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Elisabetta Di Maggio. Punto improprio
In occasione della sua seconda personale di Elisabetta Di Maggio alla Galleria Christian Stein, in esposizione sette opere inedite.
Da titolo alla mostra un grande arazzo di mosaico di vetro, germinato sulla parete di fronte al giardino, brillante come un acquarello di luce.
Comunicato stampa
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Punto improprio
“Le grandi finestre della galleria Stein sono bellissime” mi scrive Elisabetta, in effetti sono un elemento forte dello spazio, la soglia che separa il dentro e il fuori, sospesa tra due realtà. È sulla dimensione e sugli affacci di queste finestre che l’artista ha lavorato per la sua nuova mostra personale, mettendosi in relazione con lo spazio interno ma anche con quello esterno. Un grande arazzo di mosaico di vetro è germinato sulla parete di fronte al giardino, fatto di rottami di vetro che brillano come un acquarello di luce, un arazzo fatto di tante piccole tessere che, come pixel, formano il disegno di una forte ramificazione che ricorda una grande radice ma anche le connessioni che avvengono nel cervello attraverso le sinapsi o gli intrecci dei grandi alberi nel giardino.
“I fili delicati del mondo vegetale e i circuiti del corpo umano evocano relazioni, ricordando le intricate reti della comunicazione umana, quando si parla di circuiti o di reticoli, pensiamo ad esempio alla struttura complessa dei vasi linfatici delle foglie, al reticolato disegnato sull’epidermide umana, oppure ai tracciati delle metropolitane, o ancora alla complicatissima sagoma di una cellula nervosa: se osservati da vicino, questi elementi apparentemente lontani rivelano numerose assonanze.” Le parole di Elisabetta Di Maggio racchiudono con chiarezza il nucleo concettuale che da anni guida e spinge avanti la sua ricerca. Il suo lavoro è una riflessione metaforica sull’esistenza, un’indagine sulla nostra condizione di frammenti all’interno di un sistema più vasto, un tutto organico in continuo divenire. Nella dimensione del micro e del macrocosmo, la natura si rinnova incessantemente, seguendo leggi di straordinaria fecondità, e l’arte di Elisabetta si muove dentro questo flusso, esplorando la sottile trama che lega ordine e trasformazione, struttura e metamorfosi.
In questa sua seconda mostra personale alla Galleria Stein, Elisabetta Di Maggio disegna il suo paesaggio ispirato al mondo naturale che, pur attingendo alla realtà organica, lei trasforma in trame o possibili cosmogonie o ipotesi di strutture di microrganismi o agglomerati frattali. I suoi nuovi lavori sono frutto di una lunga opera di intaglio e di precisione, che hanno preso vita nei mosaici in vetro o nel micromosaico di cera. Materiali fragili e luminosi che lei ricompone in una nuova geografia visiva. “Una natura interamente ricreata e fatta a mano e fatta di tempo, manipolazioni di immagini e saperi già esistenti che elaborati e trasformati creano un mondo proprio e diverso – da opporre oggi sempre di più ai paesaggi della natura ricreata artificialmente”. Mappe, strutture e circuiti che non portano da nessuna parte e non descrivono nessuna condizione organica o geografica, ma piuttosto gli intricati circuiti nei quali siamo venuti al mondo e in cui ci troviamo a vivere.
Ha voluto intitolare la mostra Punto improprio (anche il titolo dell’opera dei mosaici di vetro a parete), che indica quel punto che nello spazio euclideo è la locuzione con cui si indica il punto all’infinito che identifica la direzione di un fascio di rette parallele. Una proiezione immaginata dove qualcosa di reale alla fine s’incontra e si unisce. “Il punto all'infinito esiste ed è visibile, ma è irraggiungibile. Lo possiamo descrivere con la matematica (dato che appartiene alla geometria) e lo possiamo facilmente disegnare (con la prospettiva), ma non possiamo mai toccarlo fisicamente, farne esperienza per questo è una direzione del pensiero, la soglia della creatività e di ciò che si può immaginare” mi scrive Elisabetta. Può essere significativo ricordare che il concetto di punto improprio nasce dall’intuizione degli artisti rinascimentali, che per rappresentare la realtà in modo più fedele hanno dovuto ricorrere a una dimensione non visibile ma fondamentale. Questa riflessione apre uno spazio nuovo e probabile: il
possibile è più grande del reale. Esiste sempre qualcosa che può ancora accadere, uno spazio aperto oltre i confini del presente, dove si muovono immaginazione e desiderio.
