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Double ( Part II )
Otto artisti di provenienza e cultura diverse si raccolgono in un corale raffronto, in una meditazione collettiva benché sempre condotta individualmente e con propri mezzi espressivi.
Comunicato stampa
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Compositi ed eterogenei sono i modi di intendere la duplicità. Attinente alla sfera semantica di svariate discipline, dalla matematica alla filosofia, dalla letteratura all’arte, il doppio ha coinvolto l’acribia di decine di pensatori, producendo risultati originali e creativi. Da Pontormo a Magritte, da Delvaux a Paolini, da Arcimboldi a Escher, fino a Warhol (per restare nelle arti figurative): molti sono gli artisti sedotti dal fascino del molteplice, dall’ambivalenza visiva o concettuale. Baluardo o chimera, protezione o inganno, specularità o contrapposizione, simmetria o complementarietà, il concetto del doppio racchiude in sé tematiche antipodali, trovando nella sua innata ambiguità l’origine di ogni sua fortuna iconografica.
In un allestimento condiviso, otto artisti provano a raccontarlo, offrendone interpretazioni eteroclite, spesso inedite. L’incipit della mostra è segnato da Massimiliano Manieri che, nella serata d’inaugurazione, presenta la “Panic room”, perspicace attualizzazione della nota performance di Josef Beuys “I like America and America likes me” del 1974. Il performer salentino inscena un’aspra critica agli odierni sistemi informativi, volti ad innescare il panico, il più delle volte immotivatamente. Scevro da riferimenti sciamanici - ma non da intenti catartici - l’artista si offre al pubblico chiuso in un ambiente asettico, in compagnia di un gatto (sostituto del coyote beuysiano); polemizza con la società odierna costantemente in preda a psicosi generate ad hoc e foriere di guadagni politici ed economici per sparute élite: paradossalmente la paura di molti costruisce la fortuna di pochi! L’artista, armato di tutto punto, diviene archetipo di un inutile difensore, fintamente eroico, posto a fronteggiare un falso-male rappresentato dal gatto. Simbolo demoniaco, caro a certa cultura esoterica, il felino è, in verità, animale mansueto, emblema d’innocenza caricato di aspetti nefasti. Parte integrante dell’installazione è il sottofondo musicale, “Firestarter” dei Prodigy, che con sonorità martellante rinvia all’ossessiva ripetitività dell’informazione, trauma mediatico volto ad avvalorare la tesi di pochi. Nella performance di Manieri il doppio risiede nella ricerca di molteplici opposizioni concettuali, dagli atavici confronti bene-male e uomo-natura, alla contrapposizione contemporanea tra soggetto e informazione, raziocinio individuale e persuasione mediatica.
Alla pura visività afferisce, invece, l’originale interpretazione di Jolanda Spagno, che da tempo ha eletto il doppio a tema cardine della sua ricerca. Legata ad una figurazione esplicita, estetizzante ed allucinata, memore di certo surrealismo, l’artista mantiene la sua ricerca in un equilibrio perfetto tra bellezza formale e approccio criptico della realtà. Dal silenzio del supporto emerge l’immagine, sempre ambigua, più ritrovata che creata. Condotta in bianco-nero, con l’utilizzo della sola grafite, la maniera dell’artista barese è segnata soprattutto dall’impiego della lente olf, che, anteposta alla tela disegnata, ne duplica le immagini di pierfrancescana perfezione. Compromettendo la naturale percezione, la lente determina una visione affascinante negli esiti e sintetica nei mezzi. Effigi e alberi uguali a se stessi affiorano delicatamente per condurci in una dimensione sospesa, in un’alterità diacronica e sincronica. Bandita ogni nota cromatica, l’artista delinea volti pensierosi e fitti boschi, mettendo in guardia lo spettatore dall’ambiguità esistenziale, ma predisponendolo anche alla meditazione e all’epifania.
