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Elisabetta Losi – Dualità Coerenti
Dopo aver esposto in tutto il mondo (Parigi, Londra, Barcellona, Miami, Shianghai, Dubai, ed in Giappone), la scultrice Elisabetta Losi si presenta per la prima volta nella sua città
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Dopo aver esposto in tutto il mondo (Parigi, Londra, Barcellona, Miami, Shianghai, Dubai, ed in Giappone),
la scultrice Elisabetta Losi si presenta per la prima volta nella sua città, dal 17 novembre al 29 novembre 2018
la Galleria Arianna Sartori di Mantova nella sede di Via Cappello 17, ospiterà la mostra “Dualità Coerente”.
La mostra, curata da Arianna Sartori, presenta le opere recenti realizzate dall’artista nello studio di Moglia,
sculture e pannelli di grande impatto visivo ed emozionale, che cambiano colore in base all’intensità della luce
presente nell’ambiente dove sono collocate. Elisabetta Losi è un'artista introspettiva, che scava a fondo
nell’animo umano, così come la sua tecnica va a rivelare immagini fortemente simboliche, che si sdoppiano
come una macchia di Rorschach o che richiamano antiche paure e figure mitologiche.
Conosciuta a Mantova Elisabetta Losi, per aver realizzato il monumento a Giuseppe Mazzini, in occasione del
150° anniversario dell’Unità d’Italia, inaugurato il 1° giugno 2011, collocato nel giardinetto che costeggia via
Mazzini e guarda verso le Pescherie del Rio, commissionato dall'Associazione Mazziniana Italiana, sezione di
Mantova.
L’inaugurazione della mostra si svolgerà Sabato 17 novembre alle ore 15.30 alla presenza dell’artista con
intervento di Agnese Benaglia.
Una vocazione
Radici
Una vocazione è una chiamata che viene improvvisa e insistente da qualche parte dentro o fuori di te. E’ una
corda lanciata per essere afferrata saldamente e non cadere nel vuoto dell’insignificanza.
E’ un’esperienza straordinaria, non solo per i mistici, perché accettarla significa impegnare la propria vita per
intero, costi quel che costi. Non importano i motivi contingenti che spingono in quella direzione, frustrazioni,
esaltazioni, delusioni. Alla fine, ciò che importa, soprattutto ai tuoi occhi, sarà quello che farai dal momento in
cui hai deciso di ascoltare le tue voci di dentro.
Ecco, Elisabetta Losi ha cominciato presto a sentire le sue voci. Da bambina, quando preferiva costruire da sé
i suoi giocattoli e sporcarsi le mani con la terra. Già, la terra. La terra di corte Magnanella alle Marzette – e
siamo nella bassa della Bassa, dove tante case-navi come questa vanno alla deriva – che ancora oggi chiama a
sé Elisabetta con l’eco che misteriosamente si crea, in uno stretto cono acustico, tra lo slancio ardito di archi e
costoloni di quella cattedrale rurale che è la stalla fienile e il fianco robusto del grande palazzo a quattro
acque. E l’eco, come l’arcobaleno, è una meraviglia che sollecita l’immaginazione e apre all’infinito e ti fa
sentire il respiro del cosmo, e il desiderio di uniformare il tuo con quello.
Un’acuta percezione di appartenenza ad una dimensione sovrastante e di prodigiosa sospensione del tempo
che in Elisabetta si ripete ogni volta a Zocca, nel gomito di una curva, dove, in un fossato profondo d’acqua
tremula, alcuni alberi si specchiano, sempre uguali.
Sono le voci della terra.
La terra degli avi, del nonno paterno Oddino, dall’ampia faccia padana - Elisabetta, a soli 17 anni, la
immortalò in uno splendido bronzo - che divenne un imprenditore commerciante: acquistò il grande macello
comunale, ma i cospicui guadagni li reinvestiva in terra. Elisabetta viene da queste robuste radici celtiche
iperboree intrecciate ai rami della famiglia materna nutriti della vasta esperienza del mondo accumulata al Sud
dall’altro nonno. Un decoratore, partito da Torino per le bonifiche delle paludi Pontine, poi emigrato in
Abissinia, dove conobbe Ailè Selassiè e fece fortuna come imprenditore edile e costruttore di infrastrutture.
