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Entre glace et neige. Processi ed energie della natura
La mostra, curata da Glorianda Cipolla e Laura Cherubini, intende indagare la relazione tra arte e natura, concentrandosi sugli elementi della neve e del ghiaccio, emblemi dei processi naturali di trasformazione della materia. La Valle d’Aosta è infatti il luogo esemplare in cui assistere alla dialettica processuale tra acqua, neve e ghiaccio, da un punto di vista estetico, scientifico ed ecologico.
Comunicato stampa
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L’Assessore all’Istruzione e Cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta, Laurent Viérin, inaugurerà venerdì 14 maggio 2010, alle ore 18.00, presso il Centro Saint-Bénin di Aosta, l’esposizione Entre glace et neige. Processi ed energie della natura.
La mostra, curata da Laura Cherubini e Glorianda Cipolla, intende indagare la relazione tra arte e natura, concentrandosi sugli elementi della neve e del ghiaccio, emblemi dei processi naturali di trasformazione della materia. La Valle d'Aosta è infatti il luogo esemplare in cui assistere alla dialettica processuale tra acqua, neve e ghiaccio, da un punto di vista estetico, scientifico ed ecologico.
Entre glace et neige presenta le opere di circa 30 artisti italiani e stranieri che, attraverso tecniche e mezzi espressivi diversi, dalla pittura alla fotografia al video e dalla scultura all'installazione, si sono confrontati con quei fenomeni naturali che rappresentano gli stati solidi dell'acqua. Artisti storicizzati come Pier Paolo Calzolari, Anish Kapoor, Mario Merz, Salvatore Scarpitta, Hamish Fulton, Lawrence Carroll e Salvo sono affiancati da artisti più giovani come Anthony Goicolea, Elisa Sighicelli, Massimo Bartolini, Hans Op de Beeck, Christian Frosi, Lucy+Jorge Orta e Loris Cecchini per esplorare le modalità con cui l'arte riflette sulle energie della natura, nel duplice aspetto di universo pericoloso ora in pericolo.
Nella sua rappresentazione della neve, Salvo fa riferimento all’Impressionismo, grande momento di analisi pittorica della neve. Jana Sterbak appronta impraticabili sedie di ghiaccio in Dissolution e nel video Février riprende una pista di pattinaggio a Montreal, citando Brueghel. Anthony Goicolea realizza foto di crepacci e nevi dove permangono misteriose tracce umane. Donato Piccolo ricrea una bufera di neve sotto vetro. Pier Paolo Calzolari mette in posa una raggelata natura morta morandiana. Giuliana Cunéaz espone una fotografia ispirata all’enigma leggendario delle fate. Vera Lutter ritrae la neve nella natura urbana del Central Park di New York, Olivo Barbieri un colorato colosseo cinese di ghiaccio, Hiroyuki Masuyama il Monte Bianco in visione panoramica. Luca Artioli e Stefano Nicolini presentano entrambi fotografie di ghiacci che rasentano l’astrazione. Nel video Campo Sportivo Sabrina Mezzaqui contempla una fitta e silenziosa nevicata. Lucy+Jorge Orta aprono una finestra sui ghiacciai. Loris Cecchini immagina un iceberg abitato e fluttuante, alla deriva. Christian Frosi ci restituisce la notizia di una massiccia nevicata di venticinque anni fa. Chris Drury filma la vita di un iceberg e propone l’elettrocardiogramma di un ghiacciaio. Hamish Fulton documenta due camminate in quota. Anish Kapoor celebra il sole e la luna con una montagna in marmo bianco. Walter Niedermayr ci consegna il grande vuoto della montagna, costellato di piccole figure. La neve astratta di Pat Steir. La rugiada monocroma di Massimo Bartolini. Lo sgargiante giardino d’inverno di Marc Quinn. Il paesaggio artificiale di Hans Op de Beeck. Le tracce sulla neve di Armin Linke e i segni geometrici di David Tremlett. Elisa Sighicelli illumina i ghiacci dell’Islanda, Olafur Eliasson ne fotografa il paesaggio sterminato e Roni Horn realizza in quello stesso nord le immagini bifronti in mostra (Doubt by Water). Lo scarpone ghiacciato di Lawrence Carroll ci parla di viaggi e fatiche. Il libro di Chicco Margaroli ci consegna la linfa generatrice della montagna. La slitta di Salvatore Scarpitta è un oggetto mobile, come le auto con cui per anni ha gareggiato. L’Igloo di Mario Merz celebra con la pietra l’energia della vita. Durante l’inaugurazione della mostra è riproposta la storica performance L’Espressionista di Fabio Mauri (1982): un ragazzo vestito da sciatore d’epoca si muove tra il pubblico con gli sci ai piedi.