Per Elisabetta questa idea diventa anche soprattutto una direzione da seguire, un principio guida che dà ordine e disciplina al suo lavoro. Procedere lungo una linea immaginaria, dove il gesto e la materia seguono il ritmo del tempo, spingendosi sempre più avanti, verso un punto che non è una meta, ma una possibilità. Racconta di essere arrivata a questa riflessione attraverso inciampi e deviazioni, e il primo fra tutti è stata proprio la sensazione di sentirsi fuori luogo, come se il suo metodo e il suo modo di usare i materiali fossero impropri, in contrasto con le tecniche canoniche. Ma è in questa apparente incongruenza che ha trovato il suo spazio di ricerca.
“Il punto all’infinito è qualcosa di speciale”, mi dice, “esiste, ma non si può raggiungere. Guardarlo non significa toccarlo. Eppure, proprio perché è irraggiungibile, ci permette di spingerci ancora oltre.”
È in questo slittamento, in questa tensione verso un luogo che esiste ma non si può afferrare, che si muove la sua arte. Una ricerca che non punta a possedere una forma definitiva, ma a superare ogni volta il limite, aprendo nuove possibilità. Forse è proprio questa tensione verso l’estremo il senso ultimo della sua ricerca.
Per questa artista il rapporto con i materiali è sempre stato un motore trainante, una necessità che la spinge a esplorarli e a trasformarli con un approccio empirico e sperimentale. Ogni materia ha per lei una propria vocazione, un’attitudine comportamentale che diventa parte stessa della sua ispirazione. Non si limita a utilizzarli, li studia, li osserva, li frequenta a lungo, fino a comprenderne reazioni e possibilità di trasformazione. Non segue tecniche codificate, ma inventa ogni volta un metodo personale, costruito sulla base del tempo, della fatica e della concentrazione. Un metodo che appartiene solo a lei.
Negli ultimi mesi Elisabetta ha approfondito il suo lavoro sul vetro, visitando le fornaci di Murano e studiando materiali dimenticati. Nel laboratorio di un artigiano a Milano, ha imparato a spezzarlo e trasformarlo in una nuova materia. Trasformarlo in qualcosa di nuovo, vivo e organico, in grado di vibrare e risplendere in un equilibrio perfetto tra fragilità e resistenza. La durezza del vetro, la sua resistenza ostinata, lei la spezza in infiniti quadratini, frammenti di luce che diventano mosaico, catturando la sua lucentezza e trasparenza.
Ancora una volta, la sua performance instancabile e silenziosa si sviluppa in un lavoro che si nutre di tempo. Un tempo paziente e necessario, scandito dal gesto preciso e meticoloso della mano che taglia e spezza frammenti di vetro, recuperati da scarti di altre opere. Rottami, come li chiama lei, che attraverso il taglio e la trasformazione riprendono vita, diventando testimonianze della sua esistenza e resistenza. C’è sempre qualcosa di visionario e ostinato nel suo procedere: tagliare a mano, pezzo dopo pezzo,
lasciando che l’opera cresca lentamente, come una pianta in natura e lentamente si riveli allo sguardo. Lontana dal gigantismo e dalla spettacolarità, questa artista lavora entro i limiti della propria mano, spingendosi fino al confine della resistenza fisica e della materia stessa.
In mostra, i suoi nuovi micromosaici di cera, anch’essi tagliati a mano, sembrano granelli di sabbia depositati su una garza sottile. Qui l’artista sembra sfidare il limite del possibile: ha preparato personalmente le colorazioni delle cere, che poi ha ridotto in filamenti e infine in minuscoli punti, quasi impalpabili.
