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Emilio Tadini – Opere 1965-1985
Un centinaio di opere saranno esposte nella Sala Napoleonica dell’Accademia di Brera, e negli spazi espositivi delle Fondazione Marconi e Mudima
Comunicato stampa
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Il 30 ottobre 2007 verrà inaugurata al pubblico la mostra di Emilio Tadini. Opere 1965-1985, promossa dalla Provincia di Milano con la collaborazione delle Fondazioni Marconi e Mudima, dell’Accademia di Brera e dell’Archivio Emilio Tadini.
Un centinaio di opere saranno esposte nella Sala Napoleonica dell’Accademia di Brera, e negli spazi espositivi delle Fondazione Marconi e Mudima.
Una raccolta di documenti, scritti, un omaggio all’artista sarà presente nello spazio Oberdan della Provincia.
In questa occasione, verrà stampato da Skira editore un volume di circa 250 pagine con un testo introduttivo di Vittorio Fagone e con un’ ampia selezione di testi critici dell’epoca e successivi riguardanti l’opera di Tadini dagli inizi fino al 1985. Il volume ha l’ambizione di documentare in modo rappresentativo il lavoro di Tadini di quel periodo riproducendo a colori circa 200 opere.
Una seconda mostra antologica inerente il periodo 1985 - 2002 è stata programmata per il 2009.
Alla Fondazione Mudima saranno esposte le opere dal 1965 al 1975. Il percorso parte da Le vacanze inquiete e La famiglia irreale d’Europa, nei quali già si può notare le caratteristiche che rimarranno tipiche della pittura di Tadini: il clima fantastico e surreale e la costruzione mentale del soggetto. Le immagini del Tadini, infatti, sono evidenza plastica conclusiva di un discorso mentale, cioè la figura non è puramente concettuale, ma simbolo dei processi di pensiero. Pensiero e immagine sono indissociabili e insieme conferiscono la potenza speciale, fatta di allusioni e antiche sintassi e costruzioni narrative. Altra peculiarità della sua opera, individuabile già dalle prime tele esposte, è lo svilupparsi per cicli. Il primo realizzato nel 1965, Le vacanze inquiete, seguito poi nell’anno successivo da Il posto dei bambini e Il giardino freddo. La ciclicità della pittura consente di affrontare il soggetto scelto secondo più punti di vista, individuandone ogni possibile sfumatura come accade per le serie esposte nelle sale successive, La vita di Voltaire, Circuito Chiuso, L’Uomo dell’organizzazione e Color & Co.. La prima è un’indagine del mondo della ragione illuminista: la figura umana è al centro della scena, inserita in un meccanismo onirico che ha radici freudiane. Due sono i livelli di lettura che coesistono dando vita sulla tela a un sistema di associazioni fantastiche: l’area dell’esplicito e quella del rimosso, quella dei riferimenti reali alla vita del filosofo e quella delle immagini risultate dalle libere associazioni di idee. In Circuito Chiuso, Tadini partecipa al dibattito, in corso negli anni Sessanta, sul peso negativo dei media e della TV, riflettendo sull’ambiguità di tutte le immagini che l’artista vede come “trascrizioni rispetto a un’inattingibile realtà”. In L’uomo dell’organizzazione, il pittore sviluppa l’idea di un personaggio anonimo parte di un’organizzazione, che può essere un uomo di partito, o un semplice funzionario, un personaggio un po’ cinematografico, senza volto e assolutamente anonimo che si muove in un ambiente impersonale: un’ironica destabilizzazione della figura dell’uomo.