Jana Sterbak, Dissolution, 2001, stampa fotografica, cm 80x100
Jana Sterbak, Février, 2005, video
Chris Drury, Lake Concordia, 2007/08, biro su stampa a getto d'inchiostro su vinile, cm 135x120
Chris Drury, 24 Hour Iceberg, 2007, video
Sabrina Mezzaqui, Fuochi, 2006, DVD Loop, 6’
Sabrina Mezzaqui, Campo sportivo, 2003, DVD, 10’
Hamish Fulton, A view from the highest point in North America (plus Argentina) - Alaska, 2003/04, stampa fotografica, cm 50x60
Marc Quinn, Winter Garden, 2005, fotografia su carta Somerset Velvet, cm 83x124
Pat Steir, Simone's Snow, 2001, olio su tela, cm 124x124x4
Vera Lutter, Central Park, 1996, stampa fotografica, cm 60x80
Roni Horn, Doubt by Water, 2003/04, 12 foto pigmentate, 6 unità con due lati, 6 piedistalli in alluminio, ogni foto cm 42x56, ogni piedistallo cm 35,5 (diametro base) x 180 (altezza)
Loris Cecchini, Sliding construction and drifting thoughts V, 2008, stampa a getto d’inchiostro su carta di cotone Hahnemuhle montata su Forex e lamiera zincata, resina poliuretanica, PETG, pellicola lenticolare 3M, rivetti in alluminio, scatola in poliuretano termoformato trasparente, cm 141x101x25
Armin Linke, Ice pack Artic North Pole, 2001, stampa fotografica su alluminio con cornice in legno, cm 100x200
Lawrence Carroll, Untitled (Freezing Shoes), 2006, scarpe, ghiaccio, Plexiglas, piedistallo cm 99x59x58, coperchio cm 23,5x36x29
Anthony Goicolea, Glacier, 2002, stampa fotografica, cm 183x61
Anthony Goicolea, Snowscape with Owls, 2003, stampa fotografica, cm 76x76
Pierpaolo Calzolari, Natura Morta, 2005, tempera al latte, rame, piombo, feltro, ferro, refrigeratore, cm 142x262x70
Salvatore Scarpitta, Parachute Sled, 1987, slitta in legno e paracadute, cm 220 (altezza)
Lucy+Jorge Orta, Window on the World - Amazonia, 2010, finestra con cornice in legno, fotografia lambda laminata su Dubon, 20 bottiglie da plasma, cm 95x95x20
Massimo Bartolini, Rugiada, 2009, smalto su alluminio, cm 50x75
Walter Niedermayr, La Plaine Morte 3, 2005, stampa fotografica, 3 pannelli cm 131x104, installazione cm 131x318
Anish Kapoor, Mountain with Sun and Moon, 2003, marmo bianco statuario, foglia d'oro, grasso, cm 100x100x100, kg 1300
David Tremlett, 6 Parallelograms in Snow 1972 Lapland (0ulu), 1972, stampa fotografica, cm 185x122
Elisa Sighicelli, White Dappled Mountains, 2003, lightbox, cm 109,5x109,5x4
Elisa Sighicelli, Icebergs, 2001, 3 light box, ognuno cm 119x144x10
Hiroyuki Masuyama, Mont Blanc Flight, 2005, stampa fotografica, cm 30x300
Luca Artioli, La Caduta dal Cielo, 2006, stampa lambda, cm 100x70
Mario Merz, Igloo, 1991, struttura metallica, pietre, morsetti, cm 300 diametro x cm 150 (altezza)
Giuliana Cunéaz, Fata del Miage (Courmayeur), 1990, stampa digitale su carta baritata, cm 150x150
Chicco Margaroli, Libro Ciclico - Palindromo del Freddo, 2010, smerigliatura su vetro e aggregazione limo glaciale di epoca neolitica, cm 31x21x9,5 chiuso, cm 31x50 aperto
Stefano Nicolini, L'armatura polare, Orcadi Australi, 2008, fotografia analogica in diapositiva, cm 96x110
Donato Piccolo, Why Henry Cavendish did not smoke, 2010, vetro, nebulizzatore ad ultrasuoni, neve chimica, impianto alogeno, motoventilatori, acqua demineralizzata, cm 170x50x30
Christian Frosi, Lettura modificata di un telegiornale del 1985 riguardante la massiccia nevicata di quell'anno e un elenco di 800 possibili inquadrature per una sigla di un programma televisivo sull'ambiente, 2010, file audio digitale in loop
Fabio Mauri, L’Espressionista, 1982, performance
Hans Op de Beeck, Exterior (1), 2010, stampa Lambda montata su Dibond in cornice di legno, cm 241,75x93,35x4,1
Olafur Eliasson, Untitled, 1994, stampa fotografica su Forex, cm 50,5x60,5
Olivo Barbieri, Harbin, China, 2010, stampa a getto d’inchiostro su carta archival, cm 111x146,1
Salvo, Dicembre, 2002, olio su tela, cm 70x50
UN OCEANO BIANCO
“They dropped like Flakes –
They dropped like Stars –
Like Petals from a Rose –
When suddenly across the June
A Wind with fingers – goes…”
Emily Dickinson
“O femme dangereuse, o séduisants climats!
