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Don’t Expect Anything
Messaggi immateriali viaggiano nel tempo e nello spazio attraverso la percezione che lo spettatore avrà di fronte alle opere proposte dalle artiste presenti in mostra. Immagini intese come rimando al passato di idee ed ideali, eventi ed icone, simboli e storie.
Comunicato stampa
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Messaggi immateriali viaggiano nel tempo e nello spazio attraverso la percezione che lo spettatore avrà di fronte alle opere proposte dalle artiste presenti in mostra. Immagini intese come rimando al passato di idee ed ideali, eventi ed icone, simboli e storie.
Le immagini vengono fisicamente tradotte dalle artiste in fotografie di personaggi storici, in materiale rielaborato, still tratti da film del passato o rielaborazioni grafiche d’immagini elettroniche.
Ma non aspettatevi nulla, poiché é proprio l’atto del percepire, più che gli oggetti della percezione, ad essere importante. La fisicità di ciò che viene esposto assurge a residuo documentario, a ricordo ed evocazione, grazie alla profonda ricerca che è stata condotta.
Siate pronti però ad accogliere questi pensieri dimenticati, questi frammenti del passato come evocazioni di ciò che lo spazio ed il tempo hanno allontanato fisicamente e che le artiste ci permettono di vedere in maniera poetica e volutamente indeterminata.
Il soggetto della ricerca di Becky Beasley si basa sulla memoria autobiografica mediata da riferimenti letterari. La sua indagine si muove in equilibrio tra scultura e fotografia come una pratica visionaria che pone in relazione oggetti fatti a mano con la rappresentazione fotografica degli stessi. Tale esercizio ha connotati principalmente onirici con marcati riferimenti al Surrealismo e Minimalismo.
Un forte interesse per la storia collettiva sia da un punto di vista personale che sociale è presente nel lavoro di Nina Beier & Marie Lund. Il punto di partenza della loro ricerca è la loro storia personale che rivela l’effimero e l’accidentale. Il loro lavoro è caratterizzato dall’attenzione per le prime performance degli anni ’70, per le loro pratiche video e scultoree. The House and the Backdoor esposto in mostra è una scatola di legno che contiene una collezione di libri che sono quelli che la madre di Nina ha trovato a casa del padre di Marie in doppia copia quando si trasferì da loro. Questo lavoro rende oggettiva l’esperienza di salvaguardare l’identità personale in una relazione. Il tempo e la storia sono un elemento fondante del loro lavoro: “…torniamo alle storie che sono state messe in disparte e che possiamo svolgere ed evocare…”.
Le sculture di materiali come la plastica, crema idratante per il corpo, cotone, gesso, pittura, uova e vaselina vengono descritte da Karla Black come: “quasi dipinti, performance o installazioni, mentre in realtà e quasi definitivamente sono delle sculture” (“almost painting, performance or installations while actually, and quite definitely, being sculpture”). Le sue sculture e i loro titoli creano un contrasto tra l’esperienza materiale ed il linguaggio nel quale la prima vince sul secondo. I suoi lavori hanno le proprie radici nella psicoanalisi e nel femminismo ma anche nell’astrazione espressionista, nell’Azionismo Viennese, nella Land Art e nelle performance femministe.
Paesaggi, oggetti, installazioni: questo è il territorio che Katinka Bock spesso pone al centro del proprio lavoro. Territorio inteso non tanto come immateriale ed indefinito, ma come spazio definito per e da una comunità umana, cosparso di costumi, simboli e storia.
I suoi progetti prendono forma da elementi poveri quali legno, carta di giornale, pietra, non per un’esigenza di necessaria sobrietà, ma per una precisa e voluta ricerca di utilizzare ciò che nel mondo è d’uso comune. Tutto questo alimentato dall’interesse dell’artista per le scienze umane, fisiche e matematiche che rendono il suo lavoro formalmente semplice e completamente privo di discorsi letterali.