In Color & Co., invece, l’assenza totale della figura umana rende la pittura stessa oggetto della critica pungente da parte del pittore che la riduce a vasetti e vasche di colore dissociando così il colore dall’immagine e sottolineandone quindi la materialità: non c’è nessuna allusione metafisica, ma è solo rappresentato l’oggetto in quanto oggetto. In questi primi cicli Tadini utilizza un linguaggio pittorico ispirato alla Pop Art inglese più complessa e raffinata di quella americana e nella quale è più immediatamente distinguibile l’aspetto simbolico e metaforico. La sua tecnica attinge dalla pubblicità e dal design grafico: le immagini si stagliano nette su campiture di colore piatto e la composizione si articola senza una profondità reale. Nel ciclo, Paesaggio di Malevič, la contaminazione dell’icona astratta, rappresentata dalle piatte forme geometriche del Suprematismo, avviene attraverso l’accostamento di queste a figure tridimensionali appartenenti al repertorio del quotidiano. Il tentativo di “rimettere in movimento il tessuto mistico della pittura di Malevič” s’inserisce nella riflessione sulla pittura e la sua storia che trae origine dal mondo reale e non dal mondo delle idee “pure”. Le ultime tele appartengono alla serie Museo dell’uomo nelle quali si allarga la scena, si moltiplicano i personaggi e gli oggetti volano in tutte le direzioni perdendo completamente il loro senso e la loro funzione. Un caos privo di angoscia e tristezza: una semplice constatazione dell’attuale condizione umana. Compaiono qui le parole che sconfinano dal testo e s’inseriscono nella pittura quali riferimenti all’universo letterario del Tadini scrittore.
Alla Fondazione Marconi saranno esposte le opere realizzate nel decennio 1975-1985. Il testo diventa il protagonista di alcune delle tele esposte, Testo appare come titolo dell’opera, come segno grafico e come vero e proprio testo che, stretto tra penna e pennello e circondato da macchie di colore, svela la doppia identità dell’artista pittore e scrittore. In queste opere, come anche in Parade, la scrittura come immagine e l’immagine vera e propria sono messe sullo stesso piano rendendo la superficie della tela luogo d’incontro tra lingue diverse, ma complementari.
Se la tela è il luogo metaforico d’incontro tra parole e immagini, L’atelier è il luogo fisico dove avviene questo fondamentale incontro, l’ “abboccamento”, come può far supporre l’amo al centro della composizione. L’atelier diventa così fucina di idee che si concretizzano in immagini e parole dove l’artista (la cui presenza è simboleggiata da un suo autoritratto come testa su un piedistallo) è quasi di stampo rinascimentale: una personalità poliedrica attiva su più fronti. In mostra le opere dedicate ai maestri del passato, Michelangelo, La montagna Saint-Victoire, soggetto prediletto di Cézanne, tributo all’artista considerato il padre dell’arte moderna, in cui il paesaggio provenzale della montagna è rappresentato dall’angolo di una tela voltata, Le mani di Renoir, nell’instabilità del pennello e la sedia a rotelle sono forse un riferimento allo stato di salute del pittore francese durante l’ultimo periodo della sua vita, ma anche una metafora della condizione attuale della pittura. Nelle opere della fine degli anni Settanta immagini e parole vivono sulla tela vite intrecciate, a volte in conflitto come in Natura morta con la parola fine a volte in modo complementare come in Culto. La fusione dei due poli, scritto e pittorico, crea una fitta maglia di citazioni e allusioni che rendono difficile la decifrazione della pittura di Tadini il quale può essere considerato il più astratto dei pittori figurativi dove l’astrazione è proprio rappresentata dall’idea dell’oggetto come fosse l’origine della parola più che la sua declinazione. Nel ciclo Il posto dei piccoli valori, il testo lascia spazio ai piccoli oggetti che scandiscono la vita di ognuno: persi i grandi valori, Tadini evidenzia il significato che possono avere le piccole cose. Le figure fluttuano nell’aria in una spazialità senza punti di riferimento come se si avvicendassero senza ancora aver trovato un ordine nella mente dell’uomo. Con il ciclo Disordine di un corpo classico, agli oggetti, finora protagonisti, subentra la figura umana che non ha nulla di umano se non le fattezze stilizzate. Il manichino di Tadini presenta un’immagine diversa e ambigua del corpo che diventa mostruoso, di colore azzurrognolo, appiattito perchè rappresentato, quindi non reale. La citazione dei classici è affidata ai frammenti di braccia e gambe, sparsi per la tela, che assumono vita propria come fossero reperti archeologici ritrovati e disposti in modo precario e “disordinato”.