Adorerai-je aussi ta neige et vos frimas,
Et saurai-je tirer de l’implacable hiver
Des plaisirs plus aigus que la glace et le fer?”
Charles Baudelaire
“Snow flakes./I counted till they danced so/Their slippers leale the town,/And then I took a pencil/To note the rebels down” (“Fiocchi di neve//Io li contai finché così danzavano/che le loro scarpine saltavano/la città - e presi una matita/per registrare severa i ribelli”) sono versi di Emily Dickinson. Il fiocco di neve è l’unità elementare della neve, l’atomo, la cellula singola che sta alla base di tutto il fenomeno. Nell’aria fredda distinguiamo ancora il fiocco di neve: in quel momento la sua caratteristica è il movimento. Il fiocco di neve scende dal cielo, volteggia, sembra in effetti condurre una danza guidata dal vento. Tanti fiocchi di neve ci circondano. Dopo la loro caduta i fiocchi diventano neve, la loro pluralità scompare, per lasciare il posto a un elemento unico e il movimento finisce per lasciare il posto alla stasi. “The Flake the Wind esasperate/More eloquently lie/Then if escorted to it’s Down,/By Arm of Chivalry” (“Il fiocco di neve straziato dai venti/giace con più autorevole eloquenza/che se l’avesse scortato al giaciglio/il braccio della cavalleria”) ancora Emily Dickinson.
“Snow beneath whose chilly softness/Some that never lay/Make their first Repose this Winter/I admonish Thee” scrive Emily Dickinson “Blanket Wealthier the Neighbor/We so new bestow/Than thine acclimated Creature/Wilt Thou, Austere Snow?” (“Neve sotto il cui gelido tepore/ alcuni che non giacquero in passato/riposano quest’inverno,/ascoltami//al nuovo amico che ora ti affidiamo/riserva una coltre più ricca/che agli altri già cresciuti nel tuo clima/Vorrai tu farlo, dimmi, neve austera?”). La neve può essere l’ultima dimora, può accogliere il sonno eterno della morte. Il silenzio è in questo caso assoluto, il tempo infinito. La neve è coperta, grembo materno, è l’interfaccia candido e luminoso del buio della fossa scavata nella terra.
La neve fa perdere ogni punto di riferimento. Nel romanzo di Emily Bronte Cime Tempestose (1847) il signor Lockwood, affittuario di Thrushcross Grange (la bella villa dei Linton caduta anch’essa nelle mani di Heatcliff), torna a casa dopo una tempesta di neve (e una tempestosa notte passata nella fosca dimora di Heatcliff), in una giornata in cui l’aria è “limpida, calma e fredda come ghiaccio impalpabile”, e trova un paesaggio mutato: “…il fianco della collina era tutto un oceano bianco e ondoso, in cui le creste e gli strapiombi non corrispondevano affatto ai rialzi e avallamenti del terreno: o perlomeno molte buche si erano riempite fino a livellarsi, e intere file di cumuli di detriti delle cave erano state cancellate dalla mappa che la mia escursione del giorno prima mi aveva lasciato impressa in
mente”. La neve trasforma la mappatura del territorio, la geografia mentale.
Il fatto è che la neve crea uno spiazzamento, una sensazione di de realizzazione. E’ in genere proprio per questo che viene utilizzata nella letteratura. “Il silenzio della neve, pensava l’uomo seduto dietro all’autista del pullman” è l’incipit di Neve (2002) del premio Nobel turco Orhan Pamuk “Se questo fosse stato l’inizio di una poesia, avrebbe chiamato ‘silenzio della neve’ ciò che sentiva dentro”. Poco dopo la partenza da Erzurum aveva ripreso a nevicare. “Adesso era più forte: i fiocchi erano più grandi di quelli del tragitto da Istanbul a Erzurum. Se il passeggero non fosse stato stanco per l viaggio e avesse prestato un po’ più di attenzione ai grandi fiocchi di neve che scendevano dal cielo come piume di uccelli, avrebbe potuto percepire che si stava avvicinando una violenta tormenta di neve e, forse, avrebbe potuto capire immediatamente di aver intrapreso un viaggio destinato a cambiare tutta la sua vita, e sarebbe potuto tornare indietro” (tutti i corsivi sono miei). Perché di questo ci parla la neve, di una trasformazione. E’ una materia processuale, una materia in perpetua metamorfosi. E’ metafora di cambiamento, di rigenerazione. “Contemplava i fiocchi di neve che man mano si facevano più grandi e si disperdevano nel vento, non come presagi di una prossima sventura ma, finalmente, come indizi del ritorno della felicità e dell’innocenza della sua infanzia”. La neve rende luminoso il cielo. “Sentiva che quella bellezza sovrannaturale lo rendeva persino più felice della Istanbul che aveva potuto rivedere dopo tanti anni… Mentre la neve scendeva fitta e silenziosa come nei sogni, il passeggero provò quella sensazione di innocenza e di ingenuità che cercava appassionatamente da anni…”. Se la neve appartiene a una età, questa è l’età dell’infanzia. “I segnali stradali erano coperti di neve e non si leggevano… I passeggeri impauriti, in silenzio assoluto, guardavano le strade delle misere cittadine già coperte di neve, le pallide luci delle fatiscenti case a un solo piano, le strade già bloccate dei villaggi lontani e gli strapiombi appena illuminati dai fari. Se parlavano, lo facevano a bassa voce”. Il silenzio della neve è contagioso. Arrivato a Kars, il viaggiatore non la riconosce: “Era come se tutto fosse stato cancellato, perso sotto la neve”. Nell’albergo