Kate Davis pone l’attenzione sulle implicazioni che importanti opere d’arte del passato hanno sul processo artistico contemporaneo. Il suo lavoro ha forti connessioni, sia dal punto di vista concettuale che formale, con la ricerca di alcune tra le artiste più significative del XX secolo come Kathe Kollwitz, Faith Wildinding, o Barbara Kruger. L’artista si pone consapevolmente all’interno di questo percorso in quanto donna e artista ritraendosi spesso nelle sue opere, come nel caso delle due stampe in mostra, in un complesso gioco tra passato e presente capace di creare nuovi significati di natura poetica e politica insieme.
Kate Davis conduce lo spettatore attraverso l’osservazione di un’attività del passato a rivivere un’esperienza fisica nello spazio della galleria oggi, ponendosi delle domande sulle modalità d’appropriazione della storia e del suo significato per la propria identità.
Annette Kisling fotografa situazioni misteriose con estrema lucidità. Porte, vetrine di negozi con la serranda chiusa nascondono la loro funzione. E’ impossibile vederne l’interno, tutto è fermo, la quiete, il silenzio pervadono l’immagine. Il tempo sembra essersi arrestato. Questi luoghi sembrano legati al passato mentre in realtà sono attuali, creando così un intreccio tra ieri e oggi.
L’atmosfera risulta immateriale e intangibile come se la fotografia ricreasse un nuovo ordine permettendoci di vedere di più e capire di meno.
Lorna Macintyre presenta in mostra lavori che nascono dalla suggestione del Simbolismo: oggetti che descrivono un intreccio tra il banale e il sublime.
I suoi fragili ‘piedistalli’ non mostrano quasi nulla, ma solo dei piccoli oggetti di rame e argento assemblati con una procedura alchemica.
Attraverso le sue installazioni ed i loro titoli Lorna crea una relazione tra forme naturali e il linguaggio, in modo visionario, conducendo il visitatore in un mondo ricco di segni e forme ben distinte.
La ricerca di Rosalind Nashashibi tende ad indagare il limite esistente fra i gruppi sociali e l’invenzione dei miti moderni, volutamente velando l’esatto confine tra realtà e immaginazione.
Nel film 16 mm Eyeballing l’artista contrappone tali aspetti. Da un lato osserva scorci di New York in cui oggetti inanimati o forme architettoniche diventano familiari e s’identificano con soggetti animati, dall’altro una telecamera fissa osserva l’ingresso di un distretto di polizia di New York dove uomini in uniforme nelle sfumature della quotidianità, non rappresentano solo se stessi ma anche un simbolo e una funzione per la comunità. Tutto ciò sotto lo sguardo inanimato dell’emblema araldico del dipartimento.
Si potrebbe definire Lisa Oppenheim come un’archeologa della cultura visiva. Far riemergere ciò che è sconosciuto, sottovalutato, nascosto, costituisce per l’artista un processo che rivela un ordine di cose che va al di là del nostro senso comune. Pezzi di celluloide, film e fotografie comunicano il passato nel presente, trasformando un documento privo di significato in un documentario. L’artista ricerca il senso nascosto sotto la superficiale evidenza della storia. 100 Photographs That Changed the World nasce dalla mappatura del cielo stellato riferita a cento eventi verificatesi in tempi e luoghi diversi. Gli eventi selezionati sono in relazione con le immagini trovate nel libro Time/Life che raccoglie 100 fotografie che hanno cambiato il mondo.
Susanne M. Winterling indaga l’identità femminile intesa come miscela collettiva più che come riferimento all’individuo. Film e fotografia ritraggono il processo di crescita umano ed intellettuale delle donne nel contesto sociale in cui operano, icone del proprio tempo.
Le otto immagini in mostra si riferiscono a donne del passato con cui l’artista aspira a creare una relazione intima per poter interagire con esse e con ciò che rappresentano. La relazione a cui tende Susanne Winterling diviene un legame personale, quasi familiare da cui deriva il titolo della serie Dear Sister.