Nella Sala Napoleonica dell’Accademia di Brera è esposto quello che si può considerare la dichiarazione poetica di Tadini: una tela dalle dimensioni monumentali sulla quale compaiono tutti gli elementi che caratterizzano la produzione dell’artista, dalle figure umane dal consueto colore atono, agli oggetti invece dai colori vivaci, alle tele voltate, al tavolo, al testo. Tadini stesso individua il tema fondamentale dell’opera “nel vedere primordiale da cui ha origine nel bambino l’atto e il senso del tracciare segni, e da cui (...) ha origine la pittura. Intorno a questo tema, all’origine del quadro, ci sono anche due frasi una di Courbet e l’altra di Duchamp – si può notare l’auto-citazione dell’opera La porta, da Tadini dedicata al grande artista e che appare nella parte sinistra della tela. Courbet ha detto: - Ci vedo troppo chiaro, dovrei spaccarmi un occhio -. Fra tutti i sensi che possono avere queste parole (...) ce c’è uno cui ci si può avvicinare chiedendosi: perchè il vedere troppo chiaro è giudicato come qualcosa che non si deve fare?
Duchamp ha detto:- Courbet è un pittore troppo retinico - . Anche qui c’è la parola “troppo”. Possiamo chiederci: quando e come un occhio, vedendo, atto in cui consiste la sua funzione specifica, può fare qualcosa che non dovrebbe fare?
Emilio Tadini
Nato a Milano nel 1927, si laurea in lettere e si distingue subito tra le voci più vive ed originali nel dibattito culturale del secondo dopoguerra. Nel 1947 esordisce su “Il Politecnico” di Elio Vittorini con un poemetto, cui fa seguito un’intensa attività critica e teorica sull’arte (Possibilità di relazione,1960; Alternative attuali, 1962; l’ampio saggio Organicità del reale, su “Il Verri”).
Nel 1963 esce il suo primo romanzo, Le armi l’amore (Rizzoli), cui seguono nel 1980 L’opera (Einaudi), nel 1987 La lunga notte (Rizzoli), nel 1991 il libro di poesie L’insieme delle cose (Garzanti) e nel 1993 l’ultimo romanzo, La tempesta (Einaudi).
Al lavoro critico e letterario Tadini affianca sin dalla fine degli anni Cinquanta la pratica della pittura. La sua prima esposizione personale è del 1961 alla Galleria del Cavallino di Venezia.
Fin dagli esordi sviluppa la propria pittura per grandi cicli, costruendo il quadro secondo una tecnica di sovrapposizione di piani temporali in cui ricordo e realtà, tragico e comico giocano di continuo uno contro l’altro.
Dal 1967 espone regolarmente allo Studio Marconie nel corso degli anni Settanta tiene esposizioni personali all’estero, a Parigi, Stoccolma, Bruxelles, Londra, Anversa, negli Stati Uniti e in America Latina, sia in gallerie private che in spazi pubblici e musei. È presente in numerose collettive.
Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1978 e nel 1982, allestisce una grande personale alla Rotonda di via Besana nel 1986, dove espone una serie di tele che preannunciano i successivi cicli dei Profughi e delle Città italiane, quest’ultimo presentato poi nel 1988 alla Tour Fromage di Aosta. Nel 1990 espone allo Studio Marconi sette grandi trittici. Del 1992 è la mostra Oltremare alla Galerie du Centre di Parigi. Nel 1993 la mostra Oltremare, con nuovi quadri, è riproposta da Marconi a Milano.
Nel 1995 espone alla Villa delle Rose di Bologna otto trittici del ciclo Il ballo dei filosofi. A partire dall’autunno del 1995 fino all’estate del 1996 ha luogo in Germania una grande mostra antologica nei musei di Stralsund, Bochum e Darmstadt, accompagnata da una monografia a cura di Arturo Carlo Quintavalle. Nel 1996 Il ballo dei filosofi è riproposto da Marconi.
Nel 1997 tiene mostre personali presso la Galerie Karin Fesel di Düsseldorf, la Galerie Georges Fall di Parigi e il Museo di Castelvecchio a Verona. Gli ultimi cicli esposti sono quelli delle Fiabe e delle Nature morte. Nel 1999 presenta il ciclo delle Fiabe alla Die Galerie di Francoforte.
Per alcuni anni è commentatore del “Corriere della Sera” e dal 1997 al 2000 è presidente dell’Accademia di Belle Arti di Brera.
Nel 2001 gli è dedicata un’ampia retrospettiva nel Palazzo Reale di Milano.
Muore nel settembre 2002. Nella primavera del 2005 il Museo Villa dei Cedri di Bellinzona gli dedica una grande mostra antologica.
