Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Enrico Baj – Baj prima di Baj
Opere inedite su carta
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Silvia Pegoraro
BAJ PRIMA DI BAJ
Il primo Manifesto del Surrealismo fu pubblicato da Breton nell’ottobre del 1924. Nello stesso ottobre del 1924 nasceva in Italia, a Milano, un artista destinato a raccogliere e far fruttare, forse più di ogni altro del suo paese, l’eredità surrealista. Lo stesso Breton lo avrebbe invitato a partecipare, dal 1959 in poi, alle mostre surrealiste di Parigi e New York. Avrebbe anche scritto per lui un saggio introduttivo ad una serie di incisioni sul tema Dames et généraux . <<ça c’est du grand Breton!>> esclamarono alcuni astanti appena Breton ebbe dato lettura del testo nel corso di una riunione surrealista. Il " grande Breton " , vale a dire Breton nella sua miglior vena di scrittore. Il saggio venne così inserito nel libro Le Surréalisme et la Peinture, pubblicato nel 1965.
L’artista in questione era Enrico Baj, uno dei maggiori artisti italiani del Novecento.
Baj fondò nel 1951 insieme a Sergio Dangelo, il Movimento Nucleare, dando il via a un dibattito al quale parteciparono, tra gli altri, Lucio Fontana e Gianni Dova, Asger Jorn, Joe Colombo, Lucio Del Pezzo, Mario Persico, Yves Klein e un giovanissimo Piero Manzoni. Un movimento che non fu limitato, peraltro, all’ambito delle arti figurative, ma si propose di coinvolgere tutta la cultura e l’arte (secondo una vocazione che era già stata del Surrealismo, caro soprattutto a Baj): vi presero infatti parte anche scrittori e poeti come Nanni Balestrini ed Edoardo Sanguineti. Il suo primo manifesto uscì a Bruxelles il 1° Febbraio 1952; occorreva reinventare le arti facendo riferimento alla realtà atomica della materia, ormai nota a chiunque in seguito alle catastrofi nucleari del secondo conflitto mondiale. La tematica nucleare, con le sue implicazioni angosciose, voleva significare in primo luogo il ritorno dell’arte a una presa bruciante sul mondo e sulla storia, la necessità dell’artista di oltrepassare “l’arte per l’arte” e tornare ad impegnarsi nella sfera storico-sociale. Queste esigenze assunsero – benché, in molti casi, solo sul piano teorico – anche una valenza anti–astratta: per un nuovo rapporto con la natura e con la realtà era necessaria una nuova figurazione. D’altra parte, la pittura dei Nucleari – che cercavano anche di sprovincializzare la cultura italiana aprendola all’ambiente internazionale – a livello tecnico-formale, con la sua volontà di rappresentare gli stati di frantumazione e atomizzazione della materia si poneva in stretto rapporto con l’Informale e l’Espressionismo Astratto.
Nel drammatico contesto tematico-formale di questa rappresentazione della realtà atomizzata e notomizzata dalle catastrofi nucleari, dalle opere “nucleari” di Baj si dipartono aggraziati filamenti di conturbante viscosità, germoglianti da pulviscoli iridescenti, mentre bellissime spirali neobarocche catturano la nostra mente, la involgono in una fascinazione inestinguibile.
Pur nella vocazione sentitamente engagèe di quest’arte, Baj sembra incarnare quell’alta espressione umana del “fare disinteressato” al quale Kant attribuiva la creazione di una bellezza come finalità formale da percepire senza la rappresentazione di uno scopo, totalmente libera, simboleggiata dall’arabesco e guidata dalla “meraviglia” - come l’arte barocca - e che tuttavia può attingere, come nel caso di Baj, alla dimensione tragica della vita.
L’opera del Baj si delinea subito quale un viaggio nell’immaginario dove momento storico, condizione esistenziale, trascendenza, mistero della bellezza, si sovrappongono e si confondono.
Qui emotività e controllo razionale, abbandono lirico all’arabesco, fascinazione decorativa e attitudine critica si amalgamano come in una mistura alchemica, per originare una figurazione che, recuperando il simbolo, sa veicolare significati profondi, immediatamente coinvolgenti e conturbanti.
