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Elio Ciol – Il fascino del vero
Dal 3 Aprile al 6 Giugno negli spazi espositivi della nuova sede della Provincia di Pordenone, una grande personale celebra i 75 anni del fotografo friulano. A Casarsa una serie di installazioni urbane con i suoi paesaggi e un convegno internazionale dedicato al collezionismo fotografico.
Comunicato stampa
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Pordenone ospiterà dal 3 aprile al 6 giugno la mostra “Il fascino del vero”, che racchiude le opere della stagione creativa più recente di Elio Ciol. La mostra, organizzata dalla Provincia di Pordenone e dal Comune di Casarsa della Delizia negli spazi espostivi della nuova sede della Provincia di Pordenone, fa parte di una serie di iniziative che celebrano i 75 anni del fotografo friulano e che vedranno la realizzazione a partire da metà aprile di una serie di installazioni urbane con immagini dei suoi paesaggi stampate in grandi dimensioni a Casarsa e inoltre un convegno dedicato ai temi del collezionismo fotografico il 22 e 23 aprile nella sala consiliare del Comune di Casarsa.
Con “Il fascino del vero” gli spettatori potranno entrare in contatto per la prima volta con le opere più recenti di Elio Ciol, che ha voluto rivoluzionare la propria narrativa fotografica aggiungendo all’abituale ricerca sul paesaggio in bianco e nero, l’accostamento di immagini diverse sotto forma di dittici e trittici. L’accostamento è stato effettuato dall’autore secondo principi diversi: tematici, di luce, di luogo, di forma, di materiali. Ne consegue una sintassi interamente nuova, che si sovrappone ai temi del paesaggio e della materia abituali per Ciol aggiungendo le tematiche della ricerca linguistica e concettuale. Sono esplorati i temi più abituali per il fotografo friulano, dai paesaggi attorno al Tagliamento a quello collinare, dalle lagune ai gelsi della sua terra, assieme a indagini più recenti come il ruolo del legno nella civiltà della montagna o a immagini del deserto e delle presenze umane in Medio Oriente e nelle città del bacino meridionale del Mediterraneo.
La mostra, curata da Fabio Amodeo, è composta da una novantina di opere multiple – dittici e trittici – che saranno ripercorse anche nel catalogo edito dalla casa editrice Grafiche Antiga con testi di Roberto Mutti e Fabio Amodeo.
L’opera artistica di Elio Ciol è il risultato di un percorso culturale e professionale assolutamente innovativo ed originale. Attraverso l’immagine fotografica egli interpreta la realtà che ci circonda, mettendo in luce le espressioni fondamentali dell’uomo ed il suo rapporto con l’ambiente che lo circonda. Legami e correlazioni che non creano una gerarchia di valori ma che si sviluppano in modo organico ed in armonia con i cicli della vita, in un’ottica di continuità narrativa tra passato e presente.
Paesaggi e persone collocati nello spazio reale del loro tempo con una specifica attenzione alla luce, che egli registra nelle sue sfumature e nel suo mutevole comporsi. Una pacatezza nel rappresentare realtà territoriali molto diverse tra loro, che assumono come elemento unificatore i lunghi silenzi e la serena tranquillità dei luoghi, osservati attraverso le visioni prospettiche e l’obiettivo fotografico dell’artista.
Elio Ciol ha saputo rivoluzionare il suo linguaggio espressivo manifestando con nuovo spirito creativo il proprio cammino e le sue rappresentazioni comunicate attraverso le immagini. Un percorso culturale che pone in evidenza la bellezza della nostra terra, ricca di storia, arte e tradizioni. Un modo di valorizzare e di proiettare le radici della civiltà locale al di fuori dei confini regionali, con qualità e in un’ottica di apertura europea. I contenuti della mostra rispecchiano infatti il dinamismo del Friuli Occidentale e sanno esprimere i valori culturali che da sempre contraddistinguono la nostra area geografica.
