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Ennio Galice 1943-1999 – La misura civile dell’arte
Nell’esposizione sono raccolte le tele più importanti e quotate, molte delle quali sono state recuperate in via eccezionale dalle collezioni private.
Comunicato stampa
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“Ennio Galice, 1943-1999, La misura civile dell’arte”. Questo il titolo della mostra commemorativa dedicata al pittore civitavecchiese che dal 4 al 13 novembre sarà ospitata nella Sala Egon von Fürstenberg di Palazzo Valentini a Roma per essere poi trasferita nel Maschio del Forte Michelangelo di Civitavecchia dal 21 novembre all’8 dicembre 2009. L’evento è stato promosso dai famigliari dell’artista per celebrare l’anniversario decennale della sua prematura scomparsa ed ha ricevuto il sostegno e l’entusiasta Patrocinio della Provincia di Roma e del Comune di Civitavecchia. A promuovere l’iniziativa due associazioni culturali di Civitavecchia, l’Associazione Archeologica Centumcellae, storica istituzione insignita di Medaglia d’Oro dal Presidente della Repubblica per meriti culturali, e la giovane Associazione Spartaco impegnata in modo trasversale nel campo dell’arte e della cultura, entrambe chiamate dalla famiglia Galice a presentare il progetto ed a simboleggiare un ideale di rinnovamento: un tema fondante nella carriera umana e pittorica di Ennio. Nell’esposizione sono raccolte le tele più importanti e quotate, molte delle quali sono state recuperate in via eccezionale dalle collezioni private. “Vogliamo ricordare l’artista – commenta il figlio Michele – dopo il successo della mostra antologica del 2000, con una mostra frutto di uno sforzo organizzativo ed editoriale finalmente ragionato e selettivo, che nasce dal desiderio di ricostruire il suo eclettico e complesso itinerario artistico, snodatosi attraverso cifre stilistiche spesso diverse ma legate da un’unica, costante, profonda attenzione al sociale”.
Il Maestro Ennio Calabria, che ha firmato la presentazione del catalogo realizzato grazie al contributo prestigioso della Fondazione Cariciv, ricorda ancora con affetto il collega con il quale condivise tante esperienze artistiche, tra le quali una memorabile mostra organizzata alla fine degli anni ’80 presso le splendide sale del Forte Michelangelo. “Ennio, eri pittore di energia vitale che si innervava nelle cicatrici della vita – scrive Calabria in qualità di presidente del Comitato d’Onore della mostra nelle prime pagine del catalogo – sempre attento al mistero della vita nel tempo della storia, sempre coinvolto nel destino dei processi mentali del nostro presente, ci hai lasciato la tua tensione testimoniale e le appassionate tracce di una intensa ricerca carica di sviluppi futuri e tradita da una precoce morte”.
Una tecnica quella di Galice che Aldo Sclano, autore del testo critico del catalogo, definisce “mossa dalla volontà di scolpire la materia, di manipolare e dare forma significante alla consistenza, alla massa, alla densità. La verità dei temi e dei soggetti e la plasticità delle scelte formali adottate confermano la natura forte e serena dei suoi impegni umani e delle sue predisposizioni estetiche; la sua è stata una vicenda artistica durata trentacinque anni in cui il vero della vita e della società non è stato mai tradito per il verosimile edulcorato dalla gradevolezza di moda o dalla seriosità schierata ad alludere concetti criptici e misteriosi. Un’opera quella di Galice – ha commentato Sclano - vissuta non all’insegna dell’accumulo espressivo addensato in più gesti e occasioni di facile ribalta, ma la responsabile traccia di una cosciente testimonianza che, sempre – sia nell’esercizio stilistico, sia nel senso storico e metaforico di ogni singolo lavoro – ha conservato l’integrità del rapporto tra l’uomo e l’artista, tra il cittadino e il suo tempo. Un esempio di come la rettitudine possa rappresentarsi concezione e misura d’arte”.
In concomitanza con la mostra di Civitavecchia ci sarà l’apertura straordinaria della Chiesa del Stella, storica sede dell’antica Arciconfraternita del Gonfalone, per mostrare le originali pitture acriliche di Galice che decorano le pareti dell’abside e i pannelli della Via Crucis, affissi nella navata centrale; inoltre sarà possibile ammirare disegni e dipinti su tela realizzati durante la fase preparatoria ed allestiti per l’occasione. Un appuntamento molto atteso anche dalla cittadinanza di Civitavecchia tutta, da sempre legata alla figura di Galice, artista che ha sempre coniugato la sua sensibilità artistica con una profonda attenzione al sociale che emerge in modo efficace nel testo introduttivo del catalogo, a cura di Giovanni Insolera: una sorta di biografia “critica”, ripercorsa attraverso ricordi personali ed eventi della vita civile, che restituisce il significato profondo del percorso di vita del pittore. Una sintesi del suo impegno è ben visibile, oltre tutto, nelle opere realizzate durante gli anni ’70: una serie di strepitosi manifesti creati a sostegno di campagne di sensibilizzazione sociale o di promozione culturale.
E ancora, alcune pitture che dimostrano l’impegno sindacale del pittore con la CGIL e con il mondo del lavoro. Proprio l’organizzazione sindacale oltre a partecipare all’organizzazione dell’evento, ha deciso di ricordare la figure di Galice con la stampa di un manifesto celebrativo, che verrà distribuito ai visitatori della mostra, con una raccolta emblematica dei manifesti di quegli anni.
Non da ultimo parteciperà al decennale dell’artista il mondo scolastico e culturale dell’intero territorio. Civitavecchia ha infatti intitolato alla memoria del professore ancora prima che dell’artista, una scuola media. Galice ha investito con passione le proprie energie a supporto degli alunni, dell’efficienza e del prestigio dell’Istituto. “Il merito di questa iniziativa - ha precisato il figlio Michele - sorprendente per i modi ed i tempi con i quali è stata realizzata va riconosciuto a tutto il corpo docente, agli alunni e ai loro genitori, ed in particolar modo al Dirigente Scolastico di allora, la Dott.ssa Vincenza la Rosa, presente oggi nel Comitato d’Onore come anche l’attuale Dirigente della scuola”.
La misura civile dell’ arte
Già dieci anni! Eppure il ricordo non risale ad un suo gesto, a un episodio di particolare vivacità e colore, semmai a collane di occasioni, anche cicliche, e la sua storia costituisce una ragione di profondo e affettuoso rimpianto per chi ne era amico e di grande rispetto per quanti ne riconoscono il nome; per tutti Ennio Galice ha significato e rappresentato una figura da accreditare di stima pubblica condivisa, e di totale apprezzamento per la sua attività di disegnatore grafico e pittore. Sono passati dieci anni da quando con serenità (e non di rado coraggiosa ironia) riceveva, ammalato, gli amici a casa; un lungo prolungato saluto il suo, un addio durato purtroppo pochi mesi (ospedali come disperate parentesi, lotte contro il male impugnando medicine e speranze) poi, nel Marzo del ‘99, la chiesa cattedrale inondata dalle voci dei suoi allievi che lo ricordano, e gremita dai silenzi commossi di centinaia di persone.
Nel 2000 la mostra postuma nel maschio del Forte Michelangelo: “acrilici, disegni, litografie, manifesti” recita la copertina del catalogo; un’antologica che costituisce un richiamo, una convocazione, un omaggio, un tributo al raduno rappresentativo delle sue opere. La città lo riconosce, lo incontra definitivamente; il mondo politico cittadino, i colleghi della scuola e la cultura, gli artisti, la società stratificata di estimatori convergono, la stampa e i media documentano.
Nel 2003 una scuola media, dove ha insegnato tanti anni, si titola del suo nome, sanziona il legame con lui, fonde il suo ricordo al futuro dei ragazzi, diventa la “ Ennio Galice”.