Tutto ciò è già presente nel primissimo Baj, che si va formando artisticamente all’Accademia di Brera e poi va tracciando i primi diagrammi del suo potentissimo immaginario: un Baj ancora sconosciuto e per certi versi acerbo, che presenta però, in nuce, già moltissimi dei motivi che, sviluppati nel corso della sua lunga parabola artistica, lo renderanno celebre. Ecco il Baj – il Baj prima di Baj – che questa mostra vuole documentare, con una interessantissima serie di opere giovanili inedite. Si tratta di 54 opere su carta della collezione di Giovanbattista Guidobaldi – nata da un rapporto di amicizia e frequentazione con l’artista – collocabili tra la seconda metà degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50: dagli esperimenti astratti databili alla fine degli anni ’40, che ricordano “Forma 1” e in particolare certe bellissime carte di Turcato, a certe magnifiche “macchie” già di carattere “nucleare”, che dialogano con le più incisive espressioni dell’Informale europeo e americano (da Debuffet ad Hartung a Kline), e in alcuni lavori si tendono in intriganti spirali di orbite atomiche. Ecco emergere anche con forza lo studio delle teste e dei volti, che culminerà con le famose “maschere” degli anni ’90, passando attraverso le Teste solari del 1953 e i Ritratti del 1953-54. Con i “Generali”, le “Dame” e i “Personaggi” del periodo 1959-63, in cui il disegno e la pittura evolvono verso un caleidoscopico polimaterismo, poi con quelli del periodo 1973-74, in cui si arriva a un uso quasi esclusivo del collage e dell’assemblage, il tema del volto e del ritratto immaginario esploderà in tutta la sua energia vitalistica e insieme corrosiva: qui l’ironia, il grottesco, la crudeltà caricaturale convivono con una giocosa leggerezza, con la gioia del colore della costruzione, della contaminazione di materiali e forme. All’inizio degli anni Novanta, il tema della testa e del volto tornerà a sedurre l’artista sotto l’aspetto delle maschere primitive, ispirate a Baj da studi antropologici sulle maschere eschimesi, oltre che dal primitivismo meditato attraverso l’opera di Picasso, Breton, Claude Lévi-Strauss. Nel 1994, il lavoro intorno alle maschere tribali si intensificherà, rendendo sempre più ardito e sorprendente l’assemblage di materiali e oggetti di tutti i tipi, giungendo a un’intensità espressiva, giocosa e insieme inquietante, che non teme paragoni.
Ecco, ancora, alcuni disegni che anticipano i “d’après” futuristi, matissiani e picassiani, altri che manifestano un uso insieme decorativo e drammatico del frammento, uso che, partendo da una straordinaria passione coloristica attinta anche ai “Papiers collées” di Matissse, si caricherà via via di connotazioni sempre più personali ed originali, sino a sfociare nei mosaici degli ultimi anni. Così Baj ci fa riflettere sulla fragilità e sul valore delle immagini e del reale, mimando qua e là l’ebrezza decorativa dei mosaici bizantini, in un processo in qualche modo “citazionistico”, dunque in qualche modo post-moderno. Il lavoro di Baj anticipa però ampiamente le teorizzazioni post-moderne: il suo “citazionismo” non nasce certo con le opere musive degli anni Novanta, ma risale, appunto, ai suoi celebri “d’après”, che già sembrano germinare in questi disegni giovanili. Tra il 1969 e il 1971 Baj farà un largo uso della tecnica del d’aprés, consistente nell’approvazione di temi, motivi, immagini e forme di altri artisti: iniziando con Klee, Balla e Boccioni, arriva a Picasso, che è a sua volta, probabilmente, il più geniale cultore del d’aprés e del rifacimento “parodico” e poi a Seraut, di cui re-interpreta stupendamente, con un uso quasi “sinfonico” del collage, e mantenendone le dimensioni originarie, La grande Jatte.