Un centinaio di opere saranno esposte nella Sala Napoleonica dell’Accademia di Brera, e negli spazi espositivi delle Fondazione Marconi e Mudima.
Una raccolta di documenti, scritti, un omaggio all’artista sarà presente nello spazio Oberdan della Provincia.
In questa occasione, verrà stampato da Skira editore un volume di circa 250 pagine con un testo introduttivo di Vittorio Fagone e con un’ ampia selezione di testi critici dell’epoca e successivi riguardanti l’opera di Tadini dagli inizi fino al 1985. Il volume ha l’ambizione di documentare in modo rappresentativo il lavoro di Tadini di quel periodo riproducendo a colori circa 200 opere.
Una seconda mostra antologica inerente il periodo 1985 - 2002 è stata programmata per il 2009.
Alla Fondazione Mudima saranno esposte le opere dal 1965 al 1975. Il percorso parte da Le vacanze inquiete e La famiglia irreale d’Europa, nei quali già si può notare le caratteristiche che rimarranno tipiche della pittura di Tadini: il clima fantastico e surreale e la costruzione mentale del soggetto. Le immagini del Tadini, infatti, sono evidenza plastica conclusiva di un discorso mentale, cioè la figura non è puramente concettuale, ma simbolo dei processi di pensiero. Pensiero e immagine sono indissociabili e insieme conferiscono la potenza speciale, fatta di allusioni e antiche sintassi e costruzioni narrative. Altra peculiarità della sua opera, individuabile già dalle prime tele esposte, è lo svilupparsi per cicli. Il primo realizzato nel 1965, Le vacanze inquiete, seguito poi nell’anno successivo da Il posto dei bambini e Il giardino freddo. La ciclicità della pittura consente di affrontare il soggetto scelto secondo più punti di vista, individuandone ogni possibile sfumatura come accade per le serie esposte nelle sale successive, La vita di Voltaire, Circuito Chiuso, L’Uomo dell’organizzazione e Color & Co.. La prima è un’indagine del mondo della ragione illuminista: la figura umana è al centro della scena, inserita in un meccanismo onirico che ha radici freudiane. Due sono i livelli di lettura che coesistono dando vita sulla tela a un sistema di associazioni fantastiche: l’area dell’esplicito e quella del rimosso, quella dei riferimenti reali alla vita del filosofo e quella delle immagini risultate dalle libere associazioni di idee. In Circuito Chiuso, Tadini partecipa al dibattito, in corso negli anni Sessanta, sul peso negativo dei media e della TV, riflettendo sull’ambiguità di tutte le immagini che l’artista vede come “trascrizioni rispetto a un’inattingibile realtà”. In L’uomo dell’organizzazione, il pittore sviluppa l’idea di un personaggio anonimo parte di un’organizzazione, che può essere un uomo di partito, o un semplice funzionario, un personaggio un po’ cinematografico, senza volto e assolutamente anonimo che si muove in un ambiente impersonale: un’ironica destabilizzazione della figura dell’uomo.
In Color & Co., invece, l’assenza totale della figura umana rende la pittura stessa oggetto della critica pungente da parte del pittore che la riduce a vasetti e vasche di colore dissociando così il colore dall’immagine e sottolineandone quindi la materialità: non c’è nessuna allusione metafisica, ma è solo rappresentato l’oggetto in quanto oggetto. In questi primi cicli Tadini utilizza un linguaggio pittorico ispirato alla Pop Art inglese più complessa e raffinata di quella americana e nella quale è più immediatamente distinguibile l’aspetto simbolico e metaforico. La sua tecnica attinge dalla pubblicità e dal design grafico: le immagini si stagliano nette su campiture di colore piatto e la composizione si articola senza una profondità reale. Nel ciclo, Paesaggio di Malevič, la contaminazione dell’icona astratta, rappresentata dalle piatte forme geometriche del Suprematismo, avviene attraverso l’accostamento di queste a figure tridimensionali appartenenti al repertorio del quotidiano. Il tentativo di “rimettere in movimento il tessuto mistico della pittura di Malevič” s’inserisce nella riflessione sulla pittura e la sua storia che trae origine dal mondo reale e non dal mondo delle idee “pure”. Le ultime tele appartengono alla serie Museo dell’uomo nelle quali si allarga la scena, si moltiplicano i personaggi e gli oggetti volano in tutte le direzioni perdendo completamente il loro senso e la loro funzione. Un caos privo di angoscia e tristezza: una semplice constatazione dell’attuale condizione umana. Compaiono qui le parole che sconfinano dal testo e s’inseriscono nella pittura quali riferimenti all’universo letterario del Tadini scrittore.