L’ultima sua mostra personale aveva presentato - ancora al Forte - le quattordici soste delle stazioni tradizionali della Via Crucis – marzo ‘ 98 – poi installate a percorso nella chiesa della Stella, a Civitavecchia; tavole acriliche in cui lo straziante cammino è a tessere nette, luminose, il colore incisivo, le forme gemmate, le scene ambientate in riferimenti serrati, gli episodi, occasioni di dolore che la vivezza dei gesti e dei volumi acuisce qua e là, Civitavecchia compare come quinta e come sfondo. Nel ’95 presenta nei locali di Via Cadorna, al Ghetto, dieci bozzetti e litografie a colori, in occasione del primo anniversario dello scoprimento degli affreschi, dipinti nella chiesa della Stella a piazza Leandra, negli anni dal ’92 al ’94; litografie che sebbene interpretino momenti “ pietosi” del rapporto città/tradizioni popolari religiose – occasioni di memoria dell’ attività, pia e caritatevole, di una delle confraternite cittadine più storicamente riconosciute, l’Arciconfraternita del Gonfalone – sono vive vibranti smaltate nella loro intenzione e compito di riproporre quel tempo, quel momento, quelle figure incappucciate, quei derelitti a terra, quelle strutture che le situano. Esse sintetizzano pur nella loro autonomia, riconvocano i personaggi e le scene dei riquadri e della volta che E. Galice affrontò e trasformò - polarizzando metaforicamente un gigantesco segno di croce - le pareti, incorniciate, fin allora di vuoto, ai lati dell’altare, e la volta soprastante. Costanzo Costantini, che introduce le litografie e richiama gli affreschi, parla di esempio ricevuto dagli antichi maestri e di lezione rivissuta e interpretata del Neo Cubismo e neo espressionismo del realismo pittorico italiano.
Nella piena maturità di uomo e artista si dedica – infatti – a un lavoro tecnicamente arduo, operativamente faticoso, ideologicamente e culturalmente impegnativo; rappresenta luoghi, indica oggetti, situa figure e personaggi, ambienta situazioni storicizzate, ma soprattutto crea l’atmosfera e gli scenari in cui la misericordia si compie, il gesto misericordioso avviene, e il rituale cittadino della penitenza cristiana si innesta nella tradizione e nel tessuto urbano della città; due grandi rettangoli affrontati e opposti, 15 metri quadri, circa, ciascuno, sormontati e idealmente uniti da stormi di gabbiani e colombe in volo nei 50 m quadri – poco meno – del cielo della volta; da disegnare, colorare, dipingere, in piedi, sdraiato, in ginocchio, su ponteggi traballanti, a luce radente, d’estate, d’inverno, per quasi due anni - centinaia di schizzi, cartoni preparatori, prove ripensamenti e badare all’amalgama di sabbia, calce, polvere di marmo; colle tempere acrilici, sagome… e la propria vita di insegnante, la famiglia, l’impegno sociale.
Eppure di fronte alle tre grandi pagine non si è al cospetto di un compito con diligente osservanza assolto; non si ha l’impressione di ammirare della buona composta pittura murale, devotamente applicata e celebrativa. C’è rilievo, forza nelle anatomie come negli ambienti, plasticità e sintesi nei dettagli, masse e volumi organicamente sbalzati dalla luce dipinta; il colore non deperisce o s’accende in modo tonale, s’incastra, se deve, a comporre insiemi disegnati da soglie contigue di luce, o via via scala a piani a prospettare un rilievo e incupire un vuoto. Si ravvisa una sorta di vitalità anche nelle cose immobili, posate, la cui densità forma e peso fanno ingombro pieno, tattile, presente. Non è pittura intimidita e devozionale, sfumata e sommessa; l’uomo pittore dipinge a voce chiara, non ottempera su registri di una tavolozza reverente, propone e offre le sue richieste, le sue domande oneste, rispetta profondamente la storia e il rito, rilevando, però, ed eleggendo in primo piano, la concretezza della carne offesa e penitente, affidando sempre a solide vitali figure femminili, la tensione della rinascita e la genuflessione della preghiera.
“ … Poche ore prima della sua fine faceva progetti … ebbi ancora prova della sua forza … della sua profonda religiosità laica … Solo un animo sinceramente religioso “ – sosterrà nel 2000 il Cav. Gianni De Paolis, amico, priore dell’Arciconfraternita del Gonfalone, e committente dei lavori – “ poteva conferire e imprimere tanta forza, drammaticità e spiritualità alle raffigurazioni nella chiesa della Stella, a Civitavecchia”.
Il riquadro de ‘la Misericordia’ a sinistra, in ambiente chiaramente cittadino, fa incontrare, all’oggi, l’ultimo responsabile della confraternita, lo stesso priore, al più “vicino” – una donna – dei derelitti, piegato; dietro l’uno e l’altra, la fila secolare delle pie figure titolari dell’associazione e la rassegna stremata dei bisognosi a terra.
Nella parete de “la Penitenza, di fronte, il pittore ferma un momento della processione del venerdì santo, blocca, in piena città storica, il corteo di chi, gravato di catene ai piedi e di statue della passione sulle spalle, anonimo, incappucciato, si libera della mondanità quotidiana e si rintana in percorso che lo affatica e umilia per ore, scalzo e in silenzio, sulle strade dove, di solito, vive e lavora.
La volta sopra l’altare, animata dalla grazia di voli azzurri e bianchi, salvifici, spiove, arcuata e regolare, a unire le due pareti laterali, le cui figure imponenti e non di rado frontali, attorniano e porgono il senso della loro pia ed ammonente presenza.
Ottanta metri quadri complessivi, decine di figure, architetture e fondali civici e religiosi … Un modulo linguistico equilibrato, misuratamente cubista, rigorosamente innestato a bilanciare volumi a espressioni, colori a figure, rapportato a coniugare la devozione religiosa e la solidarietà umana; il disegno staglia, le tinte identificano nette dove la luce illumina e campeggia: il Forte Michelangelo, il bacino del porto, le mura medievali, la facciata della Stella, la porta urbana de l’Archetto, S. Maria dell’Orazione … La città è stata messa in scena, eletta e riconosciuta scenario degli eventi interpretati, dei suoi gesti antichi e delle tradizioni scese fino all’oggi.
Nel 93 Civitavecchia, insediamento quasi bi-millenario attorno a un bacino portuale, scalo marittimo tra i più importanti – dalle navi romane agli scafi superveloci, passando per le galere pontificie – non può non rammentare uno degli avvenimenti più tragici della sua storia recente: il primo bombardamento, subito durante la seconda guerra mondiale, nel maggio del ’43; devastazione, centinaia di vittime, fughe precipitose, dispersi. Gli artisti, cinquant’anni dopo, propongono le loro opere come tributo, riflessione, osservazione estetica del presente. Galice è in prima fila; con un collega pittore – Pino Marzi – e uno scultore – Piero Luciani, presso il centro culturale di Villa Albani, nella mostra “Da Allora”, richiama e accosta altri gravi storici avvenimenti; una notevole serie di disegni chinati riporta a un’altra fuga, a un altro abbandono della città a causa di un’altra aggressione; l’assalto dei saraceni alla costa nella prima metà del nono secolo; e paragona terrore a terrore, tecnologia devastante a ferocia piratesca antica, esplosioni dilanianti allo strazio diretto della spada. Un lessico grafico il suo, asciutto, tragico nel racconto e severo nel segno, che svela paure ferite, ammassi di corpi, innocenze calpestate, angosce e affanni in fuga. Fonde storia e cronaca leggendaria in un’unica memoria dolorosa e come sempre le sue tavole sono risolte con plasticità ferma e solida e le figure inquadrate in una corporeità vibrante.