La famiglia si stabilirà nel Lazio, a Cisterna, in una grande villa che durante la guerra fu requisita prima dai
tedeschi poi dagli americani.
Da qui verrà la madre per incontrare Oderzo e “migliorargli la razza” – chissà, di increspature etrusche-. Gli
porterà una ricca dote: con solo le lenzuola, dirà Oddino, si sarebbe potuto comprare “an sit”, un podere.
Le radici sono anche là. Ancora oggi Elisabetta torna nella sua casa al Circeo a cercare ispirazione e
protezione. Vi trovò rifugio nei giorni del terremoto e là, del tutto sprovvista dei suoi strumenti di lavoro, ha
realizzato una maternità “dalle mille tette” usando solo cataste di cartapesta. Un buon posto impregnato della
magia di echi omerici. Anche qui, voci.
Da ragazza, volitiva e determinata, ascoltò quella dell’istinto anche quando decise di netto per la Scuola d’Arte
che frequentò a Modena e poi quando scelse l’Accademia di Scultura e la Scuola di Restauro di Firenze, alla
Fortezza da Basso. Mentre coltivava senza sosta la propria vena creativa, si sottopose alla severità dello studio
delle tecniche di restauro sotto la guida di Edo Masini. In quegli anni, anche l’emozione di lavorare nell’equipe
che si occupò del recupero del Cristo di Cimabue danneggiato dall’alluvione del 1966. Venne poi la stagione
erratica. Elisabetta prese e se ne andò nel mondo: America latina, Canada, New York. Esperienze di vita e di
lavoro che accentueranno la vocazione cosmopolita e panteistica di Elisabetta, che si sente al tempo stesso
figlia della bassa più terragna ma anche del mondo se non addirittura del cosmo.
L’Arca
Elisabetta è la sua casa, ampia e completamente accogliente, sì, proprio accogliente al punto da riempire ogni
suo spazio. Nel parco crescono insieme essenze spontanee portate dagli uccelli, un ciliegio selvatico, un
pruno, siepi senza nome, noci e acacie, accanto a cespugli di rose rare trovate in qualche remoto angolo del
mondo. Nel verde, tra i sentieri lasciati segreti e frondosi, sedili e sedute di foggia moderna e antica, un
bigliardino un po’sfatto, una grande piscina fuor di terra, le automobili sportive e statue o presenze come di
statua. La casa, un villino del primo ‘900, acquistata una trentina d’anni fa perché le aleggiava intorno un’aura
di mistero e perché ad Elisabetta piacque la copertura in legno dalle grandi travi, è uno spazio unico e aperto,
una colorata, vitale mescolanza di giorno e notte, riposo e lavoro; è atelier, soggiorno, cucina, laboratorio,
anche infermeria – avendo adattato un’ala per la madre ammalata - Quadri, sculture, mobili, suppellettili in un
apparente disordine, che induce, asseconda il libero erompere del flusso creativo. Ogni cosa è – sembra –
fuori posto: fuori dai cassetti e dagli armadi, sopra tavoli, sedie, divani; tutto fuori, per avere tutto sotto
controllo, secondo un concetto eccentrico di ordine, di governo delle cose intorno a sé. Per Elisabetta anche
la casa è come una preparazione materica, viva di mille vite, cangiante e sempre in attesa della prossima forma
che verrà. Nella cucina – salotto - laboratorio, quattro tavoli di misure diverse, disposti a U, su cui convivono
felicemente l’asse per la pasta e quello, più piccolo, per l’impasto della creta e la giostra su cui prende forma,
grado a grado, la nuova opera; sculture in terracotta in pensosa essicazione, acqua ragia, polistiroli, riviste,
fatture, radiografie, ricette mediche, un satiro bifronte modellato sull’imbuto, pomodori pelati, bottiglie
d’acqua, una scultura in gasbeton di porosità sonora; composizioni in sassi di fiume infilati in uno stecco di
ferr. Intorno, tavolinetti, rolini, sedie una diversa dall’altra; alle pareti quadri su quadri, cornici vuote, orologi
di varie fogge, anche quello, bifronte, di una vecchia stazione ferroviaria. Vicino al frigo, una specie di voliera
in ferro battuto, francese, fine ‘800, come i 4 portacandele in rame che sono nel corridoio; in realtà è un porta
bottiglie, bicchieri, brocche e caraffe in cristallo e argento. Nel luminoso angolo salotto, divani leopardati e
cuscini a stampe giapponesi. C’è anche il televisore ma su tutto campeggia un grande quadro, viraggio seppia,
che ritrae con veloci tratti a spugna una dama danzante. Nelle altre sale, tanti specchi in cornici dorate,
cineserie, porcellane, tappeti, madie, comò, armadi, scrivanie doppie, candelabri, grammofoni e quadri, e
sculture e allestimenti e composizioni… Elisabetta ha comprato buona parte dei mobili anni fa da un amico
rigattiere perché le piace conservare anche i ricordi degli altri e anche perché, nella sua concezione ecumenica
della vita e del mondo le sembra che molte cose le appartengano già e dunque le viene naturale acquistarle.