Caduta ogni elucubrazione mentale il doppio si materializza nell’improvvisato duo Paolo Loschi-Fabrizio Fontana. Due artisti differenti per formazione e provenienza ma complementari nelle ricerche, entrambi animati da un fare sardonico e demistificatorio. Abituati solitamente ad agire in autonomia, per una breve stagione hanno operato in maniera congiunta, intervenendo l’uno sui lavori dell’altro. Per quindici giorni Fontana e Loschi hanno lavorato in sinergia nello studio del primo, a San Pietro Vernotico, a volte intervenendo simultaneamente sulla medesima opera, altre contaminando i rispettivi lavori in step successivi. Risultati di un incondizionato rapporto dialogico, le opere sacrificano l’autorialità individuale in favore di una creazione condivisa e partecipata. Nelle iconografie e nei procedimenti espressivi appare evidente la finalità ludica. Segni netti, colori aggressivi e inserti a collage imbastiscono rudi figure, surreali e memori di certo graffitismo; colate di resina, scritte e simboli applicati per aspersione ne complicano la visione, rivelando i meccanismi di un procedimento autenticamente osmotico. Giocando a raccontare eventi emotivi e visivi attraverso un uso libero del colore e della composizione, il duo riallaccia i fili con la vocazione narrativa dell’arte, sospendendola però in una dimensione ironicamente rivisitata della realtà.
Il dualismo abilità-disabilità è, invece, alla base dei lavori di Nofeiss, pseudonimo artistico di per sé significativo, volto all’annullamento dell’identità (l’artista preferisce operare nell’anonimato) ma non della soggettività. Nel suo lavoro l’operare artistico coincide con il segno, che si fa componente predominante di un linguaggio istintivo e gestuale. Il tratto è libero di espandersi su lunghi rotoli di carta, superfici distese sul pavimento, con un procedimento simile a quello impiegato da maestri del genere, da Pollock al dimenticato Pinot Gallizio. Oltre che per l’energia segnica – carattere distintivo di ogni sincera sperimentazione informale – i lavori del giovane artista salentino si connotano per un felice equilibrio cromatico, raggiunto con non più di due tonalità, accuratamente scelte in base a precisi stati d’animo o necessità espressive. Il colore si stende e si espande in perfetta sintonia con l’avvolgente spazio bianco che lo circonda: nessun horror vacui, solo un profondo rispetto per la superficie, che anche bianca sa essere “piena”. L’artista si libera da ogni implicazione con il soggetto per dedicarsi all’espressione pura, alle ricerche sugli accostamenti e sulle variazioni cromatiche. Nel suo lavoro il gesto vigoroso è impresso su un supporto vergine, facendosi testimone di una sensibilità incorrotta e di un autentico slancio vitale.
Il doppio si fa multiplo nelle fotografie di Massimo Pastore. Impegnato nello scandaglio individuale, l’artista si concentra sull’uomo e sulle sue molteplici espressioni e movenze. Scelto il suo corpo come medium espressivo, lo ritrae in decine di scatti, poi assemblati in post-produzione con impeccabile senso compositivo. Gli ambienti, percorsi in ogni direzione, appaiono sospesi nel tempo, divenendo scenari ideali di un’indagine intrapsichica: una dimensione metafisica esaltata dalla scelta del colore e dalla purezza formale degli oggetti, volutamente retrò. Tagli centrali o accidentali si parcellizzano nei plurimi sguardi dell’unico protagonista. Su questi ultimi si concentra l’attenzione indagatoria dello spettatore, che nella moltiplicata figura è indotto a rivedersi, isolando angosce e aspirazioni, paure e speranze. La figura umana, vestita o denudata, riprodotta eppur isolata nel rapporto tra postura fisica e alterazione psicologica, è esplorata in ogni sua attitudine sociale, dalla solitudine al ricercato dialogo. Ne emerge un’indagine a largo spettro sul proprio io, inteso però in senso collettivo, funzionale al dialogo tra luoghi distanti ed eterogenei.
Al mezzo fotografico si rivolge anche Sara De Carlo che, affiancando sfocature e parti definite, trasferisce il concetto del doppio sul piano della percezione pura. Figure e paesaggi perdono progressivamente definizione, compromettendo la visione del dato fenomenico e spingendo l’osservatore ad un tentativo di messa a fuoco dal quale emerge sempre una realtà altra, soggettiva e per questo diversa da quella colta al momento dello scatto. Con spirito impressionista, De Carlo tenta di catturare la continua mutevolezza della realtà, bloccando istanti di vita in impreviste combinazioni di luce e colore. Non le interessano le ricerche estetiche o le trovate pubblicitarie: per sua stessa ammissione, ciò che la colpisce è sempre degno di essere ritratto. Nessun indugio chiaroscurale turba la limpidezza delle sue immagini, che appaiono imbevute di luce, esaltate nelle componenti cromatiche e studiate dal punto di vista compositivo.
