confrontarci con essa, da cui procede anche la necessità di rappresentarla. È però altrettanto chiaro che siamo ormai giunti alla pacifica consapevolezza che rappresentazione e realtà pur somigliandosi molto, possono condividere poco. Ed è proprio qui che si è andato formando uno spazio e un ruolo in principio appunto non prevedibili per la pittura. La sua stessa condizione di pratica manuale realizzata da un individuo, che non ha alcuna pretesa di oggettività e che realizza una rappresentazione che con la realtà non ha alcuna decisiva verosimiglianza, ha infatti spostato la pittura sul ben diverso piano dello svelamento dell’essenza di quella stessa realtà. Quando riesce, la pittura scopre dunque quel nocciolo del reale, che a volte e improvvisamente balugina tra gli strati più superficiali dell’apparenza, come una rivelazione che ne modifica definitivamente la comprensione. La pittura si è trovata di fatto costretta a cercare questa dimensione, se non altro perché rappresentare la superficie della realtà oggi è per lei decisamente inattuabile e inattuale. Non sempre la pittura è consapevole di questa sua neo-condizione e non sempre riesce a perseguire e ottenere risultati in questo senso. Ma questo è parte inevitabile dello svolgimento complesso e contraddittorio di tutte le storie.
Eccomi quindi di fronte a questa geografia della follia dipinta da Domenico Piccolo. Una mappa del dolore e della solitudine, fragile e misteriosa. Una trama sottile di eventi e situazioni in cui il dubbio sulla natura della realtà è già intrinseca alla natura del soggetto rappresentato. Siamo di fronte all’incertezza elevata all’ennesima potenza. E attraverso questo doppio binario di una pittura che cerca l’essenza del reale e che ritrae chi ne ha smarrito il senso, perlomeno delle sembianze convenzionalmente condivise, si arriva ad una riflessione imprevista sul mondo e sul nostro stare in esso, ma nondimeno su come può mostrarcelo la pittura. L’impressione è che tutto all’interno di questi quadri sia muto. Mute sono le persone, muti i bambini e i malati, muti gli oggetti e gli ambienti. È come se i suoni fossero trattenuti dal monocromo della pittura che crea un’intercapedine isolante tra il nostro spazio e quello della rappresentazione. Improvvisamente è chiaro che l’elemento dotato di senso, quello che porta all’essenza di questa realtà di reclusione e di pena inflitta alla diversità, è proprio il silenzio. Decisamente poco figurabile e pittorico, il silenzio diventa invece il protagonista della rappresentazione di Piccolo, assommando su di sé tutti i silenzi che a vario titolo e in vario modo rendono possibile questo stato delle cose. Il nocciolo della realtà che ci appare improvviso e inderogabile sotto gli occhi è costituito proprio dalle cause che determinano quell’ottusa violenza, quella sottomissione e conseguente perdita di dignità, e che non sono affatto così lontane come ci piace immaginare dalla normalità della nostra sana vita quotidiana. Quelle cause sono infatti ascrivibili in senso più esteso, ma non meno concreto, all’esplicita pretesa dei poteri (e il plurale non è un errore) di dare di volta in volta un significato determinato ed univoco alla realtà, al quale bisogna corrispondere, pena appunto l’isolamento. Nel silenzio verso queste imposizioni coatte sta la causa dell’asservimento mentale, l’atteggiamento di cui tutti noi siamo colpevolmente responsabili. Ed è proprio di questo che ci parla la pittura di Piccolo. Guardando queste piccole e delicate superfici dipinte, viene fuori tutta la forza della ribellione profonda, dell’indignazione accompagnata da quella pietas che appartiene alla nostra più profonda e necessaria umanità. Ma non tutto è perduto. È sicuro. Se l’arte e la pittura, proprio e ancora la pittura, riescono a darci un segnale rilevatore del vero senso del reale in cui siamo, allora è sicuro che non tutto è perduto, malgrado appunto le apparenze.
Raffaele Gavarro
29
settembre 2011
Domenico Piccolo
Dal 29 settembre al 18 novembre 2011
arte contemporanea
Location
FEDERICO BIANCHI CONTEMPORARY ART
Milano, Via Carlo Imbonati, 12, (Milano)
Milano, Via Carlo Imbonati, 12, (Milano)
Orario di apertura
da martedi a sabato ore 14-19
Vernissage
29 Settembre 2011, ore 18.30
Autore