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Donatella Schilirò / Beatrice M. Serpieri – Archi Off Light
……..Arte…. Fotografia…. Architettura…. Ambiente…. composti nelle loro assonanze per gli spazi STArch – P.Ark in strada Maggiore, 31 grazie agli interventi di Beatrice M. Serpieri e Donatella Schilirò presentate dall’ architetto Piero Dall’Occa.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
........Arte.... Fotografia.... Architettura.... Ambiente.... composti nelle loro assonanze per gli spazi
STArch – P.Ark in strada Maggiore, 31 grazie agli interventi di Beatrice M. Serpieri e Donatella
Schilirò presentate dall' architetto Piero Dall'Occa.
Verrà proposta in anteprima “ COCCOLA “ studiata per un benessere ecologico anche all'esterno.
STARCH P.ark studio
Strada Maggiore, 31
Piero Dall'Occa
Premessa
Guardando queste opere, ma forse guardando ogni fotografia, prima o poi affiora la domanda: Che
cosa ha visto il fotografo? Quale realtà ha visto e ha voluto restituirci?
! Una fotografia contiene sempre un pezzo di realtà, qualche cosa che esiste nel mondo reale e
non solo nella mente del fotografo, e questo pezzo di realtà il fotografo lo prende, lo fa suo per un
momento e poi lo restituisce come trasformato. Che cosa avviene in questo momento intermedio, nel
quale prende corpo e vita la fotografia? Che cosa è entrato nella fotografia, quale oggetto è venuto a
farne parte? Quello che le domande cercano di afferrare è proprio il senso profondo della fotografia,
ma questo senso lo si percepisce come assente, come mancante nella scena. Può essere il
tempo ,“l'attimo perfetto” di cui parlava Cartier-Bresson, una luce, oppure a mancare è anche un solo
riferimento vitale.
! Viene in mente la partita a tennis nel finale del film di Michelangelo Antonioni Blow Up. Una
partita perfetta, giocata con grande passione, ma senza la pallina. La pallina non c'è, eppure esce dal
campo di gioco, cade vicino al protagonista. I giocatori lo guardano aspettando che lui la ributti in
gioco.
! Come David Hemmings cercherò di raccogliere la pallina mancante e, come lui, la rilancerò in
gioco, nelle opere di Beatrice M. Serpieri e di Donatella Schilirò.
Beatrice M. Serpieri
Non so immaginare i gesti e nemmeno le operazioni che Beatrice M. Serpieri compie sull'obiettivo
della sua macchina fotografica per realizzare le sue fotografie, ma certamente il suo lavoro è tutto
concentrato nel momento intermedio che si diceva all'inizio. Trasforma la sua macchina fotografica in
una trappola per catturare l'oggetto che darà il senso alla fotografia; la trappola è un gioco di specchi,
come se quell'oggetto lo volesse trattenere all'interno con un'infinita rifrazione, come un buco nero fa
con la luce. Ma in forma invertita. E' un buco chiaro, ottenuto con la frammentazione della luce che
trattiene all'interno il rimando a un oggetto reale. Come infatti una parola a forza di essere ripetuta
perde il suo senso e rimane un puro significante, così l'oggetto fotografato, le architetture da lei
scelte, perdono il loro connotato reale e si trasformano in pura forma.
! Non più legate al loro senso concreto le architetture di Beatrice M. Serpieri ci introducono in
un altro luogo, in uno spazio antico, quello della danza, l'unico in cui potevano entrare in gioco gli
dei, o meglio il dio che sta tra il mortale e l'immortale, Eros. Basti pensare al lavoro da lei fatto sulle
sculture del Canova per accorgersi quanto “eros” sia presente nelle sue opere, dove il suo irrompere
sulla scena fa quasi del tutto dimenticare la scultura fotografata così che i frammenti di immagini e
luce da lei ricomposti possano acquisire una sublime autonomia estetica.
! Anche nella danza delle architetture il senso vira verso la sensualità. Come se guardasse in un
caleidoscopio lo sguardo si perde nelle ripetute profondità, nei reiterati lampi di luce, negli infiniti
colonnati. Ma l'oggetto rimane catturato all'interno della fotografia, non si offre allo sguardo, c'è
sempre una inferriata che gli impedisce di andare oltre e di superare l'ostacolo che separa il mondo
reale da cui vediamo e il mondo immaginario che osserviamo nella fotografia.
! Torna in mente un'altra scena finale di Michelangelo Antonioni, “Professione Reporter”.
L'obiettivo, l'occhio che vede, guarda una finestra, ha un'inferriata, al di là c'è una piazza assolata di
un paese nordafricano. L'obiettivo poco alla volta, quasi impercettibilmente, si avvicina sempre più
all'inferriata, il quadrato dei ferri si fa sempre più grande, fino a passare alle spalle di chi sta
guardando la scena. L'obiettivo, l'occhio che vede, è passato oltre ha attraversato l'inferriata, si aggira
nella piazza assolata, ma alle sue spalle il corpo reale dell'osservatore viene ucciso.