Ma non è naturalmente interessato soltanto alle vicende locali; partecipa più che attivamente alla vita culturale della città, ma non si limita certo a registrare creativamente, le iniziative civiche e rappresentative dell’ambiente. Per lui, la figura umana, sempre: eletta a cardine, modulo, senso e portata critica, o tastiera di ricerca estetica e studio continuo, cui affida da sempre le riflessioni del suo riconoscersi cittadino – artista. Rarissimi i paesaggi dipinti – luminoso e intersecato il “il paesaggio pugliese” della metà degli anni ’70 – e di interni domestici a piani e oggetti compenetrati di volumi e luci tinte; certamente singolare un corposo “astratto” a olio, ancora degli anni ’60, a tessere scalate di ocra e grigi, sormontate da intrusioni curve di nero fondo.
Nella primavera del ’90 – introdotto dalle amichevoli parole del sindaco Barbaranelli, presentato dal critico Dario Micacchi, supportato e patrocinato dalla Provincia di Roma, il cui assessore al bilancio, Pietro Tidei, si dice sicuro della posizione consolidata dal pittore nel campo dell’arte contemporanea – nelle grandi sale del Centro Culturale di Villa Albani a Civitavecchia appaiono numerose figure disegnate e dipinte, tracciate e cromaticamente “comunicate”: sono figure di donne che si atteggiano, posano, indossano drappi di pittura; sono immobili e avanzano, spaziano i vuoti o concorrono con un limite, una distanza blu o verde a creare un vezzo di ambiente. Sono le “modelle”. L’Associazione culturale “Progetto 89” cura e organizza l’evento.
Il modello umano che indossa il capo elegante e di gran disegno, l’“esemplare” chiamato a concedersi per ostentare e dimostrare bellezza e status, non può non possederne già di suo e accordare, armonizzare la propria presenza e garbo alla suggestione fascinosa connessa alla firma e all’originalità del “pezzo”. Ma le modelle sono indossatrici, lavoratrici, e anche nella dimensione professionale, restano sempre soggette al tempo, al luogo, vulnerabili; proporle, crearle in una verosimiglianza che privilegia il ruolo “stiloso” e mondano, introduce e ammette immediatamente anche la spoliazione della distaccata ricercatezza, per ritrovare i tratti umani del rilassamento, del riposo momentaneo, del gesto che indossa solo la propria naturalezza. Andare oltre la facciata dello status per rivendicare l’autenticità della persona. Ennio Galice inventa e calibra le due forme di visione: nel ventaglio della passerella “dovuta” per l’esteriorità conveniente e il contrappunto dei momenti lassi, inerti e appartati. E la sua pittura è, forse, domanda: dobbiamo (ri)vestirci per essere gradevoli? Accettare un conseguente – inevitabile (?) - status mitologico? Indossare una disinvoltura artificiale perché ciò che connesso a noi sia valore, e viceversa? Prestarci e produrci, quindi, in un gioco e sistema di apparenze? Il proprio e il vero “truccato” perché la preziosità superficiale accrediti l’esibizione (indotta) come distinzione? La qualità, la verità, non può essere priva di curato artificio? Le modelle sono l’eleganza quando posano, celebrate dal successo della loro vetrina, quando la femminilità loro nei gesti spogli, adagiati, concessi al riposo, è trascurabile? Esempi – le modelle – di pittura tanto concertata e ricca quanto significativa: i colori sono pieni estesi, l’anatomia dei corpi si erotizza nella dinamica interna che le tinte accendono di fascinazione; le linee chiudono corpi musicali, espansi di vita, morbidi di giovinezza, colmi e sodi, plasticamente monumentali a nominare lo spazio e giustificare come cornice i vuoti; insignite di una verticalità goduta dal basso, campeggiano frontali o sinuosamente profilate, tra sicurezze eleganti e immobilità sontuose; fasciate di blu luminoso o amaranti, carni sempre dichiarate calde a staccarsi nette da sfondi verdi, neri signorili, terre che rilevano le “stoffe”. Accese e bellissime le modelle specchiamo una delle manifestazioni di costume più diffusamente seguite del nostro tempo, dalla pittura di Galice immaginate e interpretate nello spartito - per fortuna – sottoposto a noi.
Di quegli anni “il Minotauro” – un grande acrilico – dove un giovane corpo femminile, vestito di azzurro intenso e verde drappeggiato libero, avanza indicando un uomo – Minotauro, dimesso e accasciato, e chiama convocando testimonianza e partecipazione di libertà; il “mostro” è in secondo piano, nudo e seduto, la ragazza in piedi, scorre, passo falcato, ritta forte risoluta.
Nel Gennaio dell’87 la mostra al Forte Michelangelo, in cui espone con Ennio Calabria – uno dei pittori italiani più significativi, impegnato nella pittura attenta al sociale – con Vespignani, Attardi, molti altri e … lo stesso Guttuso – della generazione che si fece riconoscere nel decennio degli anni ’50. Presenta, Ennio Galice, la prima serie di “modelle” e i disegni a china – rivisti e ampliati – con cui, mesi prima, aveva corredato e illustrato il volume in versi del poeta Ugo Marzi “Mamma li turchi”. Suoi lavori, sia di grafica espressiva, comunicazione sociale o singole opere pittoriche, oli e acrilici, in quegli anni figurano già da tempo in collezioni private in Italia – Milano Roma, Venezia, Ascoli Piceno, etc. e all’estero – Montevideo, Budapest, e presso Enti pubblici – Scuole, Cooperative, Sindacati.
Nel marzo dello stesso anno è chiamato a illustrare la speciale pubblicazione edita dal comune di Civitavecchia, in occasione della visita in città di S. Santità Giovanni Paolo II; disegni ariosi, volumetrie monumentali urbane, scorci del porto, vascelli in flotta, armigeri, corazze, cavalli e, in copertina, il Pontefice che benedice la città e i suoi edifici civili e religiosi.
Nell’83, tra i pittori Vallarino, Mobbs, Armillei, Moraja, Massaccesi e Solinas, Ennio Galice fonda il “Gruppo Figurazione ‘83” rivendicando, con lo statuto e la proiezione del movimento, la valenza critica ed estetica che il Gruppo pienamente accredita ancora alla matrice e alla figura dell’uomo. Pochi anni prima, nell’81, lo stesso Ennio Calabria presenta il collega in una personale; sono e sono trascorsi anni corrivi, di tensione sociale, terrorismo, contrapposizioni politiche, contestazioni sindacali; ma anche fecondi di partecipazione, conquiste, rivendicazioni e coscienza di diritti civili; i media - ormai tecnologicamente aggressivi – pubblicizzano e sfruttano sempre più ogni risorsa visiva, sia essa il corpo della donna, un evento di cronaca, una manifestazione, sia un prodotto di status, e non di rado i modelli di costume e comportamento sono indotti all’acquisto e al consumo sfrenato e il potere economico è sempre più in grado di condizionare il potere politico.
Per una ricorrenza della CGIL, nello spirito di contribuire esteticamente a una socialità più richiamata e consapevole, Ennio Galice lavora a un vigoroso pannello decorativo, di oltre cinque metri per uno e settanta: una citazione – tributo al Guernica di Picasso, una dedica alle lotte e ai rischi del lavoro, disegnando e figurando uomini che precipitano, donne disperate, invocazioni di mani avulse, profili stagliati, brani di membra scolpite, geometrizzate dal dolore, dalla fatica: una calibratura tra scale di grigi e corpi bianchi volumetrici essenziali come sagome apposte, braccia, braccia tese a innestare spaventi e grida, percezioni di vita senza calore, a scaglie di umanità in forme e incastri dissonanti. Il pittore e l’uomo hanno reso testimonianza a una penosa pagina di storia e a un grande esempio di storia dell’arte, per richiamare la civiltà e la dignità del lavoro.
