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Eduard Habicher – Eppur si Muove
Per l’occasione l’artista esporrà i suoi ultimi lavori in acciaio inox e vetro di Murano dove la pesantezza dell’acciaio entra in contraddizione con la leggerezza inaspettata delle singole sculture.
Comunicato stampa
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Eduard Habicher. Sentirsi spazio
Sarebbe interessante individuare una storia di quella scultura che non si limita a essere puro volume ma che allude esplicitamente al vuoto. Una scultura le cui parti, sfiorandosi, portano l’attenzione sullo spazio assente che separa i propri elementi, e non necessariamente sui volumi oggetto di vera e propria modellazione. In questa storia troverebbero posto, a titolo d’esempio, lavori di Alberto Giacometti come Sfera sospesa (1931), dove le forme maschili e femminili, con un impulso chiaramente erotico, si accarezzano al limite dal toccarsi; oppure come Mani che reggono il vuoto (L’oggetto invisibile) (1934), in cui tutta una figura aliena con le mani leggermente discoste viene composta per il fine principale di rendere visibile il nulla che sta al suo centro, vero soggetto dell’opera.
All’interno di questo percorso che conduce al lavoro di Eduard Habicher e che si nutre tanto dello spazio infinito di Lucio Fontana, quanto dell’amore per il silenzio e la pausa pieni di possibilità di John Cage, la storia della scultura passa anche per la riflessione astratta di Eduardo Chillida che non tarda a riconoscere le ragioni del vuoto all’interno della composizione plastica contemporanea.
Come il volume sonoro nella musica, che riempie di tensione il silenzio, così in scultura il volume non sarebbe possibile senza il vuoto e lo spazio. In esso la vibrazione della forma procede oltre le sue delimitazioni ed entrambi, spazio e volume, generano insieme, sulla base delle strutture possibili della forma, la loro figura definitiva[1].
In Habicher tale consapevolezza maturata in autonomia porta a un approccio scultoreo per cui la forma fisica appare filiforme e rarefatta, spesso diffusa nello spazio espositivo o nel mondo. Una plastica in qualche maniera “esplosa” – nel senso progettuale del termine – per cui, oltre a vedere chiaramente le forme, è possibile anche valutarne e individuarne direttrici invisibili che le connettono come in un diagramma, notando amplificazioni direzionali oltre i limiti propri del lavoro. È una scultura che passeggia, staccandosi dal muro, allontanandosi dal luogo deputato alla messa in mostra, provando anche, alcune volte, spettacolari voli pindarici verso l’alto che contrastano la stessa forza di gravità. Afferma infatti Habicher: “Il vuoto, l'aria, l'assenza giocano un ruolo importante nella mia ricerca. L'opera crea uno spazio intorno a sé che la assorbe, che delimita ma non chiude”[2]. I confini fisici del lavoro vengono infranti, favorendo lo sviluppo di linearità e forme virtuali oltre la materialità del blocco.
In questa mostra, grazie alla selezione di una parte caratteristica della produzione dell’autore, è possibile approfondire la sua ricerca legata alla dinamica di rapporto e contrasto che si viene a creare tra l’acciaio inox e il vetro di Murano. Da un lato, il metallo individua una polarità più opaca, industriale e umana del lavoro artistico, dall’altro, il vetro porta con sé suggestioni maggiormente naturalistiche con le sue trasparenze e voluttuosità. Vetro di recupero che è scelto tra gli scarti di produzione delle manifatture muranesi e successivamente ri-lavorato per declinare in altra maniera quella poetica del salvataggio e della protezione che si ripropone con costante sincerità nelle forme dell’artista. Nel rapporto quasi amorevole che viene a crearsi tra i materiali utilizzati – un amplesso che tiene unite passione e conoscenza – è già evidente quello slancio umanistico e intellettuale più volte sottolineato da Habicher stesso.
Legame, collegamento, connessione sono parole che si riferiscono a sculture dove elementi metallici abbracciano blocchi di vetro, pietre o elementi di acciaio. Le forme e le realtà compenetrandosi si chiariscono, si illuminano a vicenda. Girare intorno a un nucleo, a un problema, valutandolo e illuminandolo da tutti i lati corrisponde ad un avvicinamento, a una visione più completa e profonda di un fenomeno, non per postulare una verità assoluta ma per tentare di com-prendere[3].
La comprensione ha quindi certamente un significato formale, nei materiali che si cingono dando luogo a sempre nuove sintesi di opposti, ma ne ha anche uno poetico-affettivo, nel portato conoscitivo, chiarificatore e anche amorevole che viene individuato in queste procedure.