Da lontano, l’opera appare come un’ombra, una macchia sospesa, un’eco di colore su un telo leggerissimo. Ma avvicinandosi, si rivela l’incanto e lo stupore di scoprire che quella macchia indefinita è in realtà un disegno fragile e prezioso, a metà tra l’organico e il geometrico, un’evanescente mappa, un diagramma distorto. Una trama sottile, come un ricamo a punto croce, ma realizzato con micromosaici di cera, tanto delicati da sembrare pronti a svanire con un soffio. Un mandala di sabbia, rimasto adagiato sulla superficie leggera della garza.
In queste opere l’artista ha portando tutto oltre la soglia della resistenza: la materia, nella sua precarietà di garza e cera; la tecnica, nel minuzioso taglio dei micro-mosaici; la visione, nell’immagine che sembra dissolversi davanti agli occhi.
Poi le Cosmographiae #02 (2025), ancora delicati mosaici di cera su garza medica sottile e sottesa in leggeri telai di legno che si usavano per il ricamo a piccolo punto. “I disegni schematici del piccolo punto mi hanno sempre incuriosita, ho guardato a quei fiori e foglie, a quella Natura stilizzata che ha decorato gli interni delle abitazioni di tutto il mondo.” I suoi mosaici sono frammenti che ricordano qualcosa, che sembrano qualcosa pur essendo astratti, come se fossero continenti alla deriva o mondi in formazione. Sono presentati a parete con una successione scalare dal grande al piccolo come nelle immagini dei planisferi della geografia antica, quando il mondo non era ancora del tutto conosciuto e si poteva ancora immaginare.
Sulla parete centrale, verso il fondo della galleria, quasi come in una navata di una cappella, compaiono le grandi ali della nuova Annunciazione #02 (2025). Qui, due ali di libellula emergono dalla parete bianca: sottilissime, intagliate nel rame ossidato, vibrano in un verde intenso, lo stesso colore con cui, nella pittura medievale e rinascimentale, venivano spesso raffigurate le ali degli angeli nelle Annunciazioni. Un colore carico di significati: il verde è gravido di attese, simbolo di trasformazione, mentre il rame, in alchimia, è legato a Venere, alla bellezza e alla creatività. Così scrive Elisabetta: “Le ali delle libellule hanno una struttura membranosa, con un disegno complesso che ricorda le vetrate delle cattedrali, ma anche lo scheletro strutturale di una foglia.”
Un sentire che ritroviamo in Senza titolo (2024), in cui la forma della foglia, simile a un crocifisso, conferisce all’opera un’aura sacrale. Una foglia, incisa a mano con un bisturi affilato, segue con precisione le sue venature e si posa su un foglio di carta, dove è disegnata la sua ombra. Un’ombra che si confonde con quella reale, catturando il movimento impercettibile del tempo che scorre. Il tracciato in grafite cerca di trattenere il ricordo di ciò che è stato, un tempo che non ritorna ma si stratifica, lasciando una traccia visibile.
Il punto di sospensione di qualcosa fino a che può cadere o cedere è una sfida che riguarda sia i suoi materiali che l’esistenza umana. Lo si vede bene nelle sculture dal titolo anche sospeso di Vuoto d’aria #08 (2024). Sono fatte di elementi naturali (foglie-rametti-coralli) e tenute insieme in un equilibrio precario. Anche solo un respiro potrebbe romperle. “I vuoti d’aria sono piccole sculture protette da teche di vetro soffiato e piombato, e rappresentano una riflessione sulla difficoltà e sulla fatica di trovare una centratura nella relazione col mondo”.
Di fronte alle sue opere, l’incanto è immediato: la precisione e la delicatezza del suo lavoro catturano lo sguardo, ipnotizzano. Ma insieme alla bellezza si apre anche una vertigine sottile, quella sensazione che nasce quando ci si trova di fronte a qualcosa di troppo perfetto, troppo fragile, troppo effimero per essere davvero afferrato. Il suo mondo sembra oscillare tra ordine e caos, tra il controllo assoluto e la possibilità di un imprevisto che può spezzare, cancellare, trasformare tutto in un attimo.
Quella di Elisabetta Di Maggio può allora apparire come la mappa di una nuova natura, ricomposta e armonizzata dentro la trama di un tempo più sereno; un disegno ideale che tenta di ricucire ciò che il trascorrere del tempo e la brutalità umana hanno lacerato.