Riflettendo sui concetti di alterità e sacrificio, Antonio Strafella propone una propria visione del doppio, trovato nel confronto tra sacro e profano, santità e fantascienza, antiche iconografie e prototipi contemporanei. Manipolando la consueta categorizzazione del divino, l’artista ha creato un immaginario dinamico, aperto alla soggettività dello spettatore. I suoi scatti, intensamente chiaroscurati, a colori o in bianco-nero, delimitati da fondi compatti e neutri, sono abitati da ironiche figure, ambigue e scintillanti, sottratte all’esperienza quotidiana e ricomposte per ricercate analogie. Ciascuna di esse è corredata di un QR code, chiave d’accesso a una dimensione sinestetica, in cui all’immagine fotografica si affiancano un video del supereroe e un riferimento audio all’icona religiosa. Santi e supereroi sono assimilati e confusi, fino ad apparire facce della stessa medaglia: i primi esseri reali assunti alla finzione collettiva, i secondi finzione divenuta realtà. La religiosità si trasforma così in un terreno elastico, prodotto e animato da un nomadismo culturale in cui suggestioni antipodali si sommano e si compendiano. Agendo all’interno di una mitomania mediatica (per secoli la Chiesa è stato il più convincente dei mezzi di comunicazione), l’artista stabilisce impreviste interazioni tra elementi simbolici ed evocativi, spingendo il pubblico a riconsiderare lo statuto del sacro.
Otto artisti di provenienza e cultura diverse si raccolgono in un corale raffronto, in una meditazione collettiva benché sempre condotta individualmente e con propri mezzi espressivi. Attingendo ad un cross-over di esperienze, la mostra offre una visione sincretica del doppio, indagato ben oltre il luogo comune e l’identità statutaria. Una rassegna polimorfica nelle tecniche e nei risultati, capace di sondare, fuor da stereotipi e facili interpretazioni, un tema affascinante e complesso, certamente non nuovo in sede espositiva ma quasi sempre ricondotto alla mera duplicazione di figure e oggetti. Quello che si propone a Galatina è dunque un modo nuovo, di fatto unico, di pensare al doppio.
Carmelo Cipriani
In un allestimento condiviso, otto artisti provano a raccontarlo, offrendone interpretazioni eteroclite, spesso inedite. L’incipit della mostra è segnato da Massimiliano Manieri che, nella serata d’inaugurazione, presenta la “Panic room”, perspicace attualizzazione della nota performance di Josef Beuys “I like America and America likes me” del 1974. Il performer salentino inscena un’aspra critica agli odierni sistemi informativi, volti ad innescare il panico, il più delle volte immotivatamente. Scevro da riferimenti sciamanici - ma non da intenti catartici - l’artista si offre al pubblico chiuso in un ambiente asettico, in compagnia di un gatto (sostituto del coyote beuysiano); polemizza con la società odierna costantemente in preda a psicosi generate ad hoc e foriere di guadagni politici ed economici per sparute élite: paradossalmente la paura di molti costruisce la fortuna di pochi! L’artista, armato di tutto punto, diviene archetipo di un inutile difensore, fintamente eroico, posto a fronteggiare un falso-male rappresentato dal gatto. Simbolo demoniaco, caro a certa cultura esoterica, il felino è, in verità, animale mansueto, emblema d’innocenza caricato di aspetti nefasti. Parte integrante dell’installazione è il sottofondo musicale, “Firestarter” dei Prodigy, che con sonorità martellante rinvia all’ossessiva ripetitività dell’informazione, trauma mediatico volto ad avvalorare la tesi di pochi. Nella performance di Manieri il doppio risiede nella ricerca di molteplici opposizioni concettuali, dagli atavici confronti bene-male e uomo-natura, alla contrapposizione contemporanea tra soggetto e informazione, raziocinio individuale e persuasione mediatica.