Ecco perché la sua casa sembra una nuova arca in cui tutto si salva senza differenze tra ciò che agli occhi del
mondo risulta vile o prezioso.
I temi
Elisabetta è animata da un profondo amore per la natura in tutte le sue forme. La scelta dei materiali e delle
tecniche con cui trasformarli in opere d’arte, la ricerca insistita delle corrispondenze tra macrocosmo e
microcosmo, riflettono questo incondizionato amore. Anche il modo di pensarsi come artista discende da
questa convinzione. Elisabetta crede che sia naturale solo ci. che proviene dall’istinto, dalla fantasia,
dall’immaginazione, non dal pensiero. “Le cose ragionate non sono in equilibrio, sono caos”. Sostiene di non
pensare a ciò che fa quando crea, ovvero che l’opera prende forma senza studio, come se l’artista fosse uno
strumento inconsapevole nelle mani di qualche superiore forza. Ma è davvero così? Ma, allora, come spiegare
la ricorrente rappresentazione plastica del cervello umano? Ciò che le sembra istintivo, facile, quasi
automatico e senza sforzo non è piuttosto il risultato di un lungo faticoso cammino, di una vita intera con
tutta la sua tormentata complessità fatta di conoscenza e di esperienza? Esperienza del male. Ecco l’altro
tema, ossessivo. Esperienza del male in tutte le sue forme, fisico, morale, metafisico. Elisabetta è cresciuta in
una famiglia di agiate condizioni ma ha conosciuto presto il male fisico e le mortificazioni da parte di chi non
è riuscito a comprendere la semplicità disarmante e accogliente della sua natura e la straordinarietà della sua
precocissima vocazione. Da qui a cogliere il negativo come permanenza coessenziale all’essere delle cose il
passo è stato breve. I temi altrettanto ricorrenti dell’ambiguità, del doppio, della contraddizione sono correlati
a questa tormentata visione del mondo da cui l’artista può liberarsi solo quando crea: nella libertà del gesto
artistico sta la felicità più rotonda e incontaminabile. Un bronzo, una bella testa virile dal viso incompleto,
aggredita da piccoli coccodrilli, grida l’urlo guerriero di un templare contro il maligno: ecco il manifesto
poetico che traduce questa tensione.
Le tecniche
Al tavolo di lavoro, Elisabetta, con gesto svelto e mancino, ricava dall’argilla il profilo di un volto appena
abbozzato. Ci vorrà tempo poi, prima della cottura e della fusione, ma quello che doveva accadere è già
accaduto: la forma è data. Talvolta usa l’ingobbio per ricavare effetti di iridescenza, per giocare con la luce,
come fa anche con il gasbeton, dal quale con pochi tocchi trae figure primitive che poi cosparge di polvere
naturale fluorescente. Le “carica” al sole e queste, una volta riportate al buio, rilasciano una luce lunare, per lo
stupore di chi guarda. La tecnica privilegiata è però l’incisione perché non ammette ripensamenti: “un colpo
solo”, un gesto irripetibile, una sfida senza rete di protezione. Una di queste opere, destinata a un tempio
buddista, evoca al tempo stesso la struttura dell’occhio come quella di una galassia. Elisabetta usa materiali
naturali e di scarto, ma, come un’alchimista, ne cerca di nuovi o nuovi trattamenti, studiando le piante, le
radici, le nodosità degli ulivi, che considera gli alberi più sensuali del creato. Ed è sempre in cerca di nuove
forme che insegue nella realtà naturale, nel profilo dei monti o delle nuvole.