Piero Dall'Occa
Donatella Schilirò
Nell'opera esposta già il titolo rimanda alle domande sopra ricordate. “Io vedo”. Che cosa vedo?
L'interno di una torre di raffrescamento a Marghera, ma invece che verso l'alto lo sguardo viene
trascinato sul fondo, come in una voragine aperta nella terra. Lo guardiamo dall'alto in basso, nella
direzione opposta a quella dell'occhio del fotografo. In fondo c'è una luce, che sembra condensare in
sé tutto il buio del mondo, come nella notte il tocco di una campana tutto il suo silenzio. Ma la luce si
trasforma, diventa una geometria, è un disco che taglia, una linea che si fa scrittura; trascina lo
sguardo nell'inconsistente spazio tra il buio e la luce, è una pura traccia, come nelle opere precedenti
di Donatella Schilirò, dove la linea di neon incide il confine tra la traccia e la scrittura.
! “Io vedo” diventa una forma intransitiva, è lo sguardo che viene catturato dentro la scatola,
che vaga lungo i contorni del disco, che si infila nella torre, che rimane sospeso nel vuoto finale.
Roland Barthes diceva che scrivere è un verbo intransitivo, nell'opera di Donatella Schilirò diventa
intransitivo il vedere.
! “Io vedo”. Che cosa vedo? Nulla ...vedo … io vedo.
Conclusione
C'è un elemento che accomuna i lavori di Donatella Schilirò e Beatrice M. Serpieri: la luce, che in un
caso lega con un gesto unitario i diversi elementi di cui è composta l'opera, nell'altro è lei a marcare la
loro frammentazione e ripetitività. Eppure dire che l'oggetto della fotografia è la luce è come dire che
l'oggetto di una scrittura è la lingua. Senza una lingua non si dà scrittura come senza luce non si fa
fotografia. Allora il sottile filo che lega le opere delle due artiste è il loro volere avvicinare il momento
inaugurale della fotografia, il suo proprio big bang. E lo stesso filo ha richiamato alla memoria due
personaggi, il fotografo di Blow Up e il reporter di Professione Reporter, che Michelangelo Antonioni
ha portato lungo il racconto del film sul ciglio della stessa questione.
Piero Dall'Occa
STArch – P.Ark in strada Maggiore, 31 grazie agli interventi di Beatrice M. Serpieri e Donatella
Schilirò presentate dall' architetto Piero Dall'Occa.
Verrà proposta in anteprima “ COCCOLA “ studiata per un benessere ecologico anche all'esterno.
STARCH P.ark studio
Strada Maggiore, 31
Piero Dall'Occa
Premessa
Guardando queste opere, ma forse guardando ogni fotografia, prima o poi affiora la domanda: Che
cosa ha visto il fotografo? Quale realtà ha visto e ha voluto restituirci?
! Una fotografia contiene sempre un pezzo di realtà, qualche cosa che esiste nel mondo reale e
non solo nella mente del fotografo, e questo pezzo di realtà il fotografo lo prende, lo fa suo per un
momento e poi lo restituisce come trasformato. Che cosa avviene in questo momento intermedio, nel
quale prende corpo e vita la fotografia? Che cosa è entrato nella fotografia, quale oggetto è venuto a
farne parte? Quello che le domande cercano di afferrare è proprio il senso profondo della fotografia,
ma questo senso lo si percepisce come assente, come mancante nella scena. Può essere il
tempo ,“l'attimo perfetto” di cui parlava Cartier-Bresson, una luce, oppure a mancare è anche un solo
riferimento vitale.
! Viene in mente la partita a tennis nel finale del film di Michelangelo Antonioni Blow Up. Una
partita perfetta, giocata con grande passione, ma senza la pallina. La pallina non c'è, eppure esce dal
campo di gioco, cade vicino al protagonista. I giocatori lo guardano aspettando che lui la ributti in
gioco.
! Come David Hemmings cercherò di raccogliere la pallina mancante e, come lui, la rilancerò in
gioco, nelle opere di Beatrice M. Serpieri e di Donatella Schilirò.
Beatrice M. Serpieri
Non so immaginare i gesti e nemmeno le operazioni che Beatrice M. Serpieri compie sull'obiettivo
della sua macchina fotografica per realizzare le sue fotografie, ma certamente il suo lavoro è tutto
concentrato nel momento intermedio che si diceva all'inizio. Trasforma la sua macchina fotografica in
una trappola per catturare l'oggetto che darà il senso alla fotografia; la trappola è un gioco di specchi,
come se quell'oggetto lo volesse trattenere all'interno con un'infinita rifrazione, come un buco nero fa
con la luce. Ma in forma invertita. E' un buco chiaro, ottenuto con la frammentazione della luce che
trattiene all'interno il rimando a un oggetto reale. Come infatti una parola a forza di essere ripetuta
perde il suo senso e rimane un puro significante, così l'oggetto fotografato, le architetture da lei
scelte, perdono il loro connotato reale e si trasformano in pura forma.