Alla Fondazione Marconi saranno esposte le opere realizzate nel decennio 1975-1985. Il testo diventa il protagonista di alcune delle tele esposte, Testo appare come titolo dell’opera, come segno grafico e come vero e proprio testo che, stretto tra penna e pennello e circondato da macchie di colore, svela la doppia identità dell’artista pittore e scrittore. In queste opere, come anche in Parade, la scrittura come immagine e l’immagine vera e propria sono messe sullo stesso piano rendendo la superficie della tela luogo d’incontro tra lingue diverse, ma complementari.
Se la tela è il luogo metaforico d’incontro tra parole e immagini, L’atelier è il luogo fisico dove avviene questo fondamentale incontro, l’ “abboccamento”, come può far supporre l’amo al centro della composizione. L’atelier diventa così fucina di idee che si concretizzano in immagini e parole dove l’artista (la cui presenza è simboleggiata da un suo autoritratto come testa su un piedistallo) è quasi di stampo rinascimentale: una personalità poliedrica attiva su più fronti. In mostra le opere dedicate ai maestri del passato, Michelangelo, La montagna Saint-Victoire, soggetto prediletto di Cézanne, tributo all’artista considerato il padre dell’arte moderna, in cui il paesaggio provenzale della montagna è rappresentato dall’angolo di una tela voltata, Le mani di Renoir, nell’instabilità del pennello e la sedia a rotelle sono forse un riferimento allo stato di salute del pittore francese durante l’ultimo periodo della sua vita, ma anche una metafora della condizione attuale della pittura. Nelle opere della fine degli anni Settanta immagini e parole vivono sulla tela vite intrecciate, a volte in conflitto come in Natura morta con la parola fine a volte in modo complementare come in Culto. La fusione dei due poli, scritto e pittorico, crea una fitta maglia di citazioni e allusioni che rendono difficile la decifrazione della pittura di Tadini il quale può essere considerato il più astratto dei pittori figurativi dove l’astrazione è proprio rappresentata dall’idea dell’oggetto come fosse l’origine della parola più che la sua declinazione. Nel ciclo Il posto dei piccoli valori, il testo lascia spazio ai piccoli oggetti che scandiscono la vita di ognuno: persi i grandi valori, Tadini evidenzia il significato che possono avere le piccole cose. Le figure fluttuano nell’aria in una spazialità senza punti di riferimento come se si avvicendassero senza ancora aver trovato un ordine nella mente dell’uomo. Con il ciclo Disordine di un corpo classico, agli oggetti, finora protagonisti, subentra la figura umana che non ha nulla di umano se non le fattezze stilizzate. Il manichino di Tadini presenta un’immagine diversa e ambigua del corpo che diventa mostruoso, di colore azzurrognolo, appiattito perchè rappresentato, quindi non reale. La citazione dei classici è affidata ai frammenti di braccia e gambe, sparsi per la tela, che assumono vita propria come fossero reperti archeologici ritrovati e disposti in modo precario e “disordinato”.
Nella Sala Napoleonica dell’Accademia di Brera è esposto quello che si può considerare la dichiarazione poetica di Tadini: una tela dalle dimensioni monumentali sulla quale compaiono tutti gli elementi che caratterizzano la produzione dell’artista, dalle figure umane dal consueto colore atono, agli oggetti invece dai colori vivaci, alle tele voltate, al tavolo, al testo. Tadini stesso individua il tema fondamentale dell’opera “nel vedere primordiale da cui ha origine nel bambino l’atto e il senso del tracciare segni, e da cui (...) ha origine la pittura. Intorno a questo tema, all’origine del quadro, ci sono anche due frasi una di Courbet e l’altra di Duchamp – si può notare l’auto-citazione dell’opera La porta, da Tadini dedicata al grande artista e che appare nella parte sinistra della tela. Courbet ha detto: - Ci vedo troppo chiaro, dovrei spaccarmi un occhio -. Fra tutti i sensi che possono avere queste parole (...) ce c’è uno cui ci si può avvicinare chiedendosi: perchè il vedere troppo chiaro è giudicato come qualcosa che non si deve fare?