Lavori in corso
Si immagini ora di entrare con chi scrive nello spazio aperto del laboratorio di Elisabetta, nel flusso creativo in
cui sono coinvolti l’artista e l’osservatore, per dare l’idea di un divenire che non vorrebbe cedere a nessuna
forma, tantomeno alle briglie di una scrittura ben temperata.
Agnese Benaglia
Alcune tra le più importanti mostre realizzate e premi ricevuti:
Premio Arte Mondadori – Milano 2007. 2E Suzzara (Mn) – 2007. Palazzo del Senato – Milano 2007. The Framers
Gallery – London 2009. Espace Kameleon – Paris 2009. Villa Pamphili (Critics Award) – Roma 2009. Porto Venere
Hotel – 2009. “Esart” Gallery – Barcellona 2009. Raphael Gallery – Frankfurt 2009. S. Andrea Quirinale – Roma 2010.
Art Lynx Gallery Fukuoka (Giappone) 2010. Modigliani Gallery – Milano 2010. Brik Lane Gallery – London 2010.
Arte in tricolore – Torino 2011. Monumento a Mazzini – Mantova 2011. Triennale di Roma – 2011. Miami River Art –
2012. Maestri italiani del colore – Roma 2012. Centro Congressi Rotana Amwaj – Dubai 2012. Galleria la Pigna
Vaticano – Roma 2013. Satura Gallery – Genova 2013. Art Exhibition – Milano 3013. Art Exhibition – Firenze 2013.
Dimac – Palermo 2013. Arte Fiera Genova – 2014. Art Festival Shianghai – 2014. Sogni in Laguna, Galleria 2432
Fondamenta Penini – Venezia 2016. Incontri d’Arte a cura di Vittorio Sgarbi, Spazio Culturale “A. Ratti” Largo Spallino
1 – Como 2016. “Dualità Coerenti” – Personale Galleria 2432 Fondamenta Penini – Venezia 2017. Incontri d’Arte a
cura di Vittorio Sgarbi, Villa Benzi Zecchini - Treviso Giugno 2017.
la scultrice Elisabetta Losi si presenta per la prima volta nella sua città, dal 17 novembre al 29 novembre 2018
la Galleria Arianna Sartori di Mantova nella sede di Via Cappello 17, ospiterà la mostra “Dualità Coerente”.
La mostra, curata da Arianna Sartori, presenta le opere recenti realizzate dall’artista nello studio di Moglia,
sculture e pannelli di grande impatto visivo ed emozionale, che cambiano colore in base all’intensità della luce
presente nell’ambiente dove sono collocate. Elisabetta Losi è un'artista introspettiva, che scava a fondo
nell’animo umano, così come la sua tecnica va a rivelare immagini fortemente simboliche, che si sdoppiano
come una macchia di Rorschach o che richiamano antiche paure e figure mitologiche.
Conosciuta a Mantova Elisabetta Losi, per aver realizzato il monumento a Giuseppe Mazzini, in occasione del
150° anniversario dell’Unità d’Italia, inaugurato il 1° giugno 2011, collocato nel giardinetto che costeggia via
Mazzini e guarda verso le Pescherie del Rio, commissionato dall'Associazione Mazziniana Italiana, sezione di
Mantova.
L’inaugurazione della mostra si svolgerà Sabato 17 novembre alle ore 15.30 alla presenza dell’artista con
intervento di Agnese Benaglia.
Una vocazione
Radici
Una vocazione è una chiamata che viene improvvisa e insistente da qualche parte dentro o fuori di te. E’ una
corda lanciata per essere afferrata saldamente e non cadere nel vuoto dell’insignificanza.
E’ un’esperienza straordinaria, non solo per i mistici, perché accettarla significa impegnare la propria vita per
intero, costi quel che costi. Non importano i motivi contingenti che spingono in quella direzione, frustrazioni,
esaltazioni, delusioni. Alla fine, ciò che importa, soprattutto ai tuoi occhi, sarà quello che farai dal momento in
cui hai deciso di ascoltare le tue voci di dentro.