La regione esplorata dal giovane Baj è sempre - e sarà sempre - quella delle origini primordiali dell’espressività umana, dove il polimorfismo delle immagini si configura quale matrice autentica del sentire e dell’esistere, ma anche quella della decadenza: Baj arriva a riconoscere che regressione e decadenza umana non hanno limiti né confini, e comincia a sussurrarcelo qui, introducendo sottili dissonanze nella freschezza e nella “joie de vivre” di questi suoi lavori giovanili. Ciò che emerge è anche una sorta di “doppiezza” dell’immagine artistica: la possibilità dell’opera di partecipare di una lucidità critica, ironica o provocatoria, e insieme della “follia” metamorfica dell’ornamento.
Dopo la pittura “nucleare”, l’uso sempre più deciso del collage e dell’ assemblage apre una ricchissima prospettiva “ornamentale”, che è già ampiamente annunciata in molti dei lavori qui presentati , o fa pensare alla spettacolare corte di dame e personaggi che a patire dal 1959 comincia ad affollare la scena figurativa dell’artista: un tripudio di tappezzerie a fiorami, tessuti damascati, cordoni lucenti, fiocchi e nappine, vetri e bottoni colorati, paillettes scintillanti, che satura lo spazio della rappresentazione. Enrico Baj scrive:
Bambino, ero solito passare le estati in una villa vecchiotta e cadente. (…) Era stata costruita all’inizio del secolo, proprio mentre si gettavano le fondamenta di altre artistiche costruzioni. Ed era ricca di addobbi. Così da piccolo fissai nei ricordi a futura memoria tutto quel senso di decorato ornato, che vedevo tutt’attorno, cupo, talvolta, eppure pieno di volute e involute, di tracciati intrecciati, di stilemi arborei e vegetali, di scuretti dipinti a incorniciare questa o quella decorazione. Fregi quasi canori, addobbi arabescati, damascati, fogliami d’acanto e ramages venivano percorsi, ridisegnati da occhi infantili, su per gli arzigogoli, giù per mantovane discendenti e fioccaie cadenti, e poi dentro alle curvilinee, ai festoni e ai parametri di righe artigliate, ridette, piegate, avvolte e infiorate, a ripetersi senza posa nell’arabesco d’un labirinto infinito.
Un discorso icastico, potentemente visivo, che fa immediatamente comprendere dove affondino le radici dei suoi innumerevoli elementi “decorativi”: nelle vecchie case della sua infanzia, costruite e arredate con un gusto fatto anche di un profluvio di decorazioni, lussureggianti, debordanti, capziose, atte a sconfiggere l’ombra bianca del vuoto e a fare avvertire il senso dell’infinito e del labirintico. Ecco, già nei disegni di questa mostra, le sue volute arboree e floreali e le sue forme avvitate e sinuose, quelle stesse che dagli interni di una vecchia villa insidiarono e voluttuosamente avvolsero l’anima di Baj bambino colonizzando la sua immaginazione e distraendolo dal reale, così da fargli assumere un’aria stupita e assente, sufficiente a far diagnosticare al buon medico di famiglia un malessere dovuto alle adenoidi…..In realtà, Baj aveva già iniziato il suo viaggio lungo le vie infinite e misteriose dell’arabesco o “ghirigoro”, come lui stesso lo definisce, era già penetrato nel dominio del suo lusso assoluto, assolutamente libero e assolutamente gratuito.
Espressione di indomabile vitalismo e insieme di rarefatta spiritualità .Come scrive lo stesso Baj, facendo riferimento al celebre libro di Luciano Anceschi Autonomia ed eteronomia dell’arte, ”per Kant l’arabesco, nel libero gioco dell’immaginazione, scopre i rapporti tra il mondo della contingenza e il mondo della libertà. Esso diviene la più sottile e delicata metafora dello spirito, un diaframma fragilissimo attraverso il quale l’uomo può avvicinarsi all’assoluto”.
Con tutto ciò ebbe a che fare anche quanto scrisse Gillo Dorfles a proposito dello scribble, ”lo scarabocchio”, chiamando in causa anche il concetto di horror vacui, che è una delle più affascinanti ossessioni “neobarocche” di Baj:
questo universale segno che sta a metà strada tra il mandala e il cerchio, il labirinto e lo schema solare. Elemento indubbiamente decorativo fatto apposta per vincere l’horror vacui, che diventerà in un secondo tempo la matrice di infinite successive figurazioni alle quali il bambino attribuisce i più diversi significati: dal sole alla casa, dalla testa all’albero.