Duchamp ha detto:- Courbet è un pittore troppo retinico - . Anche qui c’è la parola “troppo”. Possiamo chiederci: quando e come un occhio, vedendo, atto in cui consiste la sua funzione specifica, può fare qualcosa che non dovrebbe fare?
Emilio Tadini
Nato a Milano nel 1927, si laurea in lettere e si distingue subito tra le voci più vive ed originali nel dibattito culturale del secondo dopoguerra. Nel 1947 esordisce su “Il Politecnico” di Elio Vittorini con un poemetto, cui fa seguito un’intensa attività critica e teorica sull’arte (Possibilità di relazione,1960; Alternative attuali, 1962; l’ampio saggio Organicità del reale, su “Il Verri”).
Nel 1963 esce il suo primo romanzo, Le armi l’amore (Rizzoli), cui seguono nel 1980 L’opera (Einaudi), nel 1987 La lunga notte (Rizzoli), nel 1991 il libro di poesie L’insieme delle cose (Garzanti) e nel 1993 l’ultimo romanzo, La tempesta (Einaudi).
Al lavoro critico e letterario Tadini affianca sin dalla fine degli anni Cinquanta la pratica della pittura. La sua prima esposizione personale è del 1961 alla Galleria del Cavallino di Venezia.
Fin dagli esordi sviluppa la propria pittura per grandi cicli, costruendo il quadro secondo una tecnica di sovrapposizione di piani temporali in cui ricordo e realtà, tragico e comico giocano di continuo uno contro l’altro.
Dal 1967 espone regolarmente allo Studio Marconie nel corso degli anni Settanta tiene esposizioni personali all’estero, a Parigi, Stoccolma, Bruxelles, Londra, Anversa, negli Stati Uniti e in America Latina, sia in gallerie private che in spazi pubblici e musei. È presente in numerose collettive.
Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1978 e nel 1982, allestisce una grande personale alla Rotonda di via Besana nel 1986, dove espone una serie di tele che preannunciano i successivi cicli dei Profughi e delle Città italiane, quest’ultimo presentato poi nel 1988 alla Tour Fromage di Aosta. Nel 1990 espone allo Studio Marconi sette grandi trittici. Del 1992 è la mostra Oltremare alla Galerie du Centre di Parigi. Nel 1993 la mostra Oltremare, con nuovi quadri, è riproposta da Marconi a Milano.
Nel 1995 espone alla Villa delle Rose di Bologna otto trittici del ciclo Il ballo dei filosofi. A partire dall’autunno del 1995 fino all’estate del 1996 ha luogo in Germania una grande mostra antologica nei musei di Stralsund, Bochum e Darmstadt, accompagnata da una monografia a cura di Arturo Carlo Quintavalle. Nel 1996 Il ballo dei filosofi è riproposto da Marconi.
Nel 1997 tiene mostre personali presso la Galerie Karin Fesel di Düsseldorf, la Galerie Georges Fall di Parigi e il Museo di Castelvecchio a Verona. Gli ultimi cicli esposti sono quelli delle Fiabe e delle Nature morte. Nel 1999 presenta il ciclo delle Fiabe alla Die Galerie di Francoforte.
Per alcuni anni è commentatore del “Corriere della Sera” e dal 1997 al 2000 è presidente dell’Accademia di Belle Arti di Brera.
Nel 2001 gli è dedicata un’ampia retrospettiva nel Palazzo Reale di Milano.
Muore nel settembre 2002. Nella primavera del 2005 il Museo Villa dei Cedri di Bellinzona gli dedica una grande mostra antologica.
30
ottobre 2007
Emilio Tadini – Opere 1965-1985
Dal 30 ottobre al 20 dicembre 2007
arte contemporanea
Location
FONDAZIONE MARCONI
Milano, Via Alessandro Tadino, 15, (Milano)
Milano, Via Alessandro Tadino, 15, (Milano)
Orario di apertura
martedì – sabato ore 10,30-12,30 e 15,30-19 (chiuso dal 23 dicembre al 10 gennaio)
Vernissage
30 Ottobre 2007, ore 19
Editore
SKIRA
Ufficio stampa
CRISTINA PARISET
Autore
Curatore