E nella personale dell’81 il pittore presenta un ampio spettro delle sue inquietudini e delle sue ricerche: interviene con dettagli fotografici (assembla giacimenti di seni e parti delicate femminili in un mosaico di nudità, che pospone alla protervia statutaria di un uomo incravattato o a un busto grigio di maschio sommariamente sbozzato); frontalizza , pingue ed espansa, donna e carrello della spesa; implode la magrezza color terra di un vecchio; attanaglia di tubi da costruzione una gialla esile spaventata figura maschile; confonde in un organismo polimorfo varie zone di ocra interconnesse a braccia arrese, dal titolo “uomo su donna”; deodora a tinte tristi grigiastre, gli aggetti di un edificio pretenzioso; indaga il quaderno sontuoso di una posa femminile che plasma nuda, svelandone rigorosi e chiaroscurati, i nascondigli. E propone due serie di uomini, come dire, divelti dalla loro integrità: a) corpi che si meccanicizzano, alla cui anatomia si innervano congegni, ordigni che li ricompongono in una complessione senza più autenticità umana, ormai soggetti a metamorfosi, gravati da una nuova, spuria incerta e mutante identità; e b) figure maschili quasi amorfe, private della struttura della loro conformazione, con arti a moncherino, inermi, soggetti a reticoli implacabili, a sfondi unitari in cui sono disposti appesi, graticolati, alternati, allineati a moduli, devitalizzati, in reti e griglie, da cui appena si distinguono le ormai monche differenze.
E carni di donne, ancora, dalla nudità affaccendata da incombenze domestiche o aggregate a piccoli gruppi, attonite, accomunate da una immobilità solenne, estraniante, pensosa, come collocate davanti a fondali che le distinguono comunque sole, esposte, abbandonate. Soglie, raccordi, masse; angoli, quinte, sbalzi prismatici di luce colorata; il tratto è fermo, certamente l’allusione significativa rispettosa, eppure il nitore rigoroso delle luci, la curvatura di un peso anatomico il silenzio teatrale, si risolvono in scultura elegante, in scena fresca – appena dall’alto – in cui la figura è cardine, ragione serena e dignitosa dello spazio.
E i disegni, cartelle di disegni, naturalmente del corpo umano, soprattutto della donna. Naturalmente. Intensamente. Attentamente. Matita carboncino chine. Per ottenere il corpo “vissuto” dal confronto tra la propria mano e la sua inquietante docilità: tradizione e felicità personale di ricerca del segno.
Teneri o svelati si allontanano sempre più dai debiti d’esempio e di studio – da Michelangelo a Guttuso – e via via, soprattutto dai pieni anni ’70, porge la cura di Modigliani alla immediata espansività grafica di Picasso, e le sue matite e le sue chine si attestano in quel composto cubismo espressionistico che assegnerà grazia e forza alle figure e alle composizioni.
Dalla sua prima mostra a Viterbo, nel ’64, seguito e incoraggiato dal suo maestro e mentore Maurizio Vallarino, ha percorso tanti e tanti “tratti” del corpo umano, cercando la misura propria tra l’immaginazione e la nuda verità (soprattutto) femminile. I corpi dei suoi disegni non sono collocati, ma acquisiti e quasi “forniti” dal foglio, originati dal bianco, interrogati poi nel loro abbandono inerme; un oratorio ogni volta richiamato, dove la retorica di ogni modulazione redige, compone, la figura della donna ma ne esplora, ne cerca il modulo, il senso dell’attrattiva estetica e naturale.
E’ giovane Ennio Galice in quegli anni, solido e forte, attento alla società e certo consapevole che il disegno è uno dei modi del confronto – per un pittore - con l’altra metà del cielo, sia in senso artistico sia esistenziale, e il suo segno insiste, affronta, riprova; sui suoi fogli non appaiono oggetti, non ci sono rumori, la realtà è bandita, i soggetti non hanno connotazioni somatiche e la loro forma è tanto ritratta quanto evocata e come glorificata in una sorta di castità golosa, nel tentativo di acquisire un assetto, una dimensione sacrale e definitiva. Lo sforzo di “posare” la bellezza umana in una traccia di accettabile assolutezza? Un cammino per cercare una forma di bianco percorrendo, a matita, la carne e l’ombra? La linea, dovuta alla mano dell’artista, per conferire sostanza e peso a un’apparenza archetipica e sincera? Segnale e indice di autenticità espressiva?
Il suo ultimo quadro è un acrilico cm 100 x 70, un nudo verticale di donna rimasto incompiuto e oggi custodito nello studio della sua casa: un atlante, un album sorvegliato, casto, ma organicamente narrativo nelle sue proporzioni e caratteristiche; frontale, implacabile, quasi incombente, che ostenta e fa riconoscere ogni distretto del corpo; la superficie della pelle sviluppo rosa su cui sono armonizzati i dettagli della femminilità, il volto giovane composto, l’accenno di una espressione serena, unitario e classico l’insieme, raccolta e chiara la composizione: l’ultimo lavoro che gli è stato concesso… un addio affidato all’immagine della carne e pagina umana della purezza? “Tipo” estetico della materia, ma anche sede concezione e orizzonte delle nostre più sensibili e proiettate visioni? Forse risponderebbe, Enno Galice, con un dolce e sornione silenzio.
E’ stato scritto che avrebbe voluto scolpire, intervenire sulla materia, manipolare la sostanza e dare forma significante alla consistenza, alla massa, alla densità; … è legittimo chiedersi se non lo abbia fatto in pittura, creando forme coordinate dal controllo e dal rigore plastico, in cui forse ha sempre cercato di scovare l’anima e il peso dell’uomo? Non si può non ribadirlo con convinzione.
La verità dei temi e dei soggetti e la plasticità delle scelte formali adottate confermano la natura forte e serena dei suoi impegni umani e delle sue predisposizioni estetiche; la sua è stata una vicenda artistica durata trentacinque anni in cui il vero della vita e della società non è stato mai tradito per il verosimile edulcorato dalla gradevolezza di moda o dalla seriosità schierata ad alludere concetti criptici e misteriosi.
Un’opera, quella di Ennio Galice, vissuta non all’insegna dell’accumulo espressivo addensato in più gesti e occasioni di facile ribalta - peraltro condivisa e meritata con più di un nome celebrato – ma la responsabile traccia di una cosciente testimonianza che, sempre – sia nell’esercizio stilistico, sia nel senso storico e metaforico di ogni singolo lavoro – ha conservato l’integrità del rapporto tra l’uomo e l’artista, tra il cittadino e il suo tempo.
Un interprete di come la rettitudine possa rappresentarsi concezione e misura d’arte.
Aldo Sclano
I colori del testimone
Ennio, eri pittore di energia vitale che si innervava nelle cicatrici della vita.
Sempre attento al mistero della vita nel tempo della storia, sempre coinvolto nel destino dei processi mentali del nostro presente, ci hai lasciato la tua tensione testimoniale e le appassionate tracce di una intensa ricerca carica di sviluppi futuri e tradita da una precoce morte.
Il tuo spirito intuiva e anticipava problematiche allora ancora latenti e oggi evidenti e centrali. Mi riferisco alla odierna evidenza di una falsa coscienza collettiva in cui falso e vero si interscambiano senza scandalo alcuno e, in antitesi ad essa, la futuribile verità del travaglio di quella individuale, che spesso inconsapevolmente, al di sotto dei diversi conformismi, si fa testimone autentico dello stato delle cose.
Nel carattere a volte “robotico” dei tuoi personaggi, avevi già intuito il trionfo delle dimensioni pragmatiche della società che, avendo ormai esiliato le dimensioni introspettive della personalità, vanno escludendo il peso causale dei processi mentali. Impedendo così la relazione tra cause ed effetti, impediscono la libertà del pensiero e l’autonomia degli individui che, in tal modo, collassano negli automatismi e nel conformismo.
Il tuo grande interesse per la pittura, per la figura umana e per la coscienza dilaniata, acquisiscono ora un valore particolarmente importante: quello della forza testimoniale della pittura, che paga il costo delle sue passioni in contrapposizione alla debole forza testimoniale dei linguaggi digitali, i quali indifferenti raccontano funerali e intrattenimenti.