“Scribbles”, arabeschi, segni e frammenti fluttuanti, risvegliano nelle immagini di Baj un movimento di colore, luce, musica di scansioni e di ritmi formali, raffinata tattilità; pongono in forte evidenza la dimensione estetica, semantica e simbolica dell’immagine, sottraendola a quell’automatizzazione percettiva (stigmatizzata dai formalisti russi, ancora prima che da Jean Baudrillard o da Paul Virilio) che tarpa le ali alla nostra esperienza corporea, e insieme ci fa apparire tutto compatto e incrollabile.
L’arte di Baj affascina nella sua ludica serietà (“se l’arte è un gioco, essa è un gioco serio”, scrisse un grande pittore romantico) anche perché affronta l’inquietudine dell’ombra, il lato scuro, crudele e inquietante del mondo e dell’animo umano, e insieme ha un’irresistibile moto verso la luce, perché questa illumini il labirinto, il minaccioso groviglio.
Quest’arte è comunque distruttrice di significati consacrati, dotata quindi, come ben nota Alain Jouffroj, di uno spiccato carattere iconoclastico: disautomatizza così il linguaggio e la visione della quotidianità, ne disinnesca i meccanismi ripetitivi, per creare nuove immagini, testimoni di una realtà “altra”. Il pensiero mitico e figurativo, nel senso che il concetto non è mai separato dall’immagine e dalle emozioni che questa crea in noi. Il linguaggio di Baj torna infatti al contatto col corpo e con la sua energia, le sue pulsioni e le sue metamorfosi. Queste carte leggere e intense ne sono una suggestiva manifestazione.
BAJ PRIMA DI BAJ
Il primo Manifesto del Surrealismo fu pubblicato da Breton nell’ottobre del 1924. Nello stesso ottobre del 1924 nasceva in Italia, a Milano, un artista destinato a raccogliere e far fruttare, forse più di ogni altro del suo paese, l’eredità surrealista. Lo stesso Breton lo avrebbe invitato a partecipare, dal 1959 in poi, alle mostre surrealiste di Parigi e New York. Avrebbe anche scritto per lui un saggio introduttivo ad una serie di incisioni sul tema Dames et généraux . <<ça c’est du grand Breton!>> esclamarono alcuni astanti appena Breton ebbe dato lettura del testo nel corso di una riunione surrealista. Il " grande Breton " , vale a dire Breton nella sua miglior vena di scrittore. Il saggio venne così inserito nel libro Le Surréalisme et la Peinture, pubblicato nel 1965.
L’artista in questione era Enrico Baj, uno dei maggiori artisti italiani del Novecento.
Baj fondò nel 1951 insieme a Sergio Dangelo, il Movimento Nucleare, dando il via a un dibattito al quale parteciparono, tra gli altri, Lucio Fontana e Gianni Dova, Asger Jorn, Joe Colombo, Lucio Del Pezzo, Mario Persico, Yves Klein e un giovanissimo Piero Manzoni. Un movimento che non fu limitato, peraltro, all’ambito delle arti figurative, ma si propose di coinvolgere tutta la cultura e l’arte (secondo una vocazione che era già stata del Surrealismo, caro soprattutto a Baj): vi presero infatti parte anche scrittori e poeti come Nanni Balestrini ed Edoardo Sanguineti. Il suo primo manifesto uscì a Bruxelles il 1° Febbraio 1952; occorreva reinventare le arti facendo riferimento alla realtà atomica della materia, ormai nota a chiunque in seguito alle catastrofi nucleari del secondo conflitto mondiale. La tematica nucleare, con le sue implicazioni angosciose, voleva significare in primo luogo il ritorno dell’arte a una presa bruciante sul mondo e sulla storia, la necessità dell’artista di oltrepassare “l’arte per l’arte” e tornare ad impegnarsi nella sfera storico-sociale. Queste esigenze assunsero – benché, in molti casi, solo sul piano teorico – anche una valenza anti–astratta: per un nuovo rapporto con la natura e con la realtà era necessaria una nuova figurazione. D’altra parte, la pittura dei Nucleari – che cercavano anche di sprovincializzare la cultura italiana aprendola all’ambiente internazionale – a livello tecnico-formale, con la sua volontà di rappresentare gli stati di frantumazione e atomizzazione della materia si poneva in stretto rapporto con l’Informale e l’Espressionismo Astratto.