Ecco, Elisabetta Losi ha cominciato presto a sentire le sue voci. Da bambina, quando preferiva costruire da sé
i suoi giocattoli e sporcarsi le mani con la terra. Già, la terra. La terra di corte Magnanella alle Marzette – e
siamo nella bassa della Bassa, dove tante case-navi come questa vanno alla deriva – che ancora oggi chiama a
sé Elisabetta con l’eco che misteriosamente si crea, in uno stretto cono acustico, tra lo slancio ardito di archi e
costoloni di quella cattedrale rurale che è la stalla fienile e il fianco robusto del grande palazzo a quattro
acque. E l’eco, come l’arcobaleno, è una meraviglia che sollecita l’immaginazione e apre all’infinito e ti fa
sentire il respiro del cosmo, e il desiderio di uniformare il tuo con quello.
Un’acuta percezione di appartenenza ad una dimensione sovrastante e di prodigiosa sospensione del tempo
che in Elisabetta si ripete ogni volta a Zocca, nel gomito di una curva, dove, in un fossato profondo d’acqua
tremula, alcuni alberi si specchiano, sempre uguali.
Sono le voci della terra.
La terra degli avi, del nonno paterno Oddino, dall’ampia faccia padana - Elisabetta, a soli 17 anni, la
immortalò in uno splendido bronzo - che divenne un imprenditore commerciante: acquistò il grande macello
comunale, ma i cospicui guadagni li reinvestiva in terra. Elisabetta viene da queste robuste radici celtiche
iperboree intrecciate ai rami della famiglia materna nutriti della vasta esperienza del mondo accumulata al Sud
dall’altro nonno. Un decoratore, partito da Torino per le bonifiche delle paludi Pontine, poi emigrato in
Abissinia, dove conobbe Ailè Selassiè e fece fortuna come imprenditore edile e costruttore di infrastrutture.
La famiglia si stabilirà nel Lazio, a Cisterna, in una grande villa che durante la guerra fu requisita prima dai
tedeschi poi dagli americani.
Da qui verrà la madre per incontrare Oderzo e “migliorargli la razza” – chissà, di increspature etrusche-. Gli
porterà una ricca dote: con solo le lenzuola, dirà Oddino, si sarebbe potuto comprare “an sit”, un podere.
Le radici sono anche là. Ancora oggi Elisabetta torna nella sua casa al Circeo a cercare ispirazione e
protezione. Vi trovò rifugio nei giorni del terremoto e là, del tutto sprovvista dei suoi strumenti di lavoro, ha
realizzato una maternità “dalle mille tette” usando solo cataste di cartapesta. Un buon posto impregnato della
magia di echi omerici. Anche qui, voci.
Da ragazza, volitiva e determinata, ascoltò quella dell’istinto anche quando decise di netto per la Scuola d’Arte
che frequentò a Modena e poi quando scelse l’Accademia di Scultura e la Scuola di Restauro di Firenze, alla
Fortezza da Basso. Mentre coltivava senza sosta la propria vena creativa, si sottopose alla severità dello studio
delle tecniche di restauro sotto la guida di Edo Masini. In quegli anni, anche l’emozione di lavorare nell’equipe
che si occupò del recupero del Cristo di Cimabue danneggiato dall’alluvione del 1966. Venne poi la stagione
erratica. Elisabetta prese e se ne andò nel mondo: America latina, Canada, New York. Esperienze di vita e di
lavoro che accentueranno la vocazione cosmopolita e panteistica di Elisabetta, che si sente al tempo stesso
figlia della bassa più terragna ma anche del mondo se non addirittura del cosmo.