dal simbolico nome Palazzo delle nevi “scostò leggermente la tenda per guardare gli enormi fiocchi di neve che continuavano a scendere”. Continua a nevicare per tutta la notte e anche il giorno dopo, ma è difficile per il protagonista ritrovare quella sensazione di purezza che la neve gli ha sempre dato, mentre cresce in lui una forte sensazione di solitudine: “Come se questo fosse un luogo dimenticato da tutti, mentre la neve scendeva silenziosa sulla fine del mondo”. Più avanti nella sua stanza d’albergo il protagonista scrive una poesia che intitola Neve: “Tempo dopo, pensando a come aveva scritto quella poesia, gli sarebbe venuto in mente un fiocco di neve, e visto che quel fiocco, in qualche modo, descriveva la sua neve, avrebbe deciso che questa poesia doveva trovarsi in un posto vicino al suo io, a spiegarne il senso della vita”. Poco dopo riceve una lettera che riferisce un sogno: “…nel sogno nevicava e ogni fiocco di neve scendeva sul mondo come una luce sacra…”. Questi fiocchi di neve costellano tutto il libro, a volte sembrano “appesi in aria” come al di fuori di ogni legge di gravità terrestre. A un certo punto il protagonista trova in un’enciclopedia dalle pagine strappate nella bibloteca provinciale una definizione che lo colpisce molto: “KAR (neve). E’ la forma solida che l’acqua acquista scendendo, ruotando oppure sollevandosi nell’atmosfera. In generale è a forma di graziose stelline di cristallo a struttura esagonale. Ogni cristallo ha una struttura esagonale propria. I segreti della neve, fin dai tempi antichi, hanno attirato l’attenzione e l’ammirazione dell’uomo. Il primo ad affermare che ogni fiocco di neve avesse una struttura esagonale, come si vede nello schema, fu il sacerdote Olaus Magnus nella città di Uppsala, in Svezia, nel 1555”. Da notare che il teatro della vicenda è la cittadina di Kars e che il protagonista è chiamato con le sue iniziali Ka e che queste due parole sembrano avere la stessa radice di Kar, il termine turco che designa la neve. Il libro finisce con un treno in partenza: “poi tutti scomparvero dentro i grandi fiocchi di neve che si facevano sempre più intensi”.
“Il treno sbucò dalla lunga galleria nel paese delle nevi. La campagna si stendeva bianca sotto il cielo notturno. Il treno si arrestò a un segnale”. Così entra in scena Shimamura, il protagonista de Il paese delle nevi (1947) di Kawabata Yasunari. Il paese delle nevi è un territorio incantato dove ha sede una stazione termale. “ Il paesaggio era scuro, severo. Il crepitio della neve che gelava sulla terra pareva rimbombare nelle sue profondità”. La neve può avere un rumore, un’eco. “Anche se nere, le montagne parevano in quel momento brillare del colore della neve. Parevano ora trasparenti, ora cupe”. La neve può avere un colore. In questo libro la neve è colta in piccoli, brevi, effimeri momenti. Fasi di passaggio e di transizione: “Le verdi cipolle negli orti non erano ancora sepolte dalla neve… Piccoli ghiaccioli scintillavano delicatamente lungo le grondaie… I bambini spezzavano blocchi di ghiaccio dai canali di scolo e li gettavano in mezzo alla strada. Era senza dubbio lo scintillio del ghiaccio che volava in pezzi a incantarli così…”. In più di un’occasione la neve è colta come un riflesso in uno specchio. La fugacità è qui una sua caratteristica. “Doveva esserci un giardino di fronte alla casa, e rosse carpe nuotavano nel piccolo stagno. Il ghiaccio era stato rotto e giaceva ammucchiato lungo la riva”. Piccole scene domestiche. “La neve sui monti lontani era morbida e farinosa, come velata da un leggero fumo”. La neve si sfarina, il paesaggio si vela diventa sfumato. E’ questa una nuova qualità della neve, diversa da quella cristallina che brilla. “Il gioco di luci e di ombre mutava di momento in momento tratteggiando un gelido paesaggio… Shimamura vedeva sotto la finestra piccoli aghi di gelo simili a colla di pesce fra i crisantemi avvizziti…”. Kawabata Yasunari ci lascia intravedere diverse tipologie e diverse fasi della neve, momenti di differente fisicità e natura. “Ho sentito dire che nella cittadina dopo questa gli scolari si tuffano nudi dal secondo piano del dormitorio, Affondano nella neve e si muovono sotto di essa come se nuotassero”. Nel paese delle nevi per la festa del 14 febbraio i bambini pestano la neve, la tagliano in cubi di mezzo metro e costruiscono un palazzo di neve. Shimamura cerca dai rigattieri antichi e rari tessuti Chijimi, filati da ragazze tra i quattordici e i ventiquattro anni, che invecchiando perdono il loro tocco. Il tempo di questa tessitura è quello dell’inverno, da ottobre, quando iniziava la filatura, a metà febbraio quando finisce l’ultima sbiancatura, elaborata operazione lungamente descritta. “Il filo veniva filato nella neve, e la stoffa tessuta nella neve, lavata nella neve e imbiancata nella neve. Ogni operazione, dalla prima filatura alle ultime rifiniture, era compiuta nella neve. ‘Esiste la tela Chijimi perché esiste la neve, - aveva scritto qualcuno tanto tempo fa – La neve è la madre del Chijimi’. La tela Chijimi di questo paese delle nevi era il lavoro a mano delle fanciulle di montagna bloccate fra la neve nei lunghi mesi invernali”.