Le immagini vengono fisicamente tradotte dalle artiste in fotografie di personaggi storici, in materiale rielaborato, still tratti da film del passato o rielaborazioni grafiche d’immagini elettroniche.
Ma non aspettatevi nulla, poiché é proprio l’atto del percepire, più che gli oggetti della percezione, ad essere importante. La fisicità di ciò che viene esposto assurge a residuo documentario, a ricordo ed evocazione, grazie alla profonda ricerca che è stata condotta.
Siate pronti però ad accogliere questi pensieri dimenticati, questi frammenti del passato come evocazioni di ciò che lo spazio ed il tempo hanno allontanato fisicamente e che le artiste ci permettono di vedere in maniera poetica e volutamente indeterminata.
Il soggetto della ricerca di Becky Beasley si basa sulla memoria autobiografica mediata da riferimenti letterari. La sua indagine si muove in equilibrio tra scultura e fotografia come una pratica visionaria che pone in relazione oggetti fatti a mano con la rappresentazione fotografica degli stessi. Tale esercizio ha connotati principalmente onirici con marcati riferimenti al Surrealismo e Minimalismo.
Un forte interesse per la storia collettiva sia da un punto di vista personale che sociale è presente nel lavoro di Nina Beier & Marie Lund. Il punto di partenza della loro ricerca è la loro storia personale che rivela l’effimero e l’accidentale. Il loro lavoro è caratterizzato dall’attenzione per le prime performance degli anni ’70, per le loro pratiche video e scultoree. The House and the Backdoor esposto in mostra è una scatola di legno che contiene una collezione di libri che sono quelli che la madre di Nina ha trovato a casa del padre di Marie in doppia copia quando si trasferì da loro. Questo lavoro rende oggettiva l’esperienza di salvaguardare l’identità personale in una relazione. Il tempo e la storia sono un elemento fondante del loro lavoro: “…torniamo alle storie che sono state messe in disparte e che possiamo svolgere ed evocare…”.
Le sculture di materiali come la plastica, crema idratante per il corpo, cotone, gesso, pittura, uova e vaselina vengono descritte da Karla Black come: “quasi dipinti, performance o installazioni, mentre in realtà e quasi definitivamente sono delle sculture” (“almost painting, performance or installations while actually, and quite definitely, being sculpture”). Le sue sculture e i loro titoli creano un contrasto tra l’esperienza materiale ed il linguaggio nel quale la prima vince sul secondo. I suoi lavori hanno le proprie radici nella psicoanalisi e nel femminismo ma anche nell’astrazione espressionista, nell’Azionismo Viennese, nella Land Art e nelle performance femministe.
Paesaggi, oggetti, installazioni: questo è il territorio che Katinka Bock spesso pone al centro del proprio lavoro. Territorio inteso non tanto come immateriale ed indefinito, ma come spazio definito per e da una comunità umana, cosparso di costumi, simboli e storia.
I suoi progetti prendono forma da elementi poveri quali legno, carta di giornale, pietra, non per un’esigenza di necessaria sobrietà, ma per una precisa e voluta ricerca di utilizzare ciò che nel mondo è d’uso comune. Tutto questo alimentato dall’interesse dell’artista per le scienze umane, fisiche e matematiche che rendono il suo lavoro formalmente semplice e completamente privo di discorsi letterali.
Kate Davis pone l’attenzione sulle implicazioni che importanti opere d’arte del passato hanno sul processo artistico contemporaneo. Il suo lavoro ha forti connessioni, sia dal punto di vista concettuale che formale, con la ricerca di alcune tra le artiste più significative del XX secolo come Kathe Kollwitz, Faith Wildinding, o Barbara Kruger. L’artista si pone consapevolmente all’interno di questo percorso in quanto donna e artista ritraendosi spesso nelle sue opere, come nel caso delle due stampe in mostra, in un complesso gioco tra passato e presente capace di creare nuovi significati di natura poetica e politica insieme.