Tuttavia, dietro il tuo giudizio sulla società, a volte ironico, a volte duro, trapelavano la luce della inquieta bellezza e della percezione del mistero che è in ciascuno, collocato com’è nell’incerto spazio dell’esistenza. Il tuo senso dell’“Oltre” coincideva, appunto, con il mistero della vita e mai con il “dogma”.
Ora i tuoi “retropensieri” di pittore, il tuo rispetto per i casuali accidenti del tuo viaggio creativo, per me che ti ricordo con affetto e stima, sono divenuti l’evidente sostanza stessa del tuo percorso e questo credo sia sotto gli occhi e nel cuore di tutti quelli che ti hanno conosciuto nel tuo intenso impegno terreno.
Ennio Calabria
Presidente della Comitato d’Onore
Il Maestro Ennio Calabria, che ha firmato la presentazione del catalogo realizzato grazie al contributo prestigioso della Fondazione Cariciv, ricorda ancora con affetto il collega con il quale condivise tante esperienze artistiche, tra le quali una memorabile mostra organizzata alla fine degli anni ’80 presso le splendide sale del Forte Michelangelo. “Ennio, eri pittore di energia vitale che si innervava nelle cicatrici della vita – scrive Calabria in qualità di presidente del Comitato d’Onore della mostra nelle prime pagine del catalogo – sempre attento al mistero della vita nel tempo della storia, sempre coinvolto nel destino dei processi mentali del nostro presente, ci hai lasciato la tua tensione testimoniale e le appassionate tracce di una intensa ricerca carica di sviluppi futuri e tradita da una precoce morte”.
Una tecnica quella di Galice che Aldo Sclano, autore del testo critico del catalogo, definisce “mossa dalla volontà di scolpire la materia, di manipolare e dare forma significante alla consistenza, alla massa, alla densità. La verità dei temi e dei soggetti e la plasticità delle scelte formali adottate confermano la natura forte e serena dei suoi impegni umani e delle sue predisposizioni estetiche; la sua è stata una vicenda artistica durata trentacinque anni in cui il vero della vita e della società non è stato mai tradito per il verosimile edulcorato dalla gradevolezza di moda o dalla seriosità schierata ad alludere concetti criptici e misteriosi. Un’opera quella di Galice – ha commentato Sclano - vissuta non all’insegna dell’accumulo espressivo addensato in più gesti e occasioni di facile ribalta, ma la responsabile traccia di una cosciente testimonianza che, sempre – sia nell’esercizio stilistico, sia nel senso storico e metaforico di ogni singolo lavoro – ha conservato l’integrità del rapporto tra l’uomo e l’artista, tra il cittadino e il suo tempo. Un esempio di come la rettitudine possa rappresentarsi concezione e misura d’arte”.
In concomitanza con la mostra di Civitavecchia ci sarà l’apertura straordinaria della Chiesa del Stella, storica sede dell’antica Arciconfraternita del Gonfalone, per mostrare le originali pitture acriliche di Galice che decorano le pareti dell’abside e i pannelli della Via Crucis, affissi nella navata centrale; inoltre sarà possibile ammirare disegni e dipinti su tela realizzati durante la fase preparatoria ed allestiti per l’occasione. Un appuntamento molto atteso anche dalla cittadinanza di Civitavecchia tutta, da sempre legata alla figura di Galice, artista che ha sempre coniugato la sua sensibilità artistica con una profonda attenzione al sociale che emerge in modo efficace nel testo introduttivo del catalogo, a cura di Giovanni Insolera: una sorta di biografia “critica”, ripercorsa attraverso ricordi personali ed eventi della vita civile, che restituisce il significato profondo del percorso di vita del pittore. Una sintesi del suo impegno è ben visibile, oltre tutto, nelle opere realizzate durante gli anni ’70: una serie di strepitosi manifesti creati a sostegno di campagne di sensibilizzazione sociale o di promozione culturale.
E ancora, alcune pitture che dimostrano l’impegno sindacale del pittore con la CGIL e con il mondo del lavoro. Proprio l’organizzazione sindacale oltre a partecipare all’organizzazione dell’evento, ha deciso di ricordare la figure di Galice con la stampa di un manifesto celebrativo, che verrà distribuito ai visitatori della mostra, con una raccolta emblematica dei manifesti di quegli anni.
Non da ultimo parteciperà al decennale dell’artista il mondo scolastico e culturale dell’intero territorio. Civitavecchia ha infatti intitolato alla memoria del professore ancora prima che dell’artista, una scuola media. Galice ha investito con passione le proprie energie a supporto degli alunni, dell’efficienza e del prestigio dell’Istituto. “Il merito di questa iniziativa - ha precisato il figlio Michele - sorprendente per i modi ed i tempi con i quali è stata realizzata va riconosciuto a tutto il corpo docente, agli alunni e ai loro genitori, ed in particolar modo al Dirigente Scolastico di allora, la Dott.ssa Vincenza la Rosa, presente oggi nel Comitato d’Onore come anche l’attuale Dirigente della scuola”.
La misura civile dell’ arte
Già dieci anni! Eppure il ricordo non risale ad un suo gesto, a un episodio di particolare vivacità e colore, semmai a collane di occasioni, anche cicliche, e la sua storia costituisce una ragione di profondo e affettuoso rimpianto per chi ne era amico e di grande rispetto per quanti ne riconoscono il nome; per tutti Ennio Galice ha significato e rappresentato una figura da accreditare di stima pubblica condivisa, e di totale apprezzamento per la sua attività di disegnatore grafico e pittore. Sono passati dieci anni da quando con serenità (e non di rado coraggiosa ironia) riceveva, ammalato, gli amici a casa; un lungo prolungato saluto il suo, un addio durato purtroppo pochi mesi (ospedali come disperate parentesi, lotte contro il male impugnando medicine e speranze) poi, nel Marzo del ‘99, la chiesa cattedrale inondata dalle voci dei suoi allievi che lo ricordano, e gremita dai silenzi commossi di centinaia di persone.
Nel 2000 la mostra postuma nel maschio del Forte Michelangelo: “acrilici, disegni, litografie, manifesti” recita la copertina del catalogo; un’antologica che costituisce un richiamo, una convocazione, un omaggio, un tributo al raduno rappresentativo delle sue opere. La città lo riconosce, lo incontra definitivamente; il mondo politico cittadino, i colleghi della scuola e la cultura, gli artisti, la società stratificata di estimatori convergono, la stampa e i media documentano.
Nel 2003 una scuola media, dove ha insegnato tanti anni, si titola del suo nome, sanziona il legame con lui, fonde il suo ricordo al futuro dei ragazzi, diventa la “ Ennio Galice”.
L’ultima sua mostra personale aveva presentato - ancora al Forte - le quattordici soste delle stazioni tradizionali della Via Crucis – marzo ‘ 98 – poi installate a percorso nella chiesa della Stella, a Civitavecchia; tavole acriliche in cui lo straziante cammino è a tessere nette, luminose, il colore incisivo, le forme gemmate, le scene ambientate in riferimenti serrati, gli episodi, occasioni di dolore che la vivezza dei gesti e dei volumi acuisce qua e là, Civitavecchia compare come quinta e come sfondo. Nel ’95 presenta nei locali di Via Cadorna, al Ghetto, dieci bozzetti e litografie a colori, in occasione del primo anniversario dello scoprimento degli affreschi, dipinti nella chiesa della Stella a piazza Leandra, negli anni dal ’92 al ’94; litografie che sebbene interpretino momenti “ pietosi” del rapporto città/tradizioni popolari religiose – occasioni di memoria dell’ attività, pia e caritatevole, di una delle confraternite cittadine più storicamente riconosciute, l’Arciconfraternita del Gonfalone – sono vive vibranti smaltate nella loro intenzione e compito di riproporre quel tempo, quel momento, quelle figure incappucciate, quei derelitti a terra, quelle strutture che le situano. Esse sintetizzano pur nella loro autonomia, riconvocano i personaggi e le scene dei riquadri e della volta che E. Galice affrontò e trasformò - polarizzando metaforicamente un gigantesco segno di croce - le pareti, incorniciate, fin allora di vuoto, ai lati dell’altare, e la volta soprastante. Costanzo Costantini, che introduce le litografie e richiama gli affreschi, parla di esempio ricevuto dagli antichi maestri e di lezione rivissuta e interpretata del Neo Cubismo e neo espressionismo del realismo pittorico italiano.