L’Arca
Elisabetta è la sua casa, ampia e completamente accogliente, sì, proprio accogliente al punto da riempire ogni
suo spazio. Nel parco crescono insieme essenze spontanee portate dagli uccelli, un ciliegio selvatico, un
pruno, siepi senza nome, noci e acacie, accanto a cespugli di rose rare trovate in qualche remoto angolo del
mondo. Nel verde, tra i sentieri lasciati segreti e frondosi, sedili e sedute di foggia moderna e antica, un
bigliardino un po’sfatto, una grande piscina fuor di terra, le automobili sportive e statue o presenze come di
statua. La casa, un villino del primo ‘900, acquistata una trentina d’anni fa perché le aleggiava intorno un’aura
di mistero e perché ad Elisabetta piacque la copertura in legno dalle grandi travi, è uno spazio unico e aperto,
una colorata, vitale mescolanza di giorno e notte, riposo e lavoro; è atelier, soggiorno, cucina, laboratorio,
anche infermeria – avendo adattato un’ala per la madre ammalata - Quadri, sculture, mobili, suppellettili in un
apparente disordine, che induce, asseconda il libero erompere del flusso creativo. Ogni cosa è – sembra –
fuori posto: fuori dai cassetti e dagli armadi, sopra tavoli, sedie, divani; tutto fuori, per avere tutto sotto
controllo, secondo un concetto eccentrico di ordine, di governo delle cose intorno a sé. Per Elisabetta anche
la casa è come una preparazione materica, viva di mille vite, cangiante e sempre in attesa della prossima forma
che verrà. Nella cucina – salotto - laboratorio, quattro tavoli di misure diverse, disposti a U, su cui convivono
felicemente l’asse per la pasta e quello, più piccolo, per l’impasto della creta e la giostra su cui prende forma,
grado a grado, la nuova opera; sculture in terracotta in pensosa essicazione, acqua ragia, polistiroli, riviste,
fatture, radiografie, ricette mediche, un satiro bifronte modellato sull’imbuto, pomodori pelati, bottiglie
d’acqua, una scultura in gasbeton di porosità sonora; composizioni in sassi di fiume infilati in uno stecco di
ferr. Intorno, tavolinetti, rolini, sedie una diversa dall’altra; alle pareti quadri su quadri, cornici vuote, orologi
di varie fogge, anche quello, bifronte, di una vecchia stazione ferroviaria. Vicino al frigo, una specie di voliera
in ferro battuto, francese, fine ‘800, come i 4 portacandele in rame che sono nel corridoio; in realtà è un porta
bottiglie, bicchieri, brocche e caraffe in cristallo e argento. Nel luminoso angolo salotto, divani leopardati e
cuscini a stampe giapponesi. C’è anche il televisore ma su tutto campeggia un grande quadro, viraggio seppia,
che ritrae con veloci tratti a spugna una dama danzante. Nelle altre sale, tanti specchi in cornici dorate,
cineserie, porcellane, tappeti, madie, comò, armadi, scrivanie doppie, candelabri, grammofoni e quadri, e
sculture e allestimenti e composizioni… Elisabetta ha comprato buona parte dei mobili anni fa da un amico
rigattiere perché le piace conservare anche i ricordi degli altri e anche perché, nella sua concezione ecumenica
della vita e del mondo le sembra che molte cose le appartengano già e dunque le viene naturale acquistarle.
Ecco perché la sua casa sembra una nuova arca in cui tutto si salva senza differenze tra ciò che agli occhi del
mondo risulta vile o prezioso.
I temi
Elisabetta è animata da un profondo amore per la natura in tutte le sue forme. La scelta dei materiali e delle
tecniche con cui trasformarli in opere d’arte, la ricerca insistita delle corrispondenze tra macrocosmo e
microcosmo, riflettono questo incondizionato amore. Anche il modo di pensarsi come artista discende da
questa convinzione. Elisabetta crede che sia naturale solo ci. che proviene dall’istinto, dalla fantasia,
dall’immaginazione, non dal pensiero. “Le cose ragionate non sono in equilibrio, sono caos”. Sostiene di non
pensare a ciò che fa quando crea, ovvero che l’opera prende forma senza studio, come se l’artista fosse uno
strumento inconsapevole nelle mani di qualche superiore forza. Ma è davvero così? Ma, allora, come spiegare
la ricorrente rappresentazione plastica del cervello umano? Ciò che le sembra istintivo, facile, quasi
automatico e senza sforzo non è piuttosto il risultato di un lungo faticoso cammino, di una vita intera con
tutta la sua tormentata complessità fatta di conoscenza e di esperienza? Esperienza del male. Ecco l’altro
tema, ossessivo. Esperienza del male in tutte le sue forme, fisico, morale, metafisico. Elisabetta è cresciuta in
una famiglia di agiate condizioni ma ha conosciuto presto il male fisico e le mortificazioni da parte di chi non
è riuscito a comprendere la semplicità disarmante e accogliente della sua natura e la straordinarietà della sua
precocissima vocazione. Da qui a cogliere il negativo come permanenza coessenziale all’essere delle cose il
passo è stato breve. I temi altrettanto ricorrenti dell’ambiguità, del doppio, della contraddizione sono correlati
a questa tormentata visione del mondo da cui l’artista può liberarsi solo quando crea: nella libertà del gesto
artistico sta la felicità più rotonda e incontaminabile. Un bronzo, una bella testa virile dal viso incompleto,
aggredita da piccoli coccodrilli, grida l’urlo guerriero di un templare contro il maligno: ecco il manifesto
poetico che traduce questa tensione.