Chiara Bertola, marzo 2025
“Le grandi finestre della galleria Stein sono bellissime” mi scrive Elisabetta, in effetti sono un elemento forte dello spazio, la soglia che separa il dentro e il fuori, sospesa tra due realtà. È sulla dimensione e sugli affacci di queste finestre che l’artista ha lavorato per la sua nuova mostra personale, mettendosi in relazione con lo spazio interno ma anche con quello esterno. Un grande arazzo di mosaico di vetro è germinato sulla parete di fronte al giardino, fatto di rottami di vetro che brillano come un acquarello di luce, un arazzo fatto di tante piccole tessere che, come pixel, formano il disegno di una forte ramificazione che ricorda una grande radice ma anche le connessioni che avvengono nel cervello attraverso le sinapsi o gli intrecci dei grandi alberi nel giardino.
“I fili delicati del mondo vegetale e i circuiti del corpo umano evocano relazioni, ricordando le intricate reti della comunicazione umana, quando si parla di circuiti o di reticoli, pensiamo ad esempio alla struttura complessa dei vasi linfatici delle foglie, al reticolato disegnato sull’epidermide umana, oppure ai tracciati delle metropolitane, o ancora alla complicatissima sagoma di una cellula nervosa: se osservati da vicino, questi elementi apparentemente lontani rivelano numerose assonanze.” Le parole di Elisabetta Di Maggio racchiudono con chiarezza il nucleo concettuale che da anni guida e spinge avanti la sua ricerca. Il suo lavoro è una riflessione metaforica sull’esistenza, un’indagine sulla nostra condizione di frammenti all’interno di un sistema più vasto, un tutto organico in continuo divenire. Nella dimensione del micro e del macrocosmo, la natura si rinnova incessantemente, seguendo leggi di straordinaria fecondità, e l’arte di Elisabetta si muove dentro questo flusso, esplorando la sottile trama che lega ordine e trasformazione, struttura e metamorfosi.
In questa sua seconda mostra personale alla Galleria Stein, Elisabetta Di Maggio disegna il suo paesaggio ispirato al mondo naturale che, pur attingendo alla realtà organica, lei trasforma in trame o possibili cosmogonie o ipotesi di strutture di microrganismi o agglomerati frattali. I suoi nuovi lavori sono frutto di una lunga opera di intaglio e di precisione, che hanno preso vita nei mosaici in vetro o nel micromosaico di cera. Materiali fragili e luminosi che lei ricompone in una nuova geografia visiva. “Una natura interamente ricreata e fatta a mano e fatta di tempo, manipolazioni di immagini e saperi già esistenti che elaborati e trasformati creano un mondo proprio e diverso – da opporre oggi sempre di più ai paesaggi della natura ricreata artificialmente”. Mappe, strutture e circuiti che non portano da nessuna parte e non descrivono nessuna condizione organica o geografica, ma piuttosto gli intricati circuiti nei quali siamo venuti al mondo e in cui ci troviamo a vivere.
Ha voluto intitolare la mostra Punto improprio (anche il titolo dell’opera dei mosaici di vetro a parete), che indica quel punto che nello spazio euclideo è la locuzione con cui si indica il punto all’infinito che identifica la direzione di un fascio di rette parallele. Una proiezione immaginata dove qualcosa di reale alla fine s’incontra e si unisce. “Il punto all'infinito esiste ed è visibile, ma è irraggiungibile. Lo possiamo descrivere con la matematica (dato che appartiene alla geometria) e lo possiamo facilmente disegnare (con la prospettiva), ma non possiamo mai toccarlo fisicamente, farne esperienza per questo è una direzione del pensiero, la soglia della creatività e di ciò che si può immaginare” mi scrive Elisabetta. Può essere significativo ricordare che il concetto di punto improprio nasce dall’intuizione degli artisti rinascimentali, che per rappresentare la realtà in modo più fedele hanno dovuto ricorrere a una dimensione non visibile ma fondamentale. Questa riflessione apre uno spazio nuovo e probabile: il
possibile è più grande del reale. Esiste sempre qualcosa che può ancora accadere, uno spazio aperto oltre i confini del presente, dove si muovono immaginazione e desiderio.
