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Enrico Colombotto Rosso
Dipinti e grafiche da collezioni private.
Comunicato stampa
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Pare ineluttabile. Il persistente sistema figurale di Enrico Colombotto Rosso è portatore di una forza di constatazione, non saprei dire se proprio di denuncia. All’evidenza, c’è dolore. Proclamato dall’asciuttezza scavata, in quei volti rimpiccioliti, contratti e compressi, scarnificati nelle fattezze somatiche, segnati nelle cupe cavità orbitali, come da maschere del teatro antico, appunto quelle degli affreschi pompeiani. O meglio ancora, in grado di riesumare, inesorabili, la memoria dei ritratti dei defunti, come nei dipinti di Al Fayyum, o forse più da vicino, quelli che appaiono già segnati dalle impronte figurali lasciate dalle testimonianze della pittura romana, quando essa va trascolorando verso le sembianze paleocristiane, cioè appunto quelle rapprese nelle fantasmatiche apparenze figurali dell’età delle catacombe.
La “persona”, quindi, simulacro teatrale, allora noto da secoli agli etruschi.
Essa non può che concretizzarsi nelle fattezze di una giovinezza, o addirittura di una infanzia che aspira all’eternità, cui è però negata dal fato ogni felicità, allora e poi, nell’età adulta. L’”horror vacui” che la circonda, non può che travolgerla, esageratamente, fino a comprimere e subissare, nell’ossessivo istinto della ‘coazione a ripetere’ - testimoniata visivamente dall’aggressività del modulo decorativo - ogni pretesa di vita che ambisca a dignità, almeno corporea, energetica, vitalistica. Proprio come il volto già inceronato di un attore che si affaccia, prima dello spettacolo, a studiare il pubblico in sala, per curiosità, per ansia o per caso - solo per un attimo - tra le pesanti ed opprimenti coltri panneggiate di un gigantesco sipario, ancora ‘tirato’.
Un “vulnus” esistenziale, dunque, si trova alla radice del mondo ‘figurato’ del nostro Maestro, ne condiziona e orienta la “visione del mondo”.
A lungo, per gran parte degli ultimi decenni - dobbiamo riconoscerlo - ci pareva indispensabile, nell’ansioso tentativo di comprendere a tutti i costi l’arte contemporanea, fare ricorso alle sigle, al sistema delle etichettature, come per le confezioni del supermercato: espressionismo, dadaismo, surrealismo, neo-surrealismo, ecc. .. e, perché no!, “surfanta”, cioè, mal contato: surrealismo fantastico. E cosa poteva essere altro, o poco più, se non una sigla, di per sé ridondante? Così, almeno, ci appare oggi quell’assurda, o per lo meno datata, mania di etichettare. Resta piuttosto da riconsiderare e, dunque, da riprendere seriamente a studiare con altri criteri quel lungo “fil rouge”, che attraversa un secolo intero della cultura figurativa italiana e, in particolare piemontese, che inizia con la fine del XIX secolo, sotto le spoglie della cultura del simbolismo, in parallelo con il progressivo trionfo delle cosiddette “avanguardie”, per giungere, trasformato dagli eventi, ma altrettanto vitale, fino a noi.
Paolo Nesta
La “persona”, quindi, simulacro teatrale, allora noto da secoli agli etruschi.
Essa non può che concretizzarsi nelle fattezze di una giovinezza, o addirittura di una infanzia che aspira all’eternità, cui è però negata dal fato ogni felicità, allora e poi, nell’età adulta. L’”horror vacui” che la circonda, non può che travolgerla, esageratamente, fino a comprimere e subissare, nell’ossessivo istinto della ‘coazione a ripetere’ - testimoniata visivamente dall’aggressività del modulo decorativo - ogni pretesa di vita che ambisca a dignità, almeno corporea, energetica, vitalistica. Proprio come il volto già inceronato di un attore che si affaccia, prima dello spettacolo, a studiare il pubblico in sala, per curiosità, per ansia o per caso - solo per un attimo - tra le pesanti ed opprimenti coltri panneggiate di un gigantesco sipario, ancora ‘tirato’.
Un “vulnus” esistenziale, dunque, si trova alla radice del mondo ‘figurato’ del nostro Maestro, ne condiziona e orienta la “visione del mondo”.
A lungo, per gran parte degli ultimi decenni - dobbiamo riconoscerlo - ci pareva indispensabile, nell’ansioso tentativo di comprendere a tutti i costi l’arte contemporanea, fare ricorso alle sigle, al sistema delle etichettature, come per le confezioni del supermercato: espressionismo, dadaismo, surrealismo, neo-surrealismo, ecc. .. e, perché no!, “surfanta”, cioè, mal contato: surrealismo fantastico. E cosa poteva essere altro, o poco più, se non una sigla, di per sé ridondante? Così, almeno, ci appare oggi quell’assurda, o per lo meno datata, mania di etichettare. Resta piuttosto da riconsiderare e, dunque, da riprendere seriamente a studiare con altri criteri quel lungo “fil rouge”, che attraversa un secolo intero della cultura figurativa italiana e, in particolare piemontese, che inizia con la fine del XIX secolo, sotto le spoglie della cultura del simbolismo, in parallelo con il progressivo trionfo delle cosiddette “avanguardie”, per giungere, trasformato dagli eventi, ma altrettanto vitale, fino a noi.
Paolo Nesta
04
aprile 2009
Enrico Colombotto Rosso
Dal 04 aprile al 10 maggio 2009
arte contemporanea
disegno e grafica
disegno e grafica
Location
POW GALLERY – TORRE DI SAN MAURO
Almese, Vicolo San Mauro, (Torino)
Almese, Vicolo San Mauro, (Torino)
Orario di apertura
sabato e domenica ore 15-19
Vernissage
4 Aprile 2009, ore 17.30
Autore