Nel drammatico contesto tematico-formale di questa rappresentazione della realtà atomizzata e notomizzata dalle catastrofi nucleari, dalle opere “nucleari” di Baj si dipartono aggraziati filamenti di conturbante viscosità, germoglianti da pulviscoli iridescenti, mentre bellissime spirali neobarocche catturano la nostra mente, la involgono in una fascinazione inestinguibile.
Pur nella vocazione sentitamente engagèe di quest’arte, Baj sembra incarnare quell’alta espressione umana del “fare disinteressato” al quale Kant attribuiva la creazione di una bellezza come finalità formale da percepire senza la rappresentazione di uno scopo, totalmente libera, simboleggiata dall’arabesco e guidata dalla “meraviglia” - come l’arte barocca - e che tuttavia può attingere, come nel caso di Baj, alla dimensione tragica della vita.
L’opera del Baj si delinea subito quale un viaggio nell’immaginario dove momento storico, condizione esistenziale, trascendenza, mistero della bellezza, si sovrappongono e si confondono.
Qui emotività e controllo razionale, abbandono lirico all’arabesco, fascinazione decorativa e attitudine critica si amalgamano come in una mistura alchemica, per originare una figurazione che, recuperando il simbolo, sa veicolare significati profondi, immediatamente coinvolgenti e conturbanti.
Tutto ciò è già presente nel primissimo Baj, che si va formando artisticamente all’Accademia di Brera e poi va tracciando i primi diagrammi del suo potentissimo immaginario: un Baj ancora sconosciuto e per certi versi acerbo, che presenta però, in nuce, già moltissimi dei motivi che, sviluppati nel corso della sua lunga parabola artistica, lo renderanno celebre. Ecco il Baj – il Baj prima di Baj – che questa mostra vuole documentare, con una interessantissima serie di opere giovanili inedite. Si tratta di 54 opere su carta della collezione di Giovanbattista Guidobaldi – nata da un rapporto di amicizia e frequentazione con l’artista – collocabili tra la seconda metà degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50: dagli esperimenti astratti databili alla fine degli anni ’40, che ricordano “Forma 1” e in particolare certe bellissime carte di Turcato, a certe magnifiche “macchie” già di carattere “nucleare”, che dialogano con le più incisive espressioni dell’Informale europeo e americano (da Debuffet ad Hartung a Kline), e in alcuni lavori si tendono in intriganti spirali di orbite atomiche. Ecco emergere anche con forza lo studio delle teste e dei volti, che culminerà con le famose “maschere” degli anni ’90, passando attraverso le Teste solari del 1953 e i Ritratti del 1953-54. Con i “Generali”, le “Dame” e i “Personaggi” del periodo 1959-63, in cui il disegno e la pittura evolvono verso un caleidoscopico polimaterismo, poi con quelli del periodo 1973-74, in cui si arriva a un uso quasi esclusivo del collage e dell’assemblage, il tema del volto e del ritratto immaginario esploderà in tutta la sua energia vitalistica e insieme corrosiva: qui l’ironia, il grottesco, la crudeltà caricaturale convivono con una giocosa leggerezza, con la gioia del colore della costruzione, della contaminazione di materiali e forme. All’inizio degli anni Novanta, il tema della testa e del volto tornerà a sedurre l’artista sotto l’aspetto delle maschere primitive, ispirate a Baj da studi antropologici sulle maschere eschimesi, oltre che dal primitivismo meditato attraverso l’opera di Picasso, Breton, Claude Lévi-Strauss. Nel 1994, il lavoro intorno alle maschere tribali si intensificherà, rendendo sempre più ardito e sorprendente l’assemblage di materiali e oggetti di tutti i tipi, giungendo a un’intensità espressiva, giocosa e insieme inquietante, che non teme paragoni.