Per Elisabetta questa idea diventa anche soprattutto una direzione da seguire, un principio guida che dà ordine e disciplina al suo lavoro. Procedere lungo una linea immaginaria, dove il gesto e la materia seguono il ritmo del tempo, spingendosi sempre più avanti, verso un punto che non è una meta, ma una possibilità. Racconta di essere arrivata a questa riflessione attraverso inciampi e deviazioni, e il primo fra tutti è stata proprio la sensazione di sentirsi fuori luogo, come se il suo metodo e il suo modo di usare i materiali fossero impropri, in contrasto con le tecniche canoniche. Ma è in questa apparente incongruenza che ha trovato il suo spazio di ricerca.
“Il punto all’infinito è qualcosa di speciale”, mi dice, “esiste, ma non si può raggiungere. Guardarlo non significa toccarlo. Eppure, proprio perché è irraggiungibile, ci permette di spingerci ancora oltre.”
È in questo slittamento, in questa tensione verso un luogo che esiste ma non si può afferrare, che si muove la sua arte. Una ricerca che non punta a possedere una forma definitiva, ma a superare ogni volta il limite, aprendo nuove possibilità. Forse è proprio questa tensione verso l’estremo il senso ultimo della sua ricerca.
Per questa artista il rapporto con i materiali è sempre stato un motore trainante, una necessità che la spinge a esplorarli e a trasformarli con un approccio empirico e sperimentale. Ogni materia ha per lei una propria vocazione, un’attitudine comportamentale che diventa parte stessa della sua ispirazione. Non si limita a utilizzarli, li studia, li osserva, li frequenta a lungo, fino a comprenderne reazioni e possibilità di trasformazione. Non segue tecniche codificate, ma inventa ogni volta un metodo personale, costruito sulla base del tempo, della fatica e della concentrazione. Un metodo che appartiene solo a lei.
Negli ultimi mesi Elisabetta ha approfondito il suo lavoro sul vetro, visitando le fornaci di Murano e studiando materiali dimenticati. Nel laboratorio di un artigiano a Milano, ha imparato a spezzarlo e trasformarlo in una nuova materia. Trasformarlo in qualcosa di nuovo, vivo e organico, in grado di vibrare e risplendere in un equilibrio perfetto tra fragilità e resistenza. La durezza del vetro, la sua resistenza ostinata, lei la spezza in infiniti quadratini, frammenti di luce che diventano mosaico, catturando la sua lucentezza e trasparenza.
Ancora una volta, la sua performance instancabile e silenziosa si sviluppa in un lavoro che si nutre di tempo. Un tempo paziente e necessario, scandito dal gesto preciso e meticoloso della mano che taglia e spezza frammenti di vetro, recuperati da scarti di altre opere. Rottami, come li chiama lei, che attraverso il taglio e la trasformazione riprendono vita, diventando testimonianze della sua esistenza e resistenza. C’è sempre qualcosa di visionario e ostinato nel suo procedere: tagliare a mano, pezzo dopo pezzo,
lasciando che l’opera cresca lentamente, come una pianta in natura e lentamente si riveli allo sguardo. Lontana dal gigantismo e dalla spettacolarità, questa artista lavora entro i limiti della propria mano, spingendosi fino al confine della resistenza fisica e della materia stessa.
In mostra, i suoi nuovi micromosaici di cera, anch’essi tagliati a mano, sembrano granelli di sabbia depositati su una garza sottile. Qui l’artista sembra sfidare il limite del possibile: ha preparato personalmente le colorazioni delle cere, che poi ha ridotto in filamenti e infine in minuscoli punti, quasi impalpabili.
Da lontano, l’opera appare come un’ombra, una macchia sospesa, un’eco di colore su un telo leggerissimo. Ma avvicinandosi, si rivela l’incanto e lo stupore di scoprire che quella macchia indefinita è in realtà un disegno fragile e prezioso, a metà tra l’organico e il geometrico, un’evanescente mappa, un diagramma distorto. Una trama sottile, come un ricamo a punto croce, ma realizzato con micromosaici di cera, tanto delicati da sembrare pronti a svanire con un soffio. Un mandala di sabbia, rimasto adagiato sulla superficie leggera della garza.
In queste opere l’artista ha portando tutto oltre la soglia della resistenza: la materia, nella sua precarietà di garza e cera; la tecnica, nel minuzioso taglio dei micro-mosaici; la visione, nell’immagine che sembra dissolversi davanti agli occhi.