In tutto ciò si vede come l’uomo sia sempre al centro delle problematiche di Habicher, continuamente chiamato in causa come presenza necessaria a quella consapevolezza spaziale che le sue opere, disperdendosi nelle tre dimensioni, muovendosi, scattando in modo eccentrico, cercano sempre di stimolare. Così anche il titolo scelto per questa mostra, Eppur si muove, è sì una descrizione spontanea e ironica della novità scultorea qui presentata, quella dei pendoli, ma non evita neppure il riferimento diretto alla celebre frase con cui Galileo Galilei, secondo leggenda, avrebbe riaffermato il primato della ragione e dell’uomo in una qualsiasi onesta e veritiera ricerca di vita.
In queste sculture mobili, esito recente della ricerca di Habicher, il discorso passa attraverso un nuovo elemento di realtà, quella del moto e dell’oscillazione, in precedenza solo secondariamente approfondito nella naturale elasticità che possiedono tutte le sue creazioni. Se nel lavoro dello scultore è costante il rifiuto netto per ogni forma di illusione o trucco visivo, rinuncia che consente di far nascere poesia e immaginazione da una decisa concretezza, qui anche la temporalità è reale, riferendosi a un tipo di misurazione dai caratteri scientifici.
L’utilizzo di perni e l’impiego di volumi flottanti sulla parete è, in primo luogo, sulla scia di una già rodata confidenza tattile, un invito rivolto al pubblico a toccare, un riferimento pensato ancora una volta all’uomo che fisicamente attiva il lavoro, entra a farne parte in maniera immediata secondo un appello relazionale dai risvolti anche ludici. Nell’oscillazione, inoltre, tutte quelle direttrici, i vuoti e i volumi virtuali di cui si parlava prima, a cui gli elementi solidi delle sculture di Habicher alludono costantemente, trovano una propria realtà ottica, emergendo dall’invisibilità del possibile nelle traiettorie regolari di un percorso ripetutamente attraversato. Muovendosi periodicamente, le barre affusolate rendono visibile un’aura sculturale che si amplifica dal volume vero e proprio come moto arcuato e direttrice centrifuga.
Ma ciò che il movimento ritmico di queste sculture pone in campo con più forza è la coesistenza e l’interferire di due temporalità di diversa natura. Se da un lato la buona opera d’arte determina sempre una dilatazione temporale, legata al concentrato di pensiero e lavoro che è in essa racchiuso come anche alla lunga percezione a cui è chiamato l’osservatore (un tempo che si ferma e diventa denso), dall’altro la regolarità oscillatoria del pendolo richiama continuamente al normale e misurabile scorrere della vita. Guardando queste sculture, tempo artistico infinito e prosaico tempo mondano si trovano uniti, continuano a scollarsi e rincorrersi nella visione del fruitore, ricordando il carattere contemporaneamente concreto e sognante, accelerato e dilatato, del tempo e della forma di queste realizzazioni.
Habicher declina così in una nuova maniera il suo costante attacco al “monumento” inteso come volume che sovrasta, distaccato dalla sfera umana, da osservare con un approccio di sottomissione e rispetto. La scultura, senza temere di essere rudemente sofisticata ed elegante, entra nello spazio e nel tempo delle persone, si relaziona a loro e si lascia toccare. Anche il white cube – lo spazio espositivo – subisce un ridimensionamento nella sua ambizione di regolarità, pulizia e sacralità. La scultura gioca al suo interno, danza, si distacca inquieta, vuole uscire dalle costrizioni dogmatiche per entrare nel mondo, oltre i confini culturali e di linguaggio. Staccarsi dal muro e dalla terra: si tratta di una sfida che, ancora una volta, non ha soltanto risvolti formali ma diventa un’indicazione di pensiero utile ad abbattere schemi e reinventare paradigmi all’interno dell’ordinaria esperienza di vita di ciascuno.
Nella scultura di Habicher c’è spazio per la caduta, il salvataggio all’ultimo momento, il conforto, la spinta ascensionale, energetica, la fuga nel vuoto. Per chi guarda è un invito a sperimentare, a muoversi intorno, a essere al centro, a sentire lo spazio, a sentirsi spazio.
Gabriele Salvaterra
Note:
1. Eduardo Chillida, Lo spazio e il limite. Scritti e conversazioni sull’arte, Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2010, pp. 22-23.
2. Gabriele Salvaterra, “Open Studios. Eduard Habicher. Poesia e rigore della materia”, in Espoarte, n. 91, trimestre n. 1, 2016, pp. 58-61.