Con La neve era sporca Georges Simenon rovescia un luogo comune: quello che la neve sia sempre immagine di purezza e innocenza. Il teatro della vicenda è un bordello in una città del Nord occupata dai nazisti. Il protagonista Frank è il figlio della piacente tenutaria e compie una serie di crimini e misfatti quasi senza altra ragione che quella di andare incontro al suo tragico destino. Questo ineluttabile percorso è scandito dall’immagine degradata della neve in città. “La via del tram è bianca e nera, e la neve è più sudicia che altrove… Il cielo è basso, eccessivamente chiaro, con quella luminosità che dà più malinconia del grigiore deciso. Livido e traslucido, quel bianco ha qualcosa di minaccioso, di definitivo, di eterno…”. E più avanti, nel sabato che è il giorno principale nella casa di Lotte, mentre Frank deve occuparsi di trovare una sostituta a Minna, “sempre neve sporca, tutta quella neve che pare marcita, con tracce nere e incrostazioni di detriti. La polvere bianca che ogni tanto si stacca dalla crosta celeste, a mucchietti, come il calcinaccio da un soffitto, non ce la fa a coprire quel sudiciume”. E nel giorno in cui qualcuno lo preleva per portarlo in una non ben identificata prigione: “Il cielo era luminoso e si aveva l’impressione, quella mattina, che tutta la città scintillasse, le vetrate, la neve, i tetti candidi. E’ lui che deforma quella visione? C’è però un particolare che non inganna. Aspettando il secondo tram, ha lasciato cadere il mozzicone di sigaretta nella neve. Di solito la neve è dura, coperta da una crosta ghiacciata e il tabacco avrebbe dovuto continuare a consumarsi per un bel pezzo; invece il mozzicone si era spento, come assorbito dall’umidità della neve al sole. Con un po’ meno rigore avrebbe potuto dire che era stato risucchiato dalla neve”. Anche la fine arriva “una mattina che ha ripreso a nevicare”.
Il protagonista di Canto della neve silenziosa di Hubert Selby Jr. deve camminare ogni giorno per ordine del medico. La sua mattina inizia in modo quotidiano e domestico. Suo figlio Michael gioca con le palle di neve. Harry (il nome che l’autore conserva sempre nei suoi diversi racconti, il nome che potrebbe essere di ogni protagonista) si avvia in quella che potrebbe essere l’ultima neve della stagione nel Connecticut per la sua passeggiata: “Persino la neve che cadeva dava una certa impressione d’immobilità. Mulinava nell’aria e si posava a terra e sui cespugli senza mai dare l’impressione che fosse estranea a quell’ambiente, come se fosse stata sempre lì, facesse parte dell’aria stessa e di tutto ciò che circondava lui… Camminando guardava gli alberi spogli coi rami merlettati di neve e i sempreverdi e i cespugli anch’essi coperti e piegati sotto l’umido peso della neve. Quella quiete era nuova per lui, un silenzio mai udito e di cui non sapeva niente ma che tuttavia stava ormai conoscendo. E benché l’aria avesse una qualità quasi tangibile era tuttavia più leggera di prima e dava la sensazione di galleggiarvi dentro, una sensazione che lo invase dolcemente man mano che avanzava dandogli l’impressione che ogni movimento incontrasse sempre meno resistenza. Guardò in fondo alla strada a tutto quel bianco intatto e poi guardò i propri piedi affondare nella neve e sentì il lieve scricchiolio dei passi. Si voltò a guardare le proprie impronte. Affascinanti. Era il primo che percorreva quella strada oggi”. Pian piano davanti a i suoi occhi il paesaggio familiare cambia: “ogni casa e cespuglio e albero e arbusto e cassetta da lettere erano decorati di neve e fusi in quell’aria come se fossero un quadro, la rappresentazione di quell’immobile grigio perla, nient’altro che un’impressione creata dalla stessa silenziosa neve, un quadro pronto a scomparire per