Un progetto di valorizzazione territoriale che l’Amministrazione Provinciale vuole costruire anche attraverso il rapporto sinergico con gli Enti locali, l’associazionismo ed il mondo del volontariato, attivi in ambito locale ed impegnati nel riscoprire le tracce del proprio passato per tramandarle alle future generazioni.
il Presidente della Provincia
dott. Elio De Anna
Provincia di Pordenone
Ufficio stampa, tel.0434 – 231227
Silenzio o rumore non sembrano termini adatti a commentare una fotografia. Le fotografie dovrebbero parlarci di luce e di ombra, di forme e di narrazione di eventi; dello spirito del tempo, al più. Tuttavia non si deve trascurare la capacità delle fotografie di introdurre metafore. Si potrebbe dire: di narrare metafore, se non fosse per la difficoltà della fotografia di esplicare narrazioni precise, effetto collaterale della sua universale leggibilità. Diciamo allora: di evocare metafore.
Se non chiediamo alla fotografia di “dirci” ma di “evocare”, allora le fotografie di Elio Ciol sono quanto di più silenzioso si possa immaginare. Lo sono per la loro naturale compostezza, per la capacità di collocarsi al di fuori del tempo (in un altro testo mi sono permesso di definire Ciol un autore a-moderno), per l’apparente facilità con la quale trasformano ciò che è stato davanti all’obiettivo in un archetipo.
Raggiunto questo risultato (e Ciol lo ha raggiunto tanto tempo fa, affinandone poi i risultati in un meticoloso lavoro di perfezionamento) un autore avrebbe il diritto di godere di una meritata rendita, specie quando il percorso compiuto è originale e poco debitore di esperienze altrui. Nel caso del fotografo di Casarsa vengono spesso citati Ansel Adams e Minor White, entrambi lontani nel tempo e nello spazio. Ma la relazione, che pure ha degli apparenti motivi di fondatezza, non regge a un’analisi approfondita. I due grandi paesaggisti americani condividono un sottofondo di nostalgia per un West selvaggio, per l’impossibile riconquista di un passato incontaminato perduto per sempre. Grattate la perfezione formale, e troverete uno sguardo angosciato. Grattate la perfezione di Ciol, e troverete uno sguardo sereno. La serenità è la chiave del silenzio.
Rendita? All’età nella quale un fotografo comincia a compilare la propria bibliografia aggiornata, Elio Ciol si è messo a rivoluzionare la propria narrazione fotografica. In qualche modo ha ricominciato daccapo, rileggendo in chiave nuova tutto quanto aveva fatto nella sua lunga carriera. Questo da solo è un evento del tutto singolare: rimettersi in gioco, rischiare tutto daccapo, è un evento raro per un artista che ha già una propria fama, un proprio linguaggio, un’accettazione pubblica comprovata in una lunghissima serie di mostre e di libri.
Il rimettersi in gioco in questo caso implica il passaggio dalla fotografia singola alla sequenza. Oggi Elio Ciol realizza dittici e trittici. Improvvisamente le fotografie smettono di essere silenziose: si mettono a parlare tra di loro, intessono dei rapporti. Compito dello spettatore diventa quello di identificare questi rapporti. Dittici e trittici non hanno una chiave narrativa, come le sequenze di Duane Michals. Non hanno neppure intento e sapore espressionista, come i trittici che nel 1932 Charles Sheerer dedicò agli stabilimenti Ford. In realtà, ogni sequenza ha una propria chiave interna di rapporto, che occorre identificare prima di cominciare a leggere le singole immagini. Possono essere affinità di luce, di luogo, di sentire. Può essere la visione secondo prospettive diverse del medesimo soggetto. La chiave non è costante, e anche in casi tra loro simili può differire per piccole sfumature. Se qualcuno osservando le sequenze troverà delle similitudini con qualche gioco enigmistico, o con i test attitudinali nei quali talvolta capita di imbattersi, non avrà tutti i torti.
Va detto che tutto ciò è possibile perché da molto tempo Ciol ha elaborato un proprio stile unificante, per cui la profondità del nero, la tessitura della luce, la consistenza del contrasto si mantengono lungo tutto l’arco della sua opera. Ciò impedisce dissonanze o confusioni. Lo sguardo sereno resiste alla complessità. Ci lascia alle prese con il piccolo enigma rappresentato da ogni gruppo di immagini, e con l’obbligo di modificare la nostra prassi di lettura.