Poi le Cosmographiae #02 (2025), ancora delicati mosaici di cera su garza medica sottile e sottesa in leggeri telai di legno che si usavano per il ricamo a piccolo punto. “I disegni schematici del piccolo punto mi hanno sempre incuriosita, ho guardato a quei fiori e foglie, a quella Natura stilizzata che ha decorato gli interni delle abitazioni di tutto il mondo.” I suoi mosaici sono frammenti che ricordano qualcosa, che sembrano qualcosa pur essendo astratti, come se fossero continenti alla deriva o mondi in formazione. Sono presentati a parete con una successione scalare dal grande al piccolo come nelle immagini dei planisferi della geografia antica, quando il mondo non era ancora del tutto conosciuto e si poteva ancora immaginare.
Sulla parete centrale, verso il fondo della galleria, quasi come in una navata di una cappella, compaiono le grandi ali della nuova Annunciazione #02 (2025). Qui, due ali di libellula emergono dalla parete bianca: sottilissime, intagliate nel rame ossidato, vibrano in un verde intenso, lo stesso colore con cui, nella pittura medievale e rinascimentale, venivano spesso raffigurate le ali degli angeli nelle Annunciazioni. Un colore carico di significati: il verde è gravido di attese, simbolo di trasformazione, mentre il rame, in alchimia, è legato a Venere, alla bellezza e alla creatività. Così scrive Elisabetta: “Le ali delle libellule hanno una struttura membranosa, con un disegno complesso che ricorda le vetrate delle cattedrali, ma anche lo scheletro strutturale di una foglia.”
Un sentire che ritroviamo in Senza titolo (2024), in cui la forma della foglia, simile a un crocifisso, conferisce all’opera un’aura sacrale. Una foglia, incisa a mano con un bisturi affilato, segue con precisione le sue venature e si posa su un foglio di carta, dove è disegnata la sua ombra. Un’ombra che si confonde con quella reale, catturando il movimento impercettibile del tempo che scorre. Il tracciato in grafite cerca di trattenere il ricordo di ciò che è stato, un tempo che non ritorna ma si stratifica, lasciando una traccia visibile.
Il punto di sospensione di qualcosa fino a che può cadere o cedere è una sfida che riguarda sia i suoi materiali che l’esistenza umana. Lo si vede bene nelle sculture dal titolo anche sospeso di Vuoto d’aria #08 (2024). Sono fatte di elementi naturali (foglie-rametti-coralli) e tenute insieme in un equilibrio precario. Anche solo un respiro potrebbe romperle. “I vuoti d’aria sono piccole sculture protette da teche di vetro soffiato e piombato, e rappresentano una riflessione sulla difficoltà e sulla fatica di trovare una centratura nella relazione col mondo”.
Di fronte alle sue opere, l’incanto è immediato: la precisione e la delicatezza del suo lavoro catturano lo sguardo, ipnotizzano. Ma insieme alla bellezza si apre anche una vertigine sottile, quella sensazione che nasce quando ci si trova di fronte a qualcosa di troppo perfetto, troppo fragile, troppo effimero per essere davvero afferrato. Il suo mondo sembra oscillare tra ordine e caos, tra il controllo assoluto e la possibilità di un imprevisto che può spezzare, cancellare, trasformare tutto in un attimo.
Quella di Elisabetta Di Maggio può allora apparire come la mappa di una nuova natura, ricomposta e armonizzata dentro la trama di un tempo più sereno; un disegno ideale che tenta di ricucire ciò che il trascorrere del tempo e la brutalità umana hanno lacerato.
Chiara Bertola, marzo 2025
19
marzo 2025
Elisabetta Di Maggio. Punto improprio
Dal 19 marzo al 31 maggio 2025
arte contemporanea
Location
Galleria Christian Stein
Milano, Corso Monforte, 23, (MI)
Milano, Corso Monforte, 23, (MI)
Orario di apertura
Dal lunedì al venerdì: 10 – 19, sabato 10 – 13 / 15 – 19
Vernissage
19 Marzo 2025, 18 - 21
Sito web
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Autore testo critico