lasciare solo aria e neve, quelle attraverso cui lui ora stava avanzando a passo leggero” (corsivi miei). Voleva “abbandonarsi all’aria dolce e illuminata e alla neve silenziosa che lo circondava, sfiorava, gli si posava addosso, coi fiocchi che gli ornavano le sopracciglia, vagamente discernibili come chissà cosa ai margini della visione… Tutto era visione, una visione senza…una visione proiettata tutt’intorno a lui e tuttavia provata nell’intimo”. Ripercorre le proprie impronte mentre due cani avanzano tranquilli nella neve annusando l’aria. Selby descrive un’esperienza sensoriale della neve, che accompagna il protagonista verso il trapasso di una soglia. Si tratta di un’esperienza psicofisica, un viaggio fisico e mentale al tempo stesso, una relazione silenziosa tra la propria interiorità e le cose che ci circondano. I pensieri di morte svaniscono assorbiti dalla neve, non sente più lo scricchiolio dei passi e non lascia più impronte. “Sentì la neve cadere lenta nell’aria, ogni fiocco con un suono proprio e distinto e non ostacolato nella caduta così che i suoni di tutti quei fiocchi non mescolavano né stridevano ma si fondevano invece in un canto, quello della neve, che lui sapeva che pochi avevano mai udito. E, pur restando dolce, quel canto diventava sempre più forte mentre lui era sempre assorbito dalla luce, diventava una cosa sola con la luce…”. Infine il canto della neve viene gradualmente sostituito da un canto familiare. “Udì lo scricchiolio della neve sotto i suoi piedi ma ancora una volta si sentì più leggero… non ostacolato né impedito… capace di muoversi liberamente nell’aria grigio perla e sulla neve silenziosa”. Come ogni viaggio iniziatico la passeggiata nella neve ci porta poco lontano dalla propria casa in un’atmosfera sospesa, dove il silenzio è palpabile.
Quasi infinite sono le variazioni nel campo d’indagine delle relazioni tra natura e arte. Tutta la storia dell’arte nasce all’interno di questo dialettico rapporto e se ne alimenta come in un soffio vitale.
La Valle d’Aosta e’ uno straordinario sito di bellezza famoso in tutto il mondo, anche perché in modo esemplare vi si sviluppa la dialettica naturale tra acqua, neve e ghiaccio. Il massiccio del Monte Bianco, la vetta più alta d’Europa, è di questo emblema.
L’arte contemporanea è sempre stata molto attenta agli elementi naturali e alla processualità delle materie. Gran parte dell’arte contemporanea ha scelto la modalità della presentazione diretta degli elementi naturali: in Italia questo è stato particolarmente importante con la fase dell’arte povera. I processi di trasformazione sono stati assunti dall’arte contemporanea. L’arte stessa è un grande processo di trasformazione delle materie, delle forme e delle idee. Le materie in divenire, l’acqua, la luce, persino l’aria, sono protagoniste. Materiali privilegiati sono anche quelli viventi: l’uomo nelle performance, gli animali, il mondo vegetale. Molti artisti sono tornati a lavorare per quell’eden creato dall’uomo che è il giardino. Questo microcosmo un tempo proteggeva l’uomo dalla natura selvaggia, oggi può forse proteggere la natura dall’uomo. Nel mondo contemporaneo è infatti avvenuto un grande mutamento: la natura, oltre che pericolosa, come è sempre stata per l’uomo, è soprattutto in pericolo. A questo doppio aspetto l’arte contemporanea continuamente si riferisce, attingendo all’energia dei fenomeni naturali. Alcune opere hanno utilizzato neve e ghiaccio, stati solidi dell’elemento acqua. Il ciclo dell’acqua è un trasparente processo di trasformazione delle energie naturali. Inoltre i più svariati strumenti si sono cimentati nella documentazione e nell’evocazione dell’ambiente della montagna e delle sue componenti: pittura, fotografia, video, installazione.