Noi leggiamo le immagini – tutte, dagli affreschi delle chiese alle icone pubblicitarie – secondo uno schema che procede così. Prima un flash che “legge” l’interezza del riquadro, cerca di cogliere il tema complessivo, effettua istintivamente una contestualizzazione che ci consente di incasellare ciò che abbiamo davanti nel campo delle nostre conoscenze. Poi una seconda lettura, che entra nell’immagine e ne esplora i dettagli, una sorta di lettura a scansione che può procedere da un elemento all’altro a seconda delle linee guida della composizione e le inclinazioni e la cultura visiva di chi guarda. Nel caso delle fotografie di Ciol, questa scansione, la seconda fase della lettura, è particolarmente quieta, priva di affanno: l’occhio esplora con calma, ed è l’effetto della serenità, il motivo del silenzio metaforico.
Il dittico e il trittico, tuttavia, ci costringono a mutare questa prassi inconscia di lettura. Dopo la prima acquisizione, siamo costretti a una scelta critica: passiamo al riquadro successivo, cercando similitudini, diversità, le ragioni del legame? Oppure concludiamo la lettura più attenta di ciascuna inquadratura, e poi facciamo un passo indietro, confrontando quanto abbiamo acquisito di ciascun elemento, e ponendoci le domande sul tipo di legame che unisce le opere della composizione?
Tutto questo ha l’effetto di risvegliare, lo vogliamo o no, la coscienza critica della nostra lettura. Ciascuna opera pone una serie di domande alle quali dobbiamo dare risposta, secondo uno schema che non è abituale. Ci costringono a riflettere sul nostro modo di leggere, e a ripensare il nostro rapporto con la fotografia. Questa non è mai un’impresa facile, per una lunga serie di motivi. Il principale è costituito dal fatto che noi leggiamo le fotografie utilizzando gli stessi codici che usiamo per leggere la realtà. È questa la ragione per cui la fotografia per noi è spesso “trasparente”: scambiamo la rappresentazione con il soggetto rappresentato. Diciamo “questa è un’ansa del Tagliamento”, non “questa è la rappresentazione bidimensionale su carta di un’ansa del Tagliamento, filtrata attraverso la scelta dell’inquadratura e della luce dell’autore”. Per lo stesso motivo, abbiamo affidato alla fotografia una funzione testimoniale che spesso è illusoria, semplicemente perché ogni fotografia conferma che la nostra percezione visiva ha visto “il vero”, e non un’illusione ottica, una Fata Morgana.
Quando le anse del Tagliamento tuttavia sono tre, e dobbiamo fare un passo indietro, e confrontarle tra di loro, e cercare similitudini e differenze, e chiederci in fondo perché sono tre, cosa aggiunge l’iterazione alla nostra conoscenza, l’equivoco della trasparenza della fotografia è costretto a cadere. Stiamo guardando tre rappresentazioni su carta. Tre scelte del fotografo. Tre prospettive prescelte, non “cadute” naturalmente davanti alla macchina. Tre volte l’intenzione dell’autore sommata alla nostra capacità di intenderla e di leggerla (che è una variante, ciascuno di noi ha una propria cultura visiva). Stiamo guardando una complessa operazione culturale, non una semplice iterazione rappresentativa.
Gli artisti parlano volentieri delle tecniche usate, ma sono molto più avari quando si entra nel campo delle motivazioni e dei significati della loro opera. Non lo dicono, per educazione, ma lo lasciano capire: ho già parlato con la mia opera, interroga quella, leggila meglio, non interrogare me. In fondo, chiedere: “Perché l’hai fatto? Cosa intendevi comunicare?” è una scortesia, se prima non si è fatto ogni sforzo per porre le stesse domande alle opere. Non abbiamo chiesto a Elio Ciol perché abbia rivoluzionato la sua maniera di proporsi al pubblico dopo mezzo secolo abbondante di fotografia creativa, per cui non sappiamo se avrebbe risposto come spesso accade agli artisti, o se per naturale cortesia avrebbe superato la lieve irritazione che domande del genere spesso provocano in chi fa della comunicazione il proprio mestiere. Ma supponiamo che lo stesso Ciol abbia voluto fare un passo indietro, porsi delle domande sul proprio percorso artistico, andare più in profondità sulle scelte compiute seguendo le indicazioni del proprio sguardo (che per un fotografo sono le uniche che contano: il resto viene dopo). Che la necessità di una lettura più conscia della propria opera sia nata prima di tutto per lui, imbocco di un nuovo sentiero. Un sentiero da percorrere, almeno all’inizio, in solitudine: ma a questa solitudine Elio Ciol, come molti altri grandi fotografi, in fondo è abituato.