Nella piena maturità di uomo e artista si dedica – infatti – a un lavoro tecnicamente arduo, operativamente faticoso, ideologicamente e culturalmente impegnativo; rappresenta luoghi, indica oggetti, situa figure e personaggi, ambienta situazioni storicizzate, ma soprattutto crea l’atmosfera e gli scenari in cui la misericordia si compie, il gesto misericordioso avviene, e il rituale cittadino della penitenza cristiana si innesta nella tradizione e nel tessuto urbano della città; due grandi rettangoli affrontati e opposti, 15 metri quadri, circa, ciascuno, sormontati e idealmente uniti da stormi di gabbiani e colombe in volo nei 50 m quadri – poco meno – del cielo della volta; da disegnare, colorare, dipingere, in piedi, sdraiato, in ginocchio, su ponteggi traballanti, a luce radente, d’estate, d’inverno, per quasi due anni - centinaia di schizzi, cartoni preparatori, prove ripensamenti e badare all’amalgama di sabbia, calce, polvere di marmo; colle tempere acrilici, sagome… e la propria vita di insegnante, la famiglia, l’impegno sociale.
Eppure di fronte alle tre grandi pagine non si è al cospetto di un compito con diligente osservanza assolto; non si ha l’impressione di ammirare della buona composta pittura murale, devotamente applicata e celebrativa. C’è rilievo, forza nelle anatomie come negli ambienti, plasticità e sintesi nei dettagli, masse e volumi organicamente sbalzati dalla luce dipinta; il colore non deperisce o s’accende in modo tonale, s’incastra, se deve, a comporre insiemi disegnati da soglie contigue di luce, o via via scala a piani a prospettare un rilievo e incupire un vuoto. Si ravvisa una sorta di vitalità anche nelle cose immobili, posate, la cui densità forma e peso fanno ingombro pieno, tattile, presente. Non è pittura intimidita e devozionale, sfumata e sommessa; l’uomo pittore dipinge a voce chiara, non ottempera su registri di una tavolozza reverente, propone e offre le sue richieste, le sue domande oneste, rispetta profondamente la storia e il rito, rilevando, però, ed eleggendo in primo piano, la concretezza della carne offesa e penitente, affidando sempre a solide vitali figure femminili, la tensione della rinascita e la genuflessione della preghiera.
“ … Poche ore prima della sua fine faceva progetti … ebbi ancora prova della sua forza … della sua profonda religiosità laica … Solo un animo sinceramente religioso “ – sosterrà nel 2000 il Cav. Gianni De Paolis, amico, priore dell’Arciconfraternita del Gonfalone, e committente dei lavori – “ poteva conferire e imprimere tanta forza, drammaticità e spiritualità alle raffigurazioni nella chiesa della Stella, a Civitavecchia”.
Il riquadro de ‘la Misericordia’ a sinistra, in ambiente chiaramente cittadino, fa incontrare, all’oggi, l’ultimo responsabile della confraternita, lo stesso priore, al più “vicino” – una donna – dei derelitti, piegato; dietro l’uno e l’altra, la fila secolare delle pie figure titolari dell’associazione e la rassegna stremata dei bisognosi a terra.
Nella parete de “la Penitenza, di fronte, il pittore ferma un momento della processione del venerdì santo, blocca, in piena città storica, il corteo di chi, gravato di catene ai piedi e di statue della passione sulle spalle, anonimo, incappucciato, si libera della mondanità quotidiana e si rintana in percorso che lo affatica e umilia per ore, scalzo e in silenzio, sulle strade dove, di solito, vive e lavora.
La volta sopra l’altare, animata dalla grazia di voli azzurri e bianchi, salvifici, spiove, arcuata e regolare, a unire le due pareti laterali, le cui figure imponenti e non di rado frontali, attorniano e porgono il senso della loro pia ed ammonente presenza.
Ottanta metri quadri complessivi, decine di figure, architetture e fondali civici e religiosi … Un modulo linguistico equilibrato, misuratamente cubista, rigorosamente innestato a bilanciare volumi a espressioni, colori a figure, rapportato a coniugare la devozione religiosa e la solidarietà umana; il disegno staglia, le tinte identificano nette dove la luce illumina e campeggia: il Forte Michelangelo, il bacino del porto, le mura medievali, la facciata della Stella, la porta urbana de l’Archetto, S. Maria dell’Orazione … La città è stata messa in scena, eletta e riconosciuta scenario degli eventi interpretati, dei suoi gesti antichi e delle tradizioni scese fino all’oggi.
Nel 93 Civitavecchia, insediamento quasi bi-millenario attorno a un bacino portuale, scalo marittimo tra i più importanti – dalle navi romane agli scafi superveloci, passando per le galere pontificie – non può non rammentare uno degli avvenimenti più tragici della sua storia recente: il primo bombardamento, subito durante la seconda guerra mondiale, nel maggio del ’43; devastazione, centinaia di vittime, fughe precipitose, dispersi. Gli artisti, cinquant’anni dopo, propongono le loro opere come tributo, riflessione, osservazione estetica del presente. Galice è in prima fila; con un collega pittore – Pino Marzi – e uno scultore – Piero Luciani, presso il centro culturale di Villa Albani, nella mostra “Da Allora”, richiama e accosta altri gravi storici avvenimenti; una notevole serie di disegni chinati riporta a un’altra fuga, a un altro abbandono della città a causa di un’altra aggressione; l’assalto dei saraceni alla costa nella prima metà del nono secolo; e paragona terrore a terrore, tecnologia devastante a ferocia piratesca antica, esplosioni dilanianti allo strazio diretto della spada. Un lessico grafico il suo, asciutto, tragico nel racconto e severo nel segno, che svela paure ferite, ammassi di corpi, innocenze calpestate, angosce e affanni in fuga. Fonde storia e cronaca leggendaria in un’unica memoria dolorosa e come sempre le sue tavole sono risolte con plasticità ferma e solida e le figure inquadrate in una corporeità vibrante.
Ma non è naturalmente interessato soltanto alle vicende locali; partecipa più che attivamente alla vita culturale della città, ma non si limita certo a registrare creativamente, le iniziative civiche e rappresentative dell’ambiente. Per lui, la figura umana, sempre: eletta a cardine, modulo, senso e portata critica, o tastiera di ricerca estetica e studio continuo, cui affida da sempre le riflessioni del suo riconoscersi cittadino – artista. Rarissimi i paesaggi dipinti – luminoso e intersecato il “il paesaggio pugliese” della metà degli anni ’70 – e di interni domestici a piani e oggetti compenetrati di volumi e luci tinte; certamente singolare un corposo “astratto” a olio, ancora degli anni ’60, a tessere scalate di ocra e grigi, sormontate da intrusioni curve di nero fondo.
Nella primavera del ’90 – introdotto dalle amichevoli parole del sindaco Barbaranelli, presentato dal critico Dario Micacchi, supportato e patrocinato dalla Provincia di Roma, il cui assessore al bilancio, Pietro Tidei, si dice sicuro della posizione consolidata dal pittore nel campo dell’arte contemporanea – nelle grandi sale del Centro Culturale di Villa Albani a Civitavecchia appaiono numerose figure disegnate e dipinte, tracciate e cromaticamente “comunicate”: sono figure di donne che si atteggiano, posano, indossano drappi di pittura; sono immobili e avanzano, spaziano i vuoti o concorrono con un limite, una distanza blu o verde a creare un vezzo di ambiente. Sono le “modelle”. L’Associazione culturale “Progetto 89” cura e organizza l’evento.
