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Domitiafrica
Spaziano tra pluralità di linguaggi e tecniche diverse le opere degli artisti presenti nella mostra “ Domitiafrica” che interroga un pezzo di territorio campano: il litorale Domitio, un luogo emblematico per la particolare concentrazione di fenomeni quali camorra, droga, degrado ambientale e sociale.
Comunicato stampa
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Pittura, fotografia, video, installazioni.
Spaziano tra pluralità di linguaggi e tecniche diverse le opere degli artisti presenti nella mostra “ DOMITIAFRICA” che interroga un pezzo di territorio campano: il litorale Domitio, un luogo emblematico per la particolare concentrazione di fenomeni quali camorra, droga, degrado ambientale e sociale. Un territorio dove spesso la gestione politica si è intrecciata con quella affaristica, consentendo la cementificazione selvaggia di una costa invidiabile dal punto di vista paesaggistico e turistico. In alcuni casi la colpevole mancanza di controllo ha reso facile l’attuazione di gravi reati ambientali con la realizzazione di discariche di veleni pericolosissime per la salute pubblica. Infine, la mancanza di un progetto per gestire adeguatamente l’immigrazione ha alimentato la nascita di caporalato, sfruttamento della prostituzione e delinquenza comune, lasciando completamente sola la comunità locale a subire il peso di tutti questi problemi. E’ contraddittorio aprire le frontiere per consentire la libera circolazione delle merci e, nel contempo, erigere muri per arrestare quella degli esseri umani. Ma, quando servono, gli stessi uomini sono ridotti a merce tra le merci. Uomini poveri, donne, bambini assetati e affamati, vengono sfruttati, senza alcun ritegno, come manodopera a buon mercato, schiavi del sesso, o addirittura, per il disumano commercio di pezzi di ricambio umani. E quando tutto questo non basta ancora, vengono usati come bersagli per i proiettili dimostrativi di poteri malavitosi e occulti.
Le opere in mostra, non a caso, entrano in rapporto-collisione con un contesto diverso, di eccellenza, quello del museo archeologico locale, che raccoglie testimonianze preziose della storia antica di questa terra, oggi devastata. Avvolti dall’abolla di lana del museo, i lavori, così carichi di tensione, di pathos, non restano ancorati all’effetto emotivo, privato, ma producono un’amplificazione di senso nella materia vivente del corpo sociale. Allargano l’orizzonte delle riflessioni nella sfera collettiva e politica. Il contesto locale, oltre ad avere carattere di particolarità, è assunto come icona tragica di un sistema dalle forti contraddizioni e si carica di significati più ampi, caratterizzandosi come il frammento di uno specchio globale che, tra le sue molteplici crepe, riflette con nitidezza la deriva del mondo contemporaneo. Le opere si offrono al museo non per essere cinte dall’aura, ma come reperti dissacrati e dissacranti, come testimonianze di saccheggi ai danni di una terra scomparsa, di una terra che non è più “madre”, da rispettare, preservare, non è più il fondo di un progetto di futuro umano e civile ma solo risorsa da sfruttare, adesso, subito.
Con tecniche differenti, con linguaggi diretti o metafore visive, in tutte le opere trapela la volontà di sottolineare queste contraddizioni: Rocco Sciaudone, interviene sulla grande torre fatiscente della ex fabbrica Italfood, emblema del fallimento di un sogno industriale del mezzogiorno, e di tutti i sud del mondo, “domitiana public art”, un lavoro video e fotografico, elaborato all’esterno, nelle pieghe o piaghe della realtà. Una realtà senza tratti caratteristici di aggregazione umana, un non luogo è quello che emerge dalle foto di Salvatore Vargas, un paesaggio aggredito, corroso, compromesso a tal punto da perdere ogni connotazione urbana. Bernardo Pagliaro, ha raccolto reperti, sacchi, e frammenti di contenitori, provenienti da uno stato che non esiste più, ”Zaire”, che oggi fa parte della Repubblica del Congo. Su una tela campeggia la testa di un leopardo africano tra i marchi e le pubblicità povere, essenziali. Questi reperti portano i segni di chissà quali peripezie e pericoli, giunti fino a noi in uno dei tanti viaggi della speranza, su una carretta del mare o in un asfittico container. Il riscatto da una condizione di schiavitù e il riconoscimento della dignità umana di una prostituta viene sintetizzato nella foto di Agnieszka Kiersztan, incoronata con perle bianche come una principessa africana. Angelo Riviello, con un gesto di sottile ironia, in un lavoro di decollage fotografico, smaschera la ridondante retorica politica, contenuta nelle frasi di propaganda di un manifesto elettorale, mettendole in relazione con il volto di un giovane nero che appare sotto gli strappi. Antonio Di Grazia, invece, interviene con una installazione dal titolo esplicativo “ gli scheletri non sono più nell’armadio”. Un segno orizzontale quello di Mimmo Di Dio, la strada di seta grigia e lucida come l’asfalto rovente, costellata di episodi pittorici, uomini o animali, in attesa ai bordi, agli angoli, in un rituale ormai consueto che si ripete all’alba e al tramonto. Uomini dal corpo invisibile, fatti solo di mani da lavoro, le uniche rimaste ancora attaccate alle casse colme di pomodori nell’installazione di Giuseppe Di Guida & Raffaele Vargas. L’opera è la parte assente, di questi fantasmi servono solo le mani, per il resto è già pronto il foglio di espulsione.