Kate Davis conduce lo spettatore attraverso l’osservazione di un’attività del passato a rivivere un’esperienza fisica nello spazio della galleria oggi, ponendosi delle domande sulle modalità d’appropriazione della storia e del suo significato per la propria identità.
Annette Kisling fotografa situazioni misteriose con estrema lucidità. Porte, vetrine di negozi con la serranda chiusa nascondono la loro funzione. E’ impossibile vederne l’interno, tutto è fermo, la quiete, il silenzio pervadono l’immagine. Il tempo sembra essersi arrestato. Questi luoghi sembrano legati al passato mentre in realtà sono attuali, creando così un intreccio tra ieri e oggi.
L’atmosfera risulta immateriale e intangibile come se la fotografia ricreasse un nuovo ordine permettendoci di vedere di più e capire di meno.
Lorna Macintyre presenta in mostra lavori che nascono dalla suggestione del Simbolismo: oggetti che descrivono un intreccio tra il banale e il sublime.
I suoi fragili ‘piedistalli’ non mostrano quasi nulla, ma solo dei piccoli oggetti di rame e argento assemblati con una procedura alchemica.
Attraverso le sue installazioni ed i loro titoli Lorna crea una relazione tra forme naturali e il linguaggio, in modo visionario, conducendo il visitatore in un mondo ricco di segni e forme ben distinte.
La ricerca di Rosalind Nashashibi tende ad indagare il limite esistente fra i gruppi sociali e l’invenzione dei miti moderni, volutamente velando l’esatto confine tra realtà e immaginazione.
Nel film 16 mm Eyeballing l’artista contrappone tali aspetti. Da un lato osserva scorci di New York in cui oggetti inanimati o forme architettoniche diventano familiari e s’identificano con soggetti animati, dall’altro una telecamera fissa osserva l’ingresso di un distretto di polizia di New York dove uomini in uniforme nelle sfumature della quotidianità, non rappresentano solo se stessi ma anche un simbolo e una funzione per la comunità. Tutto ciò sotto lo sguardo inanimato dell’emblema araldico del dipartimento.
Si potrebbe definire Lisa Oppenheim come un’archeologa della cultura visiva. Far riemergere ciò che è sconosciuto, sottovalutato, nascosto, costituisce per l’artista un processo che rivela un ordine di cose che va al di là del nostro senso comune. Pezzi di celluloide, film e fotografie comunicano il passato nel presente, trasformando un documento privo di significato in un documentario. L’artista ricerca il senso nascosto sotto la superficiale evidenza della storia. 100 Photographs That Changed the World nasce dalla mappatura del cielo stellato riferita a cento eventi verificatesi in tempi e luoghi diversi. Gli eventi selezionati sono in relazione con le immagini trovate nel libro Time/Life che raccoglie 100 fotografie che hanno cambiato il mondo.
Susanne M. Winterling indaga l’identità femminile intesa come miscela collettiva più che come riferimento all’individuo. Film e fotografia ritraggono il processo di crescita umano ed intellettuale delle donne nel contesto sociale in cui operano, icone del proprio tempo.
Le otto immagini in mostra si riferiscono a donne del passato con cui l’artista aspira a creare una relazione intima per poter interagire con esse e con ciò che rappresentano. La relazione a cui tende Susanne Winterling diviene un legame personale, quasi familiare da cui deriva il titolo della serie Dear Sister.
28
gennaio 2009
Don’t Expect Anything
Dal 28 gennaio al 21 marzo 2009
arte contemporanea
Location
GALLERIA FRANCESCA MININI
Milano, Via Massimiano, 25, (Milano)
Milano, Via Massimiano, 25, (Milano)
Orario di apertura
Da martedì a sabato ore 11 - 19.30
Vernissage
28 Gennaio 2009, ore 19
Autore