Alla pura visività afferisce, invece, l’originale interpretazione di Jolanda Spagno, che da tempo ha eletto il doppio a tema cardine della sua ricerca. Legata ad una figurazione esplicita, estetizzante ed allucinata, memore di certo surrealismo, l’artista mantiene la sua ricerca in un equilibrio perfetto tra bellezza formale e approccio criptico della realtà. Dal silenzio del supporto emerge l’immagine, sempre ambigua, più ritrovata che creata. Condotta in bianco-nero, con l’utilizzo della sola grafite, la maniera dell’artista barese è segnata soprattutto dall’impiego della lente olf, che, anteposta alla tela disegnata, ne duplica le immagini di pierfrancescana perfezione. Compromettendo la naturale percezione, la lente determina una visione affascinante negli esiti e sintetica nei mezzi. Effigi e alberi uguali a se stessi affiorano delicatamente per condurci in una dimensione sospesa, in un’alterità diacronica e sincronica. Bandita ogni nota cromatica, l’artista delinea volti pensierosi e fitti boschi, mettendo in guardia lo spettatore dall’ambiguità esistenziale, ma predisponendolo anche alla meditazione e all’epifania.
Caduta ogni elucubrazione mentale il doppio si materializza nell’improvvisato duo Paolo Loschi-Fabrizio Fontana. Due artisti differenti per formazione e provenienza ma complementari nelle ricerche, entrambi animati da un fare sardonico e demistificatorio. Abituati solitamente ad agire in autonomia, per una breve stagione hanno operato in maniera congiunta, intervenendo l’uno sui lavori dell’altro. Per quindici giorni Fontana e Loschi hanno lavorato in sinergia nello studio del primo, a San Pietro Vernotico, a volte intervenendo simultaneamente sulla medesima opera, altre contaminando i rispettivi lavori in step successivi. Risultati di un incondizionato rapporto dialogico, le opere sacrificano l’autorialità individuale in favore di una creazione condivisa e partecipata. Nelle iconografie e nei procedimenti espressivi appare evidente la finalità ludica. Segni netti, colori aggressivi e inserti a collage imbastiscono rudi figure, surreali e memori di certo graffitismo; colate di resina, scritte e simboli applicati per aspersione ne complicano la visione, rivelando i meccanismi di un procedimento autenticamente osmotico. Giocando a raccontare eventi emotivi e visivi attraverso un uso libero del colore e della composizione, il duo riallaccia i fili con la vocazione narrativa dell’arte, sospendendola però in una dimensione ironicamente rivisitata della realtà.
Il dualismo abilità-disabilità è, invece, alla base dei lavori di Nofeiss, pseudonimo artistico di per sé significativo, volto all’annullamento dell’identità (l’artista preferisce operare nell’anonimato) ma non della soggettività. Nel suo lavoro l’operare artistico coincide con il segno, che si fa componente predominante di un linguaggio istintivo e gestuale. Il tratto è libero di espandersi su lunghi rotoli di carta, superfici distese sul pavimento, con un procedimento simile a quello impiegato da maestri del genere, da Pollock al dimenticato Pinot Gallizio. Oltre che per l’energia segnica – carattere distintivo di ogni sincera sperimentazione informale – i lavori del giovane artista salentino si connotano per un felice equilibrio cromatico, raggiunto con non più di due tonalità, accuratamente scelte in base a precisi stati d’animo o necessità espressive. Il colore si stende e si espande in perfetta sintonia con l’avvolgente spazio bianco che lo circonda: nessun horror vacui, solo un profondo rispetto per la superficie, che anche bianca sa essere “piena”. L’artista si libera da ogni implicazione con il soggetto per dedicarsi all’espressione pura, alle ricerche sugli accostamenti e sulle variazioni cromatiche. Nel suo lavoro il gesto vigoroso è impresso su un supporto vergine, facendosi testimone di una sensibilità incorrotta e di un autentico slancio vitale.