In una delle nostre lunghe chiacchierate con Salvo abbiamo parlato a lungo del tema della neve in pittura e di quale poteva essere un quadro considerato caposaldo in questo senso. Le nostre idee convergevano su uno dei capolavori del Museo di Capodimonte a Napoli, Il miracolo della neve di Masolino da Panicale (1429). Una leggenda (le cose non stavano esattamente così) narrava che nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 352 dopo Cristo un patrizio romano, che ha deciso di dedicare una chiesa alla Vergine affinché esaudisca il suo desiderio di avere un figlio, sogna Maria stessa che gli dice che un miracolo indicherà il luogo dove costruire l’edificio. Papa Liberio fa lo stesso sogno e il giorno dopo trova l’Esquilino coperto di neve. E’ lì che viene costruita la chiesa a spese del committente. E’ per questo che viene chiamata S. Maria Liberiana o S. Maria ad Nives. Il quadro di Masolino mostra il Papa che traccia la pianta della Basilica di S. Maria Maggiore (come viene più comunemente chiamata) nella neve. La scena in precedenza era già stata raffigurata a mosaico da Filippo Rusuti sull’esterno della Basilica (1288) e in una vetrata di Orsanmichele alla fine del XIV secolo, successivamente sarà rappresentata dal Perugino e da Mathias Grunewald. Nel quadro di Masolino, la neve cade da nuvole quasi solide, come dischi volanti (con cui in effetti qualcuno le ha scambiate!), disposte in prospettiva nel cielo aureo che nell’interfaccia superiore mostra Cristo e la Madonna all’interno di un campo circolare. In Dicembre (2002) Salvo si ricorda di queste nuvole solide di Masolino, che hanno la stessa consistenza delle montagne e degli edifici. Aggiunge un piccolo miracolo personale: per le nuvole e per la neve usa tutti i colori tranne il bianco, eppure inequivocabilmente riconosciamo il paesaggio nevoso come tale.
Però, qui come in altre opere, Salvo fa riferimento anche all’altro grande momento di analisi pittorica sulla neve: l’Impressionismo. La neve, con la sua struttura a fiocchi, sembra quasi essere il modello naturale della pittura impressionista a piccoli tocchi, è stata infatti frequentemente rappresentata da quegli artisti. In molti quadri di Salvo la lenta caduta dei fiocchi viene messa a fuoco, letteralmente, dalla luce dei lampioni nell’ambiente urbano.
Jana Sterbak appronta scomode e quasi impraticabili sedie di ghiaccio (Dissolution, 2001), improbabili protesi per il corpo umano attorno al quale si accentra la sua ricerca. Il video Febbraio riprende in altissima risoluzione a camera fissa una pista di pattinaggio a Montreal. Lo spettatore si trova di fronte a uno scenario dettagliato come in un dipinto di Brueghel: un luogo banale e quotidiano diventa un equivalente contemporaneo dello stile nordico rinascimentale. Anthony Goicolea (Glacier, 2002 e Snowscape with Owls, 2003) realizza foto di ghiacciai, nevi, crepacci che dialogano con lo spazio entro il quale vengono installate. I fotografi di natura colgono le energie naturali: le muraglie di ghiacci trasparenti di Luca Artioli, il ciclo acqua-neve-ghiaccio di Nicolini.
Pier Paolo Calzolari mette in posa una raggelata natura morta morandiana.
Giuliana Cunéaz nel ’90 ha creato in Val d’Aosta un circuito che unisce 24 località legate all’apparizione di una fata, tra queste due fate dei ghiacciai: in ogni sito un leggio con uno spartito in marmo. Riunendo i 24 brani è possibile ricostruire l’intera composizione musicale. “Le fate sono creature nate e cresciute nell’immaginario umano, sono esseri eterei e impalpabili che si annidano nell’intercapedine tra mente e natura. Le leggende ne descrivono la bellezza, la levità e il mistero ma dietro a queste virtù, spesso, si nasconde un lato più oscuro: una segreta deformità (uno zoccolo caprino o una coda d’asino nascosti sotto gli abiti)…” dice l’artista. Miti, saghe e leggende ci hanno tramandato di bocca in bocca seduzioni e pericoli delle fate: si può esserne rapiti per un viaggio senza ritorno. Le complesse installazioni di Roni Horn ci parlano di una rapporto ciclico tra l’uomo e la natura, una relazione speculare in cui si tenta di ricostruire la natura a nostra immagine e somiglianza. Nella foto di Vera Lutter la neve copre quel brano di natura selvaggia in città che è il Central Park di New York. Quella di Hiroyuki Masuyama è la visione panoramica del Monte Bianco a volo d’uccello. Da notare inoltre che Masuyama nel 2008 ha fotografato il Monte Rosa dipinto da Turner nel 1836 con curiosi effetti di pittorialismo fotografico e una sovrapposizione di visioni e memorie. Per Sabrina Mezzaqui in un video del 2003 una fitta, lenta, silenziosa nevicata, l’attitudine contemplativa dell’artista capace di fermare un momento senza tempo, la melanconia di un campo sportivo sotto la neve.