Il modello umano che indossa il capo elegante e di gran disegno, l’“esemplare” chiamato a concedersi per ostentare e dimostrare bellezza e status, non può non possederne già di suo e accordare, armonizzare la propria presenza e garbo alla suggestione fascinosa connessa alla firma e all’originalità del “pezzo”. Ma le modelle sono indossatrici, lavoratrici, e anche nella dimensione professionale, restano sempre soggette al tempo, al luogo, vulnerabili; proporle, crearle in una verosimiglianza che privilegia il ruolo “stiloso” e mondano, introduce e ammette immediatamente anche la spoliazione della distaccata ricercatezza, per ritrovare i tratti umani del rilassamento, del riposo momentaneo, del gesto che indossa solo la propria naturalezza. Andare oltre la facciata dello status per rivendicare l’autenticità della persona. Ennio Galice inventa e calibra le due forme di visione: nel ventaglio della passerella “dovuta” per l’esteriorità conveniente e il contrappunto dei momenti lassi, inerti e appartati. E la sua pittura è, forse, domanda: dobbiamo (ri)vestirci per essere gradevoli? Accettare un conseguente – inevitabile (?) - status mitologico? Indossare una disinvoltura artificiale perché ciò che connesso a noi sia valore, e viceversa? Prestarci e produrci, quindi, in un gioco e sistema di apparenze? Il proprio e il vero “truccato” perché la preziosità superficiale accrediti l’esibizione (indotta) come distinzione? La qualità, la verità, non può essere priva di curato artificio? Le modelle sono l’eleganza quando posano, celebrate dal successo della loro vetrina, quando la femminilità loro nei gesti spogli, adagiati, concessi al riposo, è trascurabile? Esempi – le modelle – di pittura tanto concertata e ricca quanto significativa: i colori sono pieni estesi, l’anatomia dei corpi si erotizza nella dinamica interna che le tinte accendono di fascinazione; le linee chiudono corpi musicali, espansi di vita, morbidi di giovinezza, colmi e sodi, plasticamente monumentali a nominare lo spazio e giustificare come cornice i vuoti; insignite di una verticalità goduta dal basso, campeggiano frontali o sinuosamente profilate, tra sicurezze eleganti e immobilità sontuose; fasciate di blu luminoso o amaranti, carni sempre dichiarate calde a staccarsi nette da sfondi verdi, neri signorili, terre che rilevano le “stoffe”. Accese e bellissime le modelle specchiamo una delle manifestazioni di costume più diffusamente seguite del nostro tempo, dalla pittura di Galice immaginate e interpretate nello spartito - per fortuna – sottoposto a noi.
Di quegli anni “il Minotauro” – un grande acrilico – dove un giovane corpo femminile, vestito di azzurro intenso e verde drappeggiato libero, avanza indicando un uomo – Minotauro, dimesso e accasciato, e chiama convocando testimonianza e partecipazione di libertà; il “mostro” è in secondo piano, nudo e seduto, la ragazza in piedi, scorre, passo falcato, ritta forte risoluta.
Nel Gennaio dell’87 la mostra al Forte Michelangelo, in cui espone con Ennio Calabria – uno dei pittori italiani più significativi, impegnato nella pittura attenta al sociale – con Vespignani, Attardi, molti altri e … lo stesso Guttuso – della generazione che si fece riconoscere nel decennio degli anni ’50. Presenta, Ennio Galice, la prima serie di “modelle” e i disegni a china – rivisti e ampliati – con cui, mesi prima, aveva corredato e illustrato il volume in versi del poeta Ugo Marzi “Mamma li turchi”. Suoi lavori, sia di grafica espressiva, comunicazione sociale o singole opere pittoriche, oli e acrilici, in quegli anni figurano già da tempo in collezioni private in Italia – Milano Roma, Venezia, Ascoli Piceno, etc. e all’estero – Montevideo, Budapest, e presso Enti pubblici – Scuole, Cooperative, Sindacati.
Nel marzo dello stesso anno è chiamato a illustrare la speciale pubblicazione edita dal comune di Civitavecchia, in occasione della visita in città di S. Santità Giovanni Paolo II; disegni ariosi, volumetrie monumentali urbane, scorci del porto, vascelli in flotta, armigeri, corazze, cavalli e, in copertina, il Pontefice che benedice la città e i suoi edifici civili e religiosi.
Nell’83, tra i pittori Vallarino, Mobbs, Armillei, Moraja, Massaccesi e Solinas, Ennio Galice fonda il “Gruppo Figurazione ‘83” rivendicando, con lo statuto e la proiezione del movimento, la valenza critica ed estetica che il Gruppo pienamente accredita ancora alla matrice e alla figura dell’uomo. Pochi anni prima, nell’81, lo stesso Ennio Calabria presenta il collega in una personale; sono e sono trascorsi anni corrivi, di tensione sociale, terrorismo, contrapposizioni politiche, contestazioni sindacali; ma anche fecondi di partecipazione, conquiste, rivendicazioni e coscienza di diritti civili; i media - ormai tecnologicamente aggressivi – pubblicizzano e sfruttano sempre più ogni risorsa visiva, sia essa il corpo della donna, un evento di cronaca, una manifestazione, sia un prodotto di status, e non di rado i modelli di costume e comportamento sono indotti all’acquisto e al consumo sfrenato e il potere economico è sempre più in grado di condizionare il potere politico.
Per una ricorrenza della CGIL, nello spirito di contribuire esteticamente a una socialità più richiamata e consapevole, Ennio Galice lavora a un vigoroso pannello decorativo, di oltre cinque metri per uno e settanta: una citazione – tributo al Guernica di Picasso, una dedica alle lotte e ai rischi del lavoro, disegnando e figurando uomini che precipitano, donne disperate, invocazioni di mani avulse, profili stagliati, brani di membra scolpite, geometrizzate dal dolore, dalla fatica: una calibratura tra scale di grigi e corpi bianchi volumetrici essenziali come sagome apposte, braccia, braccia tese a innestare spaventi e grida, percezioni di vita senza calore, a scaglie di umanità in forme e incastri dissonanti. Il pittore e l’uomo hanno reso testimonianza a una penosa pagina di storia e a un grande esempio di storia dell’arte, per richiamare la civiltà e la dignità del lavoro.
E nella personale dell’81 il pittore presenta un ampio spettro delle sue inquietudini e delle sue ricerche: interviene con dettagli fotografici (assembla giacimenti di seni e parti delicate femminili in un mosaico di nudità, che pospone alla protervia statutaria di un uomo incravattato o a un busto grigio di maschio sommariamente sbozzato); frontalizza , pingue ed espansa, donna e carrello della spesa; implode la magrezza color terra di un vecchio; attanaglia di tubi da costruzione una gialla esile spaventata figura maschile; confonde in un organismo polimorfo varie zone di ocra interconnesse a braccia arrese, dal titolo “uomo su donna”; deodora a tinte tristi grigiastre, gli aggetti di un edificio pretenzioso; indaga il quaderno sontuoso di una posa femminile che plasma nuda, svelandone rigorosi e chiaroscurati, i nascondigli. E propone due serie di uomini, come dire, divelti dalla loro integrità: a) corpi che si meccanicizzano, alla cui anatomia si innervano congegni, ordigni che li ricompongono in una complessione senza più autenticità umana, ormai soggetti a metamorfosi, gravati da una nuova, spuria incerta e mutante identità; e b) figure maschili quasi amorfe, private della struttura della loro conformazione, con arti a moncherino, inermi, soggetti a reticoli implacabili, a sfondi unitari in cui sono disposti appesi, graticolati, alternati, allineati a moduli, devitalizzati, in reti e griglie, da cui appena si distinguono le ormai monche differenze.