! Non più legate al loro senso concreto le architetture di Beatrice M. Serpieri ci introducono in
un altro luogo, in uno spazio antico, quello della danza, l'unico in cui potevano entrare in gioco gli
dei, o meglio il dio che sta tra il mortale e l'immortale, Eros. Basti pensare al lavoro da lei fatto sulle
sculture del Canova per accorgersi quanto “eros” sia presente nelle sue opere, dove il suo irrompere
sulla scena fa quasi del tutto dimenticare la scultura fotografata così che i frammenti di immagini e
luce da lei ricomposti possano acquisire una sublime autonomia estetica.
! Anche nella danza delle architetture il senso vira verso la sensualità. Come se guardasse in un
caleidoscopio lo sguardo si perde nelle ripetute profondità, nei reiterati lampi di luce, negli infiniti
colonnati. Ma l'oggetto rimane catturato all'interno della fotografia, non si offre allo sguardo, c'è
sempre una inferriata che gli impedisce di andare oltre e di superare l'ostacolo che separa il mondo
reale da cui vediamo e il mondo immaginario che osserviamo nella fotografia.
! Torna in mente un'altra scena finale di Michelangelo Antonioni, “Professione Reporter”.
L'obiettivo, l'occhio che vede, guarda una finestra, ha un'inferriata, al di là c'è una piazza assolata di
un paese nordafricano. L'obiettivo poco alla volta, quasi impercettibilmente, si avvicina sempre più
all'inferriata, il quadrato dei ferri si fa sempre più grande, fino a passare alle spalle di chi sta
guardando la scena. L'obiettivo, l'occhio che vede, è passato oltre ha attraversato l'inferriata, si aggira
nella piazza assolata, ma alle sue spalle il corpo reale dell'osservatore viene ucciso.
Piero Dall'Occa
Donatella Schilirò
Nell'opera esposta già il titolo rimanda alle domande sopra ricordate. “Io vedo”. Che cosa vedo?
L'interno di una torre di raffrescamento a Marghera, ma invece che verso l'alto lo sguardo viene
trascinato sul fondo, come in una voragine aperta nella terra. Lo guardiamo dall'alto in basso, nella
direzione opposta a quella dell'occhio del fotografo. In fondo c'è una luce, che sembra condensare in
sé tutto il buio del mondo, come nella notte il tocco di una campana tutto il suo silenzio. Ma la luce si
trasforma, diventa una geometria, è un disco che taglia, una linea che si fa scrittura; trascina lo
sguardo nell'inconsistente spazio tra il buio e la luce, è una pura traccia, come nelle opere precedenti
di Donatella Schilirò, dove la linea di neon incide il confine tra la traccia e la scrittura.
! “Io vedo” diventa una forma intransitiva, è lo sguardo che viene catturato dentro la scatola,
che vaga lungo i contorni del disco, che si infila nella torre, che rimane sospeso nel vuoto finale.
Roland Barthes diceva che scrivere è un verbo intransitivo, nell'opera di Donatella Schilirò diventa
intransitivo il vedere.
! “Io vedo”. Che cosa vedo? Nulla ...vedo … io vedo.
Conclusione
C'è un elemento che accomuna i lavori di Donatella Schilirò e Beatrice M. Serpieri: la luce, che in un
caso lega con un gesto unitario i diversi elementi di cui è composta l'opera, nell'altro è lei a marcare la
loro frammentazione e ripetitività. Eppure dire che l'oggetto della fotografia è la luce è come dire che
l'oggetto di una scrittura è la lingua. Senza una lingua non si dà scrittura come senza luce non si fa
fotografia. Allora il sottile filo che lega le opere delle due artiste è il loro volere avvicinare il momento
inaugurale della fotografia, il suo proprio big bang. E lo stesso filo ha richiamato alla memoria due
personaggi, il fotografo di Blow Up e il reporter di Professione Reporter, che Michelangelo Antonioni
ha portato lungo il racconto del film sul ciglio della stessa questione.
Piero Dall'Occa
28
gennaio 2011
Donatella Schilirò / Beatrice M. Serpieri – Archi Off Light
Dal 28 gennaio al 09 febbraio 2011
design
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
STARCH
Bologna, Strada Maggiore, 31, (Bologna)
Bologna, Strada Maggiore, 31, (Bologna)
Orario di apertura
Venerdì 28 gennaio
Sabato 29 gennaio h. 18.00 - 24.00 Art White Night
Domenica h. 18.00 - 21.00
Lunedì h. 19.00 - 21.00 drink
h. 18.00 - 22.00 Drink-Party Prosegue su appuntamento fino al 9 febbraio
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