3. Ibidem.
Sarebbe interessante individuare una storia di quella scultura che non si limita a essere puro volume ma che allude esplicitamente al vuoto. Una scultura le cui parti, sfiorandosi, portano l’attenzione sullo spazio assente che separa i propri elementi, e non necessariamente sui volumi oggetto di vera e propria modellazione. In questa storia troverebbero posto, a titolo d’esempio, lavori di Alberto Giacometti come Sfera sospesa (1931), dove le forme maschili e femminili, con un impulso chiaramente erotico, si accarezzano al limite dal toccarsi; oppure come Mani che reggono il vuoto (L’oggetto invisibile) (1934), in cui tutta una figura aliena con le mani leggermente discoste viene composta per il fine principale di rendere visibile il nulla che sta al suo centro, vero soggetto dell’opera.
All’interno di questo percorso che conduce al lavoro di Eduard Habicher e che si nutre tanto dello spazio infinito di Lucio Fontana, quanto dell’amore per il silenzio e la pausa pieni di possibilità di John Cage, la storia della scultura passa anche per la riflessione astratta di Eduardo Chillida che non tarda a riconoscere le ragioni del vuoto all’interno della composizione plastica contemporanea.
Come il volume sonoro nella musica, che riempie di tensione il silenzio, così in scultura il volume non sarebbe possibile senza il vuoto e lo spazio. In esso la vibrazione della forma procede oltre le sue delimitazioni ed entrambi, spazio e volume, generano insieme, sulla base delle strutture possibili della forma, la loro figura definitiva[1].
In Habicher tale consapevolezza maturata in autonomia porta a un approccio scultoreo per cui la forma fisica appare filiforme e rarefatta, spesso diffusa nello spazio espositivo o nel mondo. Una plastica in qualche maniera “esplosa” – nel senso progettuale del termine – per cui, oltre a vedere chiaramente le forme, è possibile anche valutarne e individuarne direttrici invisibili che le connettono come in un diagramma, notando amplificazioni direzionali oltre i limiti propri del lavoro. È una scultura che passeggia, staccandosi dal muro, allontanandosi dal luogo deputato alla messa in mostra, provando anche, alcune volte, spettacolari voli pindarici verso l’alto che contrastano la stessa forza di gravità. Afferma infatti Habicher: “Il vuoto, l'aria, l'assenza giocano un ruolo importante nella mia ricerca. L'opera crea uno spazio intorno a sé che la assorbe, che delimita ma non chiude”[2]. I confini fisici del lavoro vengono infranti, favorendo lo sviluppo di linearità e forme virtuali oltre la materialità del blocco.
In questa mostra, grazie alla selezione di una parte caratteristica della produzione dell’autore, è possibile approfondire la sua ricerca legata alla dinamica di rapporto e contrasto che si viene a creare tra l’acciaio inox e il vetro di Murano. Da un lato, il metallo individua una polarità più opaca, industriale e umana del lavoro artistico, dall’altro, il vetro porta con sé suggestioni maggiormente naturalistiche con le sue trasparenze e voluttuosità. Vetro di recupero che è scelto tra gli scarti di produzione delle manifatture muranesi e successivamente ri-lavorato per declinare in altra maniera quella poetica del salvataggio e della protezione che si ripropone con costante sincerità nelle forme dell’artista. Nel rapporto quasi amorevole che viene a crearsi tra i materiali utilizzati – un amplesso che tiene unite passione e conoscenza – è già evidente quello slancio umanistico e intellettuale più volte sottolineato da Habicher stesso.
Legame, collegamento, connessione sono parole che si riferiscono a sculture dove elementi metallici abbracciano blocchi di vetro, pietre o elementi di acciaio. Le forme e le realtà compenetrandosi si chiariscono, si illuminano a vicenda. Girare intorno a un nucleo, a un problema, valutandolo e illuminandolo da tutti i lati corrisponde ad un avvicinamento, a una visione più completa e profonda di un fenomeno, non per postulare una verità assoluta ma per tentare di com-prendere[3].
La comprensione ha quindi certamente un significato formale, nei materiali che si cingono dando luogo a sempre nuove sintesi di opposti, ma ne ha anche uno poetico-affettivo, nel portato conoscitivo, chiarificatore e anche amorevole che viene individuato in queste procedure.
In tutto ciò si vede come l’uomo sia sempre al centro delle problematiche di Habicher, continuamente chiamato in causa come presenza necessaria a quella consapevolezza spaziale che le sue opere, disperdendosi nelle tre dimensioni, muovendosi, scattando in modo eccentrico, cercano sempre di stimolare. Così anche il titolo scelto per questa mostra, Eppur si muove, è sì una descrizione spontanea e ironica della novità scultorea qui presentata, quella dei pendoli, ma non evita neppure il riferimento diretto alla celebre frase con cui Galileo Galilei, secondo leggenda, avrebbe riaffermato il primato della ragione e dell’uomo in una qualsiasi onesta e veritiera ricerca di vita.