prof. Fabio Amodeo, curatore scientifico della mostra
Con “Il fascino del vero” gli spettatori potranno entrare in contatto per la prima volta con le opere più recenti di Elio Ciol, che ha voluto rivoluzionare la propria narrativa fotografica aggiungendo all’abituale ricerca sul paesaggio in bianco e nero, l’accostamento di immagini diverse sotto forma di dittici e trittici. L’accostamento è stato effettuato dall’autore secondo principi diversi: tematici, di luce, di luogo, di forma, di materiali. Ne consegue una sintassi interamente nuova, che si sovrappone ai temi del paesaggio e della materia abituali per Ciol aggiungendo le tematiche della ricerca linguistica e concettuale. Sono esplorati i temi più abituali per il fotografo friulano, dai paesaggi attorno al Tagliamento a quello collinare, dalle lagune ai gelsi della sua terra, assieme a indagini più recenti come il ruolo del legno nella civiltà della montagna o a immagini del deserto e delle presenze umane in Medio Oriente e nelle città del bacino meridionale del Mediterraneo.
La mostra, curata da Fabio Amodeo, è composta da una novantina di opere multiple – dittici e trittici – che saranno ripercorse anche nel catalogo edito dalla casa editrice Grafiche Antiga con testi di Roberto Mutti e Fabio Amodeo.
L’opera artistica di Elio Ciol è il risultato di un percorso culturale e professionale assolutamente innovativo ed originale. Attraverso l’immagine fotografica egli interpreta la realtà che ci circonda, mettendo in luce le espressioni fondamentali dell’uomo ed il suo rapporto con l’ambiente che lo circonda. Legami e correlazioni che non creano una gerarchia di valori ma che si sviluppano in modo organico ed in armonia con i cicli della vita, in un’ottica di continuità narrativa tra passato e presente.
Paesaggi e persone collocati nello spazio reale del loro tempo con una specifica attenzione alla luce, che egli registra nelle sue sfumature e nel suo mutevole comporsi. Una pacatezza nel rappresentare realtà territoriali molto diverse tra loro, che assumono come elemento unificatore i lunghi silenzi e la serena tranquillità dei luoghi, osservati attraverso le visioni prospettiche e l’obiettivo fotografico dell’artista.
Elio Ciol ha saputo rivoluzionare il suo linguaggio espressivo manifestando con nuovo spirito creativo il proprio cammino e le sue rappresentazioni comunicate attraverso le immagini. Un percorso culturale che pone in evidenza la bellezza della nostra terra, ricca di storia, arte e tradizioni. Un modo di valorizzare e di proiettare le radici della civiltà locale al di fuori dei confini regionali, con qualità e in un’ottica di apertura europea. I contenuti della mostra rispecchiano infatti il dinamismo del Friuli Occidentale e sanno esprimere i valori culturali che da sempre contraddistinguono la nostra area geografica.
Un progetto di valorizzazione territoriale che l’Amministrazione Provinciale vuole costruire anche attraverso il rapporto sinergico con gli Enti locali, l’associazionismo ed il mondo del volontariato, attivi in ambito locale ed impegnati nel riscoprire le tracce del proprio passato per tramandarle alle future generazioni.
il Presidente della Provincia
dott. Elio De Anna
Provincia di Pordenone
Ufficio stampa, tel.0434 – 231227
Silenzio o rumore non sembrano termini adatti a commentare una fotografia. Le fotografie dovrebbero parlarci di luce e di ombra, di forme e di narrazione di eventi; dello spirito del tempo, al più. Tuttavia non si deve trascurare la capacità delle fotografie di introdurre metafore. Si potrebbe dire: di narrare metafore, se non fosse per la difficoltà della fotografia di esplicare narrazioni precise, effetto collaterale della sua universale leggibilità. Diciamo allora: di evocare metafore.
Se non chiediamo alla fotografia di “dirci” ma di “evocare”, allora le fotografie di Elio Ciol sono quanto di più silenzioso si possa immaginare. Lo sono per la loro naturale compostezza, per la capacità di collocarsi al di fuori del tempo (in un altro testo mi sono permesso di definire Ciol un autore a-moderno), per l’apparente facilità con la quale trasformano ciò che è stato davanti all’obiettivo in un archetipo.