Spaziano tra pluralità di linguaggi e tecniche diverse le opere degli artisti presenti nella mostra “ DOMITIAFRICA” che interroga un pezzo di territorio campano: il litorale Domitio, un luogo emblematico per la particolare concentrazione di fenomeni quali camorra, droga, degrado ambientale e sociale. Un territorio dove spesso la gestione politica si è intrecciata con quella affaristica, consentendo la cementificazione selvaggia di una costa invidiabile dal punto di vista paesaggistico e turistico. In alcuni casi la colpevole mancanza di controllo ha reso facile l’attuazione di gravi reati ambientali con la realizzazione di discariche di veleni pericolosissime per la salute pubblica. Infine, la mancanza di un progetto per gestire adeguatamente l’immigrazione ha alimentato la nascita di caporalato, sfruttamento della prostituzione e delinquenza comune, lasciando completamente sola la comunità locale a subire il peso di tutti questi problemi. E’ contraddittorio aprire le frontiere per consentire la libera circolazione delle merci e, nel contempo, erigere muri per arrestare quella degli esseri umani. Ma, quando servono, gli stessi uomini sono ridotti a merce tra le merci. Uomini poveri, donne, bambini assetati e affamati, vengono sfruttati, senza alcun ritegno, come manodopera a buon mercato, schiavi del sesso, o addirittura, per il disumano commercio di pezzi di ricambio umani. E quando tutto questo non basta ancora, vengono usati come bersagli per i proiettili dimostrativi di poteri malavitosi e occulti.
Le opere in mostra, non a caso, entrano in rapporto-collisione con un contesto diverso, di eccellenza, quello del museo archeologico locale, che raccoglie testimonianze preziose della storia antica di questa terra, oggi devastata. Avvolti dall’abolla di lana del museo, i lavori, così carichi di tensione, di pathos, non restano ancorati all’effetto emotivo, privato, ma producono un’amplificazione di senso nella materia vivente del corpo sociale. Allargano l’orizzonte delle riflessioni nella sfera collettiva e politica. Il contesto locale, oltre ad avere carattere di particolarità, è assunto come icona tragica di un sistema dalle forti contraddizioni e si carica di significati più ampi, caratterizzandosi come il frammento di uno specchio globale che, tra le sue molteplici crepe, riflette con nitidezza la deriva del mondo contemporaneo. Le opere si offrono al museo non per essere cinte dall’aura, ma come reperti dissacrati e dissacranti, come testimonianze di saccheggi ai danni di una terra scomparsa, di una terra che non è più “madre”, da rispettare, preservare, non è più il fondo di un progetto di futuro umano e civile ma solo risorsa da sfruttare, adesso, subito.
Con tecniche differenti, con linguaggi diretti o metafore visive, in tutte le opere trapela la volontà di sottolineare queste contraddizioni: Rocco Sciaudone, interviene sulla grande torre fatiscente della ex fabbrica Italfood, emblema del fallimento di un sogno industriale del mezzogiorno, e di tutti i sud del mondo, “domitiana public art”, un lavoro video e fotografico, elaborato all’esterno, nelle pieghe o piaghe della realtà. Una realtà senza tratti caratteristici di aggregazione umana, un non luogo è quello che emerge dalle foto di Salvatore Vargas, un paesaggio aggredito, corroso, compromesso a tal punto da perdere ogni connotazione urbana. Bernardo Pagliaro, ha raccolto reperti, sacchi, e frammenti di contenitori, provenienti da uno stato che non esiste più, ”Zaire”, che oggi fa parte della Repubblica del Congo. Su una tela campeggia la testa di un leopardo africano tra i marchi e le pubblicità povere, essenziali. Questi reperti portano i segni di chissà quali peripezie e pericoli, giunti fino a noi in uno dei tanti viaggi della speranza, su una carretta del mare o in un asfittico container. Il riscatto da una condizione di schiavitù e il riconoscimento della dignità umana di una prostituta viene sintetizzato nella foto di Agnieszka Kiersztan, incoronata con perle bianche come una principessa africana. Angelo Riviello, con un gesto di sottile ironia, in un lavoro di decollage fotografico, smaschera la ridondante retorica politica, contenuta nelle frasi di propaganda di un manifesto elettorale, mettendole in relazione con il volto di un giovane nero che appare sotto gli strappi. Antonio Di Grazia, invece, interviene con una installazione dal titolo esplicativo “ gli scheletri non sono più nell’armadio”. Un segno orizzontale quello di Mimmo Di Dio, la strada di seta grigia e lucida come l’asfalto rovente, costellata di episodi pittorici, uomini o animali, in attesa ai bordi, agli angoli, in un rituale ormai consueto che si ripete all’alba e al tramonto. Uomini dal corpo invisibile, fatti solo di mani da lavoro, le uniche rimaste ancora attaccate alle casse colme di pomodori nell’installazione di Giuseppe Di Guida & Raffaele Vargas. L’opera è la parte assente, di questi fantasmi servono solo le mani, per il resto è già pronto il foglio di espulsione.
22
maggio 2010
Domitiafrica
Dal 22 maggio al 18 giugno 2010
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO BIAGIO GRECO
Mondragone, Via Genova, 1, (Caserta)
Mondragone, Via Genova, 1, (Caserta)
Orario di apertura
negli orari di apertura del museo.
Vernissage
22 Maggio 2010, ore 18.30
Autore
Curatore