Ecco, ancora, alcuni disegni che anticipano i “d’après” futuristi, matissiani e picassiani, altri che manifestano un uso insieme decorativo e drammatico del frammento, uso che, partendo da una straordinaria passione coloristica attinta anche ai “Papiers collées” di Matissse, si caricherà via via di connotazioni sempre più personali ed originali, sino a sfociare nei mosaici degli ultimi anni. Così Baj ci fa riflettere sulla fragilità e sul valore delle immagini e del reale, mimando qua e là l’ebrezza decorativa dei mosaici bizantini, in un processo in qualche modo “citazionistico”, dunque in qualche modo post-moderno. Il lavoro di Baj anticipa però ampiamente le teorizzazioni post-moderne: il suo “citazionismo” non nasce certo con le opere musive degli anni Novanta, ma risale, appunto, ai suoi celebri “d’après”, che già sembrano germinare in questi disegni giovanili. Tra il 1969 e il 1971 Baj farà un largo uso della tecnica del d’aprés, consistente nell’approvazione di temi, motivi, immagini e forme di altri artisti: iniziando con Klee, Balla e Boccioni, arriva a Picasso, che è a sua volta, probabilmente, il più geniale cultore del d’aprés e del rifacimento “parodico” e poi a Seraut, di cui re-interpreta stupendamente, con un uso quasi “sinfonico” del collage, e mantenendone le dimensioni originarie, La grande Jatte.
La regione esplorata dal giovane Baj è sempre - e sarà sempre - quella delle origini primordiali dell’espressività umana, dove il polimorfismo delle immagini si configura quale matrice autentica del sentire e dell’esistere, ma anche quella della decadenza: Baj arriva a riconoscere che regressione e decadenza umana non hanno limiti né confini, e comincia a sussurrarcelo qui, introducendo sottili dissonanze nella freschezza e nella “joie de vivre” di questi suoi lavori giovanili. Ciò che emerge è anche una sorta di “doppiezza” dell’immagine artistica: la possibilità dell’opera di partecipare di una lucidità critica, ironica o provocatoria, e insieme della “follia” metamorfica dell’ornamento.
Dopo la pittura “nucleare”, l’uso sempre più deciso del collage e dell’ assemblage apre una ricchissima prospettiva “ornamentale”, che è già ampiamente annunciata in molti dei lavori qui presentati , o fa pensare alla spettacolare corte di dame e personaggi che a patire dal 1959 comincia ad affollare la scena figurativa dell’artista: un tripudio di tappezzerie a fiorami, tessuti damascati, cordoni lucenti, fiocchi e nappine, vetri e bottoni colorati, paillettes scintillanti, che satura lo spazio della rappresentazione. Enrico Baj scrive:
Bambino, ero solito passare le estati in una villa vecchiotta e cadente. (…) Era stata costruita all’inizio del secolo, proprio mentre si gettavano le fondamenta di altre artistiche costruzioni. Ed era ricca di addobbi. Così da piccolo fissai nei ricordi a futura memoria tutto quel senso di decorato ornato, che vedevo tutt’attorno, cupo, talvolta, eppure pieno di volute e involute, di tracciati intrecciati, di stilemi arborei e vegetali, di scuretti dipinti a incorniciare questa o quella decorazione. Fregi quasi canori, addobbi arabescati, damascati, fogliami d’acanto e ramages venivano percorsi, ridisegnati da occhi infantili, su per gli arzigogoli, giù per mantovane discendenti e fioccaie cadenti, e poi dentro alle curvilinee, ai festoni e ai parametri di righe artigliate, ridette, piegate, avvolte e infiorate, a ripetersi senza posa nell’arabesco d’un labirinto infinito.