Raggiunto questo risultato (e Ciol lo ha raggiunto tanto tempo fa, affinandone poi i risultati in un meticoloso lavoro di perfezionamento) un autore avrebbe il diritto di godere di una meritata rendita, specie quando il percorso compiuto è originale e poco debitore di esperienze altrui. Nel caso del fotografo di Casarsa vengono spesso citati Ansel Adams e Minor White, entrambi lontani nel tempo e nello spazio. Ma la relazione, che pure ha degli apparenti motivi di fondatezza, non regge a un’analisi approfondita. I due grandi paesaggisti americani condividono un sottofondo di nostalgia per un West selvaggio, per l’impossibile riconquista di un passato incontaminato perduto per sempre. Grattate la perfezione formale, e troverete uno sguardo angosciato. Grattate la perfezione di Ciol, e troverete uno sguardo sereno. La serenità è la chiave del silenzio.
Rendita? All’età nella quale un fotografo comincia a compilare la propria bibliografia aggiornata, Elio Ciol si è messo a rivoluzionare la propria narrazione fotografica. In qualche modo ha ricominciato daccapo, rileggendo in chiave nuova tutto quanto aveva fatto nella sua lunga carriera. Questo da solo è un evento del tutto singolare: rimettersi in gioco, rischiare tutto daccapo, è un evento raro per un artista che ha già una propria fama, un proprio linguaggio, un’accettazione pubblica comprovata in una lunghissima serie di mostre e di libri.
Il rimettersi in gioco in questo caso implica il passaggio dalla fotografia singola alla sequenza. Oggi Elio Ciol realizza dittici e trittici. Improvvisamente le fotografie smettono di essere silenziose: si mettono a parlare tra di loro, intessono dei rapporti. Compito dello spettatore diventa quello di identificare questi rapporti. Dittici e trittici non hanno una chiave narrativa, come le sequenze di Duane Michals. Non hanno neppure intento e sapore espressionista, come i trittici che nel 1932 Charles Sheerer dedicò agli stabilimenti Ford. In realtà, ogni sequenza ha una propria chiave interna di rapporto, che occorre identificare prima di cominciare a leggere le singole immagini. Possono essere affinità di luce, di luogo, di sentire. Può essere la visione secondo prospettive diverse del medesimo soggetto. La chiave non è costante, e anche in casi tra loro simili può differire per piccole sfumature. Se qualcuno osservando le sequenze troverà delle similitudini con qualche gioco enigmistico, o con i test attitudinali nei quali talvolta capita di imbattersi, non avrà tutti i torti.
Va detto che tutto ciò è possibile perché da molto tempo Ciol ha elaborato un proprio stile unificante, per cui la profondità del nero, la tessitura della luce, la consistenza del contrasto si mantengono lungo tutto l’arco della sua opera. Ciò impedisce dissonanze o confusioni. Lo sguardo sereno resiste alla complessità. Ci lascia alle prese con il piccolo enigma rappresentato da ogni gruppo di immagini, e con l’obbligo di modificare la nostra prassi di lettura.
Noi leggiamo le immagini – tutte, dagli affreschi delle chiese alle icone pubblicitarie – secondo uno schema che procede così. Prima un flash che “legge” l’interezza del riquadro, cerca di cogliere il tema complessivo, effettua istintivamente una contestualizzazione che ci consente di incasellare ciò che abbiamo davanti nel campo delle nostre conoscenze. Poi una seconda lettura, che entra nell’immagine e ne esplora i dettagli, una sorta di lettura a scansione che può procedere da un elemento all’altro a seconda delle linee guida della composizione e le inclinazioni e la cultura visiva di chi guarda. Nel caso delle fotografie di Ciol, questa scansione, la seconda fase della lettura, è particolarmente quieta, priva di affanno: l’occhio esplora con calma, ed è l’effetto della serenità, il motivo del silenzio metaforico.