In queste sculture mobili, esito recente della ricerca di Habicher, il discorso passa attraverso un nuovo elemento di realtà, quella del moto e dell’oscillazione, in precedenza solo secondariamente approfondito nella naturale elasticità che possiedono tutte le sue creazioni. Se nel lavoro dello scultore è costante il rifiuto netto per ogni forma di illusione o trucco visivo, rinuncia che consente di far nascere poesia e immaginazione da una decisa concretezza, qui anche la temporalità è reale, riferendosi a un tipo di misurazione dai caratteri scientifici.
L’utilizzo di perni e l’impiego di volumi flottanti sulla parete è, in primo luogo, sulla scia di una già rodata confidenza tattile, un invito rivolto al pubblico a toccare, un riferimento pensato ancora una volta all’uomo che fisicamente attiva il lavoro, entra a farne parte in maniera immediata secondo un appello relazionale dai risvolti anche ludici. Nell’oscillazione, inoltre, tutte quelle direttrici, i vuoti e i volumi virtuali di cui si parlava prima, a cui gli elementi solidi delle sculture di Habicher alludono costantemente, trovano una propria realtà ottica, emergendo dall’invisibilità del possibile nelle traiettorie regolari di un percorso ripetutamente attraversato. Muovendosi periodicamente, le barre affusolate rendono visibile un’aura sculturale che si amplifica dal volume vero e proprio come moto arcuato e direttrice centrifuga.
Ma ciò che il movimento ritmico di queste sculture pone in campo con più forza è la coesistenza e l’interferire di due temporalità di diversa natura. Se da un lato la buona opera d’arte determina sempre una dilatazione temporale, legata al concentrato di pensiero e lavoro che è in essa racchiuso come anche alla lunga percezione a cui è chiamato l’osservatore (un tempo che si ferma e diventa denso), dall’altro la regolarità oscillatoria del pendolo richiama continuamente al normale e misurabile scorrere della vita. Guardando queste sculture, tempo artistico infinito e prosaico tempo mondano si trovano uniti, continuano a scollarsi e rincorrersi nella visione del fruitore, ricordando il carattere contemporaneamente concreto e sognante, accelerato e dilatato, del tempo e della forma di queste realizzazioni.
Habicher declina così in una nuova maniera il suo costante attacco al “monumento” inteso come volume che sovrasta, distaccato dalla sfera umana, da osservare con un approccio di sottomissione e rispetto. La scultura, senza temere di essere rudemente sofisticata ed elegante, entra nello spazio e nel tempo delle persone, si relaziona a loro e si lascia toccare. Anche il white cube – lo spazio espositivo – subisce un ridimensionamento nella sua ambizione di regolarità, pulizia e sacralità. La scultura gioca al suo interno, danza, si distacca inquieta, vuole uscire dalle costrizioni dogmatiche per entrare nel mondo, oltre i confini culturali e di linguaggio. Staccarsi dal muro e dalla terra: si tratta di una sfida che, ancora una volta, non ha soltanto risvolti formali ma diventa un’indicazione di pensiero utile ad abbattere schemi e reinventare paradigmi all’interno dell’ordinaria esperienza di vita di ciascuno.
Nella scultura di Habicher c’è spazio per la caduta, il salvataggio all’ultimo momento, il conforto, la spinta ascensionale, energetica, la fuga nel vuoto. Per chi guarda è un invito a sperimentare, a muoversi intorno, a essere al centro, a sentire lo spazio, a sentirsi spazio.
Gabriele Salvaterra
Note:
1. Eduardo Chillida, Lo spazio e il limite. Scritti e conversazioni sull’arte, Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2010, pp. 22-23.
2. Gabriele Salvaterra, “Open Studios. Eduard Habicher. Poesia e rigore della materia”, in Espoarte, n. 91, trimestre n. 1, 2016, pp. 58-61.
3. Ibidem.
02
febbraio 2019
Eduard Habicher – Eppur si Muove
Dal 02 febbraio al 27 aprile 2019
arte contemporanea
Location
GALLERIA STUDIO G7
Bologna, Via Val D'aposa, 4a, (Bologna)
Bologna, Via Val D'aposa, 4a, (Bologna)
Orario di apertura
da martedì a sabato 15.30 - 19.30
Vernissage
2 Febbraio 2019, h 19,30
Autore
Curatore