Un discorso icastico, potentemente visivo, che fa immediatamente comprendere dove affondino le radici dei suoi innumerevoli elementi “decorativi”: nelle vecchie case della sua infanzia, costruite e arredate con un gusto fatto anche di un profluvio di decorazioni, lussureggianti, debordanti, capziose, atte a sconfiggere l’ombra bianca del vuoto e a fare avvertire il senso dell’infinito e del labirintico. Ecco, già nei disegni di questa mostra, le sue volute arboree e floreali e le sue forme avvitate e sinuose, quelle stesse che dagli interni di una vecchia villa insidiarono e voluttuosamente avvolsero l’anima di Baj bambino colonizzando la sua immaginazione e distraendolo dal reale, così da fargli assumere un’aria stupita e assente, sufficiente a far diagnosticare al buon medico di famiglia un malessere dovuto alle adenoidi…..In realtà, Baj aveva già iniziato il suo viaggio lungo le vie infinite e misteriose dell’arabesco o “ghirigoro”, come lui stesso lo definisce, era già penetrato nel dominio del suo lusso assoluto, assolutamente libero e assolutamente gratuito.
Espressione di indomabile vitalismo e insieme di rarefatta spiritualità .Come scrive lo stesso Baj, facendo riferimento al celebre libro di Luciano Anceschi Autonomia ed eteronomia dell’arte, ”per Kant l’arabesco, nel libero gioco dell’immaginazione, scopre i rapporti tra il mondo della contingenza e il mondo della libertà. Esso diviene la più sottile e delicata metafora dello spirito, un diaframma fragilissimo attraverso il quale l’uomo può avvicinarsi all’assoluto”.
Con tutto ciò ebbe a che fare anche quanto scrisse Gillo Dorfles a proposito dello scribble, ”lo scarabocchio”, chiamando in causa anche il concetto di horror vacui, che è una delle più affascinanti ossessioni “neobarocche” di Baj:
questo universale segno che sta a metà strada tra il mandala e il cerchio, il labirinto e lo schema solare. Elemento indubbiamente decorativo fatto apposta per vincere l’horror vacui, che diventerà in un secondo tempo la matrice di infinite successive figurazioni alle quali il bambino attribuisce i più diversi significati: dal sole alla casa, dalla testa all’albero.
“Scribbles”, arabeschi, segni e frammenti fluttuanti, risvegliano nelle immagini di Baj un movimento di colore, luce, musica di scansioni e di ritmi formali, raffinata tattilità; pongono in forte evidenza la dimensione estetica, semantica e simbolica dell’immagine, sottraendola a quell’automatizzazione percettiva (stigmatizzata dai formalisti russi, ancora prima che da Jean Baudrillard o da Paul Virilio) che tarpa le ali alla nostra esperienza corporea, e insieme ci fa apparire tutto compatto e incrollabile.
L’arte di Baj affascina nella sua ludica serietà (“se l’arte è un gioco, essa è un gioco serio”, scrisse un grande pittore romantico) anche perché affronta l’inquietudine dell’ombra, il lato scuro, crudele e inquietante del mondo e dell’animo umano, e insieme ha un’irresistibile moto verso la luce, perché questa illumini il labirinto, il minaccioso groviglio.
Quest’arte è comunque distruttrice di significati consacrati, dotata quindi, come ben nota Alain Jouffroj, di uno spiccato carattere iconoclastico: disautomatizza così il linguaggio e la visione della quotidianità, ne disinnesca i meccanismi ripetitivi, per creare nuove immagini, testimoni di una realtà “altra”. Il pensiero mitico e figurativo, nel senso che il concetto non è mai separato dall’immagine e dalle emozioni che questa crea in noi. Il linguaggio di Baj torna infatti al contatto col corpo e con la sua energia, le sue pulsioni e le sue metamorfosi. Queste carte leggere e intense ne sono una suggestiva manifestazione.
03
ottobre 2009
Enrico Baj – Baj prima di Baj
Dal 03 ottobre al 03 novembre 2009
disegno e grafica
Location
FONDAZIONE MARINO MARINI
Pistoia, Corso Silvano Fedi, 30, (Pistoia)
Pistoia, Corso Silvano Fedi, 30, (Pistoia)
Orario di apertura
dalle 10 alle 17, esclusi la domenica e il martedì.
Vernissage
3 Ottobre 2009, ore 18
Autore