Il doppio si fa multiplo nelle fotografie di Massimo Pastore. Impegnato nello scandaglio individuale, l’artista si concentra sull’uomo e sulle sue molteplici espressioni e movenze. Scelto il suo corpo come medium espressivo, lo ritrae in decine di scatti, poi assemblati in post-produzione con impeccabile senso compositivo. Gli ambienti, percorsi in ogni direzione, appaiono sospesi nel tempo, divenendo scenari ideali di un’indagine intrapsichica: una dimensione metafisica esaltata dalla scelta del colore e dalla purezza formale degli oggetti, volutamente retrò. Tagli centrali o accidentali si parcellizzano nei plurimi sguardi dell’unico protagonista. Su questi ultimi si concentra l’attenzione indagatoria dello spettatore, che nella moltiplicata figura è indotto a rivedersi, isolando angosce e aspirazioni, paure e speranze. La figura umana, vestita o denudata, riprodotta eppur isolata nel rapporto tra postura fisica e alterazione psicologica, è esplorata in ogni sua attitudine sociale, dalla solitudine al ricercato dialogo. Ne emerge un’indagine a largo spettro sul proprio io, inteso però in senso collettivo, funzionale al dialogo tra luoghi distanti ed eterogenei.
Al mezzo fotografico si rivolge anche Sara De Carlo che, affiancando sfocature e parti definite, trasferisce il concetto del doppio sul piano della percezione pura. Figure e paesaggi perdono progressivamente definizione, compromettendo la visione del dato fenomenico e spingendo l’osservatore ad un tentativo di messa a fuoco dal quale emerge sempre una realtà altra, soggettiva e per questo diversa da quella colta al momento dello scatto. Con spirito impressionista, De Carlo tenta di catturare la continua mutevolezza della realtà, bloccando istanti di vita in impreviste combinazioni di luce e colore. Non le interessano le ricerche estetiche o le trovate pubblicitarie: per sua stessa ammissione, ciò che la colpisce è sempre degno di essere ritratto. Nessun indugio chiaroscurale turba la limpidezza delle sue immagini, che appaiono imbevute di luce, esaltate nelle componenti cromatiche e studiate dal punto di vista compositivo.
Riflettendo sui concetti di alterità e sacrificio, Antonio Strafella propone una propria visione del doppio, trovato nel confronto tra sacro e profano, santità e fantascienza, antiche iconografie e prototipi contemporanei. Manipolando la consueta categorizzazione del divino, l’artista ha creato un immaginario dinamico, aperto alla soggettività dello spettatore. I suoi scatti, intensamente chiaroscurati, a colori o in bianco-nero, delimitati da fondi compatti e neutri, sono abitati da ironiche figure, ambigue e scintillanti, sottratte all’esperienza quotidiana e ricomposte per ricercate analogie. Ciascuna di esse è corredata di un QR code, chiave d’accesso a una dimensione sinestetica, in cui all’immagine fotografica si affiancano un video del supereroe e un riferimento audio all’icona religiosa. Santi e supereroi sono assimilati e confusi, fino ad apparire facce della stessa medaglia: i primi esseri reali assunti alla finzione collettiva, i secondi finzione divenuta realtà. La religiosità si trasforma così in un terreno elastico, prodotto e animato da un nomadismo culturale in cui suggestioni antipodali si sommano e si compendiano. Agendo all’interno di una mitomania mediatica (per secoli la Chiesa è stato il più convincente dei mezzi di comunicazione), l’artista stabilisce impreviste interazioni tra elementi simbolici ed evocativi, spingendo il pubblico a riconsiderare lo statuto del sacro.
Otto artisti di provenienza e cultura diverse si raccolgono in un corale raffronto, in una meditazione collettiva benché sempre condotta individualmente e con propri mezzi espressivi. Attingendo ad un cross-over di esperienze, la mostra offre una visione sincretica del doppio, indagato ben oltre il luogo comune e l’identità statutaria. Una rassegna polimorfica nelle tecniche e nei risultati, capace di sondare, fuor da stereotipi e facili interpretazioni, un tema affascinante e complesso, certamente non nuovo in sede espositiva ma quasi sempre ricondotto alla mera duplicazione di figure e oggetti. Quello che si propone a Galatina è dunque un modo nuovo, di fatto unico, di pensare al doppio.
Carmelo Cipriani
19
dicembre 2014
Double ( Part II )
Dal 19 dicembre 2014 al 17 gennaio 2015
arte contemporanea
performance - happening
performance - happening
Location
GIGI RIGLIACO GALLERY
Galatina, Via Adige, 32, (Lecce)
Galatina, Via Adige, 32, (Lecce)
Orario di apertura
17-20
Vernissage
19 Dicembre 2014, ore 19
Autore
Curatore