Il dittico e il trittico, tuttavia, ci costringono a mutare questa prassi inconscia di lettura. Dopo la prima acquisizione, siamo costretti a una scelta critica: passiamo al riquadro successivo, cercando similitudini, diversità, le ragioni del legame? Oppure concludiamo la lettura più attenta di ciascuna inquadratura, e poi facciamo un passo indietro, confrontando quanto abbiamo acquisito di ciascun elemento, e ponendoci le domande sul tipo di legame che unisce le opere della composizione?
Tutto questo ha l’effetto di risvegliare, lo vogliamo o no, la coscienza critica della nostra lettura. Ciascuna opera pone una serie di domande alle quali dobbiamo dare risposta, secondo uno schema che non è abituale. Ci costringono a riflettere sul nostro modo di leggere, e a ripensare il nostro rapporto con la fotografia. Questa non è mai un’impresa facile, per una lunga serie di motivi. Il principale è costituito dal fatto che noi leggiamo le fotografie utilizzando gli stessi codici che usiamo per leggere la realtà. È questa la ragione per cui la fotografia per noi è spesso “trasparente”: scambiamo la rappresentazione con il soggetto rappresentato. Diciamo “questa è un’ansa del Tagliamento”, non “questa è la rappresentazione bidimensionale su carta di un’ansa del Tagliamento, filtrata attraverso la scelta dell’inquadratura e della luce dell’autore”. Per lo stesso motivo, abbiamo affidato alla fotografia una funzione testimoniale che spesso è illusoria, semplicemente perché ogni fotografia conferma che la nostra percezione visiva ha visto “il vero”, e non un’illusione ottica, una Fata Morgana.
Quando le anse del Tagliamento tuttavia sono tre, e dobbiamo fare un passo indietro, e confrontarle tra di loro, e cercare similitudini e differenze, e chiederci in fondo perché sono tre, cosa aggiunge l’iterazione alla nostra conoscenza, l’equivoco della trasparenza della fotografia è costretto a cadere. Stiamo guardando tre rappresentazioni su carta. Tre scelte del fotografo. Tre prospettive prescelte, non “cadute” naturalmente davanti alla macchina. Tre volte l’intenzione dell’autore sommata alla nostra capacità di intenderla e di leggerla (che è una variante, ciascuno di noi ha una propria cultura visiva). Stiamo guardando una complessa operazione culturale, non una semplice iterazione rappresentativa.
Gli artisti parlano volentieri delle tecniche usate, ma sono molto più avari quando si entra nel campo delle motivazioni e dei significati della loro opera. Non lo dicono, per educazione, ma lo lasciano capire: ho già parlato con la mia opera, interroga quella, leggila meglio, non interrogare me. In fondo, chiedere: “Perché l’hai fatto? Cosa intendevi comunicare?” è una scortesia, se prima non si è fatto ogni sforzo per porre le stesse domande alle opere. Non abbiamo chiesto a Elio Ciol perché abbia rivoluzionato la sua maniera di proporsi al pubblico dopo mezzo secolo abbondante di fotografia creativa, per cui non sappiamo se avrebbe risposto come spesso accade agli artisti, o se per naturale cortesia avrebbe superato la lieve irritazione che domande del genere spesso provocano in chi fa della comunicazione il proprio mestiere. Ma supponiamo che lo stesso Ciol abbia voluto fare un passo indietro, porsi delle domande sul proprio percorso artistico, andare più in profondità sulle scelte compiute seguendo le indicazioni del proprio sguardo (che per un fotografo sono le uniche che contano: il resto viene dopo). Che la necessità di una lettura più conscia della propria opera sia nata prima di tutto per lui, imbocco di un nuovo sentiero. Un sentiero da percorrere, almeno all’inizio, in solitudine: ma a questa solitudine Elio Ciol, come molti altri grandi fotografi, in fondo è abituato.
prof. Fabio Amodeo, curatore scientifico della mostra
03
aprile 2004
Elio Ciol – Il fascino del vero
Dal 03 aprile al 06 giugno 2004
fotografia
Location
SPAZI ESPOSITIVI DELLA PROVINCIA – PALAZZO DELLA PROVINCIA
Pordenone, Corso Giuseppe Garibaldi, 8, (Pordenone)
Pordenone, Corso Giuseppe Garibaldi, 8, (Pordenone)
Orario di apertura
dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 20
Giorno di chiusura: ogni lunedì, 11 e 12 aprile e 1 maggio
Autore