Le tecniche
Al tavolo di lavoro, Elisabetta, con gesto svelto e mancino, ricava dall’argilla il profilo di un volto appena
abbozzato. Ci vorrà tempo poi, prima della cottura e della fusione, ma quello che doveva accadere è già
accaduto: la forma è data. Talvolta usa l’ingobbio per ricavare effetti di iridescenza, per giocare con la luce,
come fa anche con il gasbeton, dal quale con pochi tocchi trae figure primitive che poi cosparge di polvere
naturale fluorescente. Le “carica” al sole e queste, una volta riportate al buio, rilasciano una luce lunare, per lo
stupore di chi guarda. La tecnica privilegiata è però l’incisione perché non ammette ripensamenti: “un colpo
solo”, un gesto irripetibile, una sfida senza rete di protezione. Una di queste opere, destinata a un tempio
buddista, evoca al tempo stesso la struttura dell’occhio come quella di una galassia. Elisabetta usa materiali
naturali e di scarto, ma, come un’alchimista, ne cerca di nuovi o nuovi trattamenti, studiando le piante, le
radici, le nodosità degli ulivi, che considera gli alberi più sensuali del creato. Ed è sempre in cerca di nuove
forme che insegue nella realtà naturale, nel profilo dei monti o delle nuvole.
Lavori in corso
Si immagini ora di entrare con chi scrive nello spazio aperto del laboratorio di Elisabetta, nel flusso creativo in
cui sono coinvolti l’artista e l’osservatore, per dare l’idea di un divenire che non vorrebbe cedere a nessuna
forma, tantomeno alle briglie di una scrittura ben temperata.
Agnese Benaglia
Alcune tra le più importanti mostre realizzate e premi ricevuti:
Premio Arte Mondadori – Milano 2007. 2E Suzzara (Mn) – 2007. Palazzo del Senato – Milano 2007. The Framers
Gallery – London 2009. Espace Kameleon – Paris 2009. Villa Pamphili (Critics Award) – Roma 2009. Porto Venere
Hotel – 2009. “Esart” Gallery – Barcellona 2009. Raphael Gallery – Frankfurt 2009. S. Andrea Quirinale – Roma 2010.
Art Lynx Gallery Fukuoka (Giappone) 2010. Modigliani Gallery – Milano 2010. Brik Lane Gallery – London 2010.
Arte in tricolore – Torino 2011. Monumento a Mazzini – Mantova 2011. Triennale di Roma – 2011. Miami River Art –
2012. Maestri italiani del colore – Roma 2012. Centro Congressi Rotana Amwaj – Dubai 2012. Galleria la Pigna
Vaticano – Roma 2013. Satura Gallery – Genova 2013. Art Exhibition – Milano 3013. Art Exhibition – Firenze 2013.
Dimac – Palermo 2013. Arte Fiera Genova – 2014. Art Festival Shianghai – 2014. Sogni in Laguna, Galleria 2432
Fondamenta Penini – Venezia 2016. Incontri d’Arte a cura di Vittorio Sgarbi, Spazio Culturale “A. Ratti” Largo Spallino
1 – Como 2016. “Dualità Coerenti” – Personale Galleria 2432 Fondamenta Penini – Venezia 2017. Incontri d’Arte a
cura di Vittorio Sgarbi, Villa Benzi Zecchini - Treviso Giugno 2017.
17
novembre 2018
Elisabetta Losi – Dualità Coerenti
Dal 17 al 29 novembre 2018
arte contemporanea
Location
GALLERIA ARIANNA SARTORI
Mantova, Via Cappello, 17 , (Mantova)
Mantova, Via Cappello, 17 , (Mantova)
Orario di apertura
dal Lunedì al Sabato 10.00-12.30 / 15.30-19.30. Chiuso festivi
Vernissage
17 Novembre 2018, h 15.30
Autore
Curatore