E carni di donne, ancora, dalla nudità affaccendata da incombenze domestiche o aggregate a piccoli gruppi, attonite, accomunate da una immobilità solenne, estraniante, pensosa, come collocate davanti a fondali che le distinguono comunque sole, esposte, abbandonate. Soglie, raccordi, masse; angoli, quinte, sbalzi prismatici di luce colorata; il tratto è fermo, certamente l’allusione significativa rispettosa, eppure il nitore rigoroso delle luci, la curvatura di un peso anatomico il silenzio teatrale, si risolvono in scultura elegante, in scena fresca – appena dall’alto – in cui la figura è cardine, ragione serena e dignitosa dello spazio.
E i disegni, cartelle di disegni, naturalmente del corpo umano, soprattutto della donna. Naturalmente. Intensamente. Attentamente. Matita carboncino chine. Per ottenere il corpo “vissuto” dal confronto tra la propria mano e la sua inquietante docilità: tradizione e felicità personale di ricerca del segno.
Teneri o svelati si allontanano sempre più dai debiti d’esempio e di studio – da Michelangelo a Guttuso – e via via, soprattutto dai pieni anni ’70, porge la cura di Modigliani alla immediata espansività grafica di Picasso, e le sue matite e le sue chine si attestano in quel composto cubismo espressionistico che assegnerà grazia e forza alle figure e alle composizioni.
Dalla sua prima mostra a Viterbo, nel ’64, seguito e incoraggiato dal suo maestro e mentore Maurizio Vallarino, ha percorso tanti e tanti “tratti” del corpo umano, cercando la misura propria tra l’immaginazione e la nuda verità (soprattutto) femminile. I corpi dei suoi disegni non sono collocati, ma acquisiti e quasi “forniti” dal foglio, originati dal bianco, interrogati poi nel loro abbandono inerme; un oratorio ogni volta richiamato, dove la retorica di ogni modulazione redige, compone, la figura della donna ma ne esplora, ne cerca il modulo, il senso dell’attrattiva estetica e naturale.
E’ giovane Ennio Galice in quegli anni, solido e forte, attento alla società e certo consapevole che il disegno è uno dei modi del confronto – per un pittore - con l’altra metà del cielo, sia in senso artistico sia esistenziale, e il suo segno insiste, affronta, riprova; sui suoi fogli non appaiono oggetti, non ci sono rumori, la realtà è bandita, i soggetti non hanno connotazioni somatiche e la loro forma è tanto ritratta quanto evocata e come glorificata in una sorta di castità golosa, nel tentativo di acquisire un assetto, una dimensione sacrale e definitiva. Lo sforzo di “posare” la bellezza umana in una traccia di accettabile assolutezza? Un cammino per cercare una forma di bianco percorrendo, a matita, la carne e l’ombra? La linea, dovuta alla mano dell’artista, per conferire sostanza e peso a un’apparenza archetipica e sincera? Segnale e indice di autenticità espressiva?
Il suo ultimo quadro è un acrilico cm 100 x 70, un nudo verticale di donna rimasto incompiuto e oggi custodito nello studio della sua casa: un atlante, un album sorvegliato, casto, ma organicamente narrativo nelle sue proporzioni e caratteristiche; frontale, implacabile, quasi incombente, che ostenta e fa riconoscere ogni distretto del corpo; la superficie della pelle sviluppo rosa su cui sono armonizzati i dettagli della femminilità, il volto giovane composto, l’accenno di una espressione serena, unitario e classico l’insieme, raccolta e chiara la composizione: l’ultimo lavoro che gli è stato concesso… un addio affidato all’immagine della carne e pagina umana della purezza? “Tipo” estetico della materia, ma anche sede concezione e orizzonte delle nostre più sensibili e proiettate visioni? Forse risponderebbe, Enno Galice, con un dolce e sornione silenzio.
E’ stato scritto che avrebbe voluto scolpire, intervenire sulla materia, manipolare la sostanza e dare forma significante alla consistenza, alla massa, alla densità; … è legittimo chiedersi se non lo abbia fatto in pittura, creando forme coordinate dal controllo e dal rigore plastico, in cui forse ha sempre cercato di scovare l’anima e il peso dell’uomo? Non si può non ribadirlo con convinzione.
La verità dei temi e dei soggetti e la plasticità delle scelte formali adottate confermano la natura forte e serena dei suoi impegni umani e delle sue predisposizioni estetiche; la sua è stata una vicenda artistica durata trentacinque anni in cui il vero della vita e della società non è stato mai tradito per il verosimile edulcorato dalla gradevolezza di moda o dalla seriosità schierata ad alludere concetti criptici e misteriosi.
Un’opera, quella di Ennio Galice, vissuta non all’insegna dell’accumulo espressivo addensato in più gesti e occasioni di facile ribalta - peraltro condivisa e meritata con più di un nome celebrato – ma la responsabile traccia di una cosciente testimonianza che, sempre – sia nell’esercizio stilistico, sia nel senso storico e metaforico di ogni singolo lavoro – ha conservato l’integrità del rapporto tra l’uomo e l’artista, tra il cittadino e il suo tempo.
Un interprete di come la rettitudine possa rappresentarsi concezione e misura d’arte.
Aldo Sclano
I colori del testimone
Ennio, eri pittore di energia vitale che si innervava nelle cicatrici della vita.
Sempre attento al mistero della vita nel tempo della storia, sempre coinvolto nel destino dei processi mentali del nostro presente, ci hai lasciato la tua tensione testimoniale e le appassionate tracce di una intensa ricerca carica di sviluppi futuri e tradita da una precoce morte.
Il tuo spirito intuiva e anticipava problematiche allora ancora latenti e oggi evidenti e centrali. Mi riferisco alla odierna evidenza di una falsa coscienza collettiva in cui falso e vero si interscambiano senza scandalo alcuno e, in antitesi ad essa, la futuribile verità del travaglio di quella individuale, che spesso inconsapevolmente, al di sotto dei diversi conformismi, si fa testimone autentico dello stato delle cose.
Nel carattere a volte “robotico” dei tuoi personaggi, avevi già intuito il trionfo delle dimensioni pragmatiche della società che, avendo ormai esiliato le dimensioni introspettive della personalità, vanno escludendo il peso causale dei processi mentali. Impedendo così la relazione tra cause ed effetti, impediscono la libertà del pensiero e l’autonomia degli individui che, in tal modo, collassano negli automatismi e nel conformismo.
Il tuo grande interesse per la pittura, per la figura umana e per la coscienza dilaniata, acquisiscono ora un valore particolarmente importante: quello della forza testimoniale della pittura, che paga il costo delle sue passioni in contrapposizione alla debole forza testimoniale dei linguaggi digitali, i quali indifferenti raccontano funerali e intrattenimenti.
Tuttavia, dietro il tuo giudizio sulla società, a volte ironico, a volte duro, trapelavano la luce della inquieta bellezza e della percezione del mistero che è in ciascuno, collocato com’è nell’incerto spazio dell’esistenza. Il tuo senso dell’“Oltre” coincideva, appunto, con il mistero della vita e mai con il “dogma”.
Ora i tuoi “retropensieri” di pittore, il tuo rispetto per i casuali accidenti del tuo viaggio creativo, per me che ti ricordo con affetto e stima, sono divenuti l’evidente sostanza stessa del tuo percorso e questo credo sia sotto gli occhi e nel cuore di tutti quelli che ti hanno conosciuto nel tuo intenso impegno terreno.
Ennio Calabria
Presidente della Comitato d’Onore
04
novembre 2009
Ennio Galice 1943-1999 – La misura civile dell’arte
Dal 04 al 13 novembre 2009
arte contemporanea
Location
PALAZZO VALENTINI
Roma, Via Iv Novembre, 119a, (Roma)
Roma, Via Iv Novembre, 119a, (Roma)
Orario di apertura
lunedì - venerdì 10.30-19.00, sabato 10.30-13.00, domenica chiuso
Vernissage
4 Novembre 2009, nella Sala Egon von Fürstenberg
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