Di Lucy e Jorge Horta vediamo una finestra, di cui un tempo il quadro era il perfetto analogon, che affaccia sui ghiacci. Per Massimo Bartolini l’esperienza della montagna è quella della pittura toscana del primo Trecento: le sue “montagne di Giotto” sono realizzate in pietra serena (come nella tradizione dei bassorilievi di Donatello). Sono tagliate alla cima perché devono essere considerate valicabili, praticabili. Su una di queste montagne nel ’95 Bartolini aveva posto un piccolo blocco di ghiaccio che lasciava sciogliere. Tutta l’opera di Bartolini parte da elementi naturali e processi della natura posti in analogia con le costruzioni della mente umana, l’arte, l’architettura. Tra le materie in trasformazione un posto particolare occupa la Rugiada: simbolo della grazia vivificante è legata al mistero del sangue del Redentore. Il sangue è la “rugiada celeste” dell’ermetismo e della Cabala. Per la tradizione cinese al centro del mondo c’è “l’albero della rugiada dolce”, simbolo dell’unione armoniosa di cielo e terra. La rugiada nasce anche dall’accordo perfetto di quattro corde di un liuto. Plinio la chiama sudore del cielo” e “saliva degli astri”.
Donato Piccolo ha realizzato una serie di parallelepipedi trasparenti che ospita eventi naturali miniaturizzati, piccoli uragani artificialmente ricreati (Hurricane). Gli strumenti sono costituiti da meccanismi di ventilazione, nebulizzazione e illuminotecnica. Le immagini degli uragani sono rese emozionali. Così è anche per una esplosione di acqua. Ed è sempre un volume diafano a contenere una tempesta di neve e ancora una volta un fenomeno artificiale si trasforma in uno stato mentale. Avvistiamo la fine dell’inverno e in lontananza le montagne venate dai ghiacciai nell’opera di Elisa Sighicelli. La stessa autrice ci porta tra isole di ghiaccio che vagano tra le acque. La natura è il grande teatro entro cui si colloca l’opera intera di Olafur Eliasson. Chicco Margaroli presenta un libro trasparente che mima le materie stesse della montagna. Hans Op de Beck appronta un piccolo set che ospita un desolato paesaggio invernale, spoglio e algido. La foto di David Tremlett rintraccia figure geometriche nell’indifferenziato bianco della neve.
“Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza”:dalla circolarità di questa massima del generale Giap trae origine l’igloo di Merz, casa, cupola, caverna, coppa che accoglie uomini, cose, pensieri. “L’igloo è la forma organica ideale” dice l’artista “E’ nel contempo mondo e piccola casa. Quello che mi ha interessato nell’igloo è il fatto di esistere nella mente prima di essere realizzato”. Per Merz un’idea si traduce immediatamente in termini spaziali, così è il linguaggio a generare il luogo. Dalle parole nasce l’abitare, il precario riparo dell’igloo, all’interno di un’idea rotonda. “Quello che mi dava enormemente fastidio erano gli angoli… La scritta di Giap era senza angoli ed è venuto fuori l’igloo”. Le parole al neon si dispongono a spirale sulla calotta dell’igloo. Nella creazione dell’igloo convergono tre motivi: l’abbandono del piano murale, l’idea di creare uno spazio indipendente dall’appendere le cose al muro, l’idea di spazio chiuso in se stesso.
E poi la costruzione slittante in analogia con i pensieri alla deriva di Loris Cecchini. La vita di un iceberg e l’elettrocardiogramma di un ghiacciaio raccontate in diretta da Chris Drury. La mappa delle vette di Hamish Fulton. Le montagne di marmo in cui i riflessi sono veramente d’oro di Anish Kapoor. Lo spazio della montagna innevata come grande momento di vuoto costellato da piccole figure di Walter Niedermayr. La neve dipinta da Pat Steir. L’immagine dell’algido giardino d’inverno di Marc Quinn. L’infinita distesa di bianco di Armin Linke.
Ci sono poi le attrezzature che ci permettono di affrontare la neve e il ghiaccio. Lo scarpone ghiacciato di Lawrence Carroll ci parla di viaggi e fatiche. La slitta di Salvatore Scarpitta è un oggetto mobile, come le auto con cui per anni l’artista ha gareggiato. Alla slitta è legato un paracadute producendo una tensione simile a quella che si creava nei quadri realizzati con le bande elastiche.
L’Espressionista di Fabio Mauri (1982) presenta un ragazzo in sci, vestito da sciatore d’epoca che si muove tra il pubblico. “Si toglie gli sci, sale le scale, se li rimette. Di tanto in tanto, estrae matita e carta e disegna ciò che vede: una figura femminile, un tavolo, una pianta. Abbandona i suoi disegni al pubblico. Dallo zaino spuntano xilografie di Heckel, di Muller, di altri giovani espressionisti. La presenza degli sci ai piedi muta istantaneamente il rapporto dell’individuo col Teatro o con il Museo. Introduce un elemento irriducibilmente esterno, la presenza inospitale e solitaria di un’artista” scrive lo stesso Mauri. Ricordo che una volta Mauri mi disse che “dove c’è un oggetto che esce dal quadro c’è espressionismo. La performance dunque è espressionismo, tutta l’arte di comportamento è puro espressionismo”. Dallo zaino dello sciatore infatti escono opere espressioniste. E gli sci ai piedi del giovane che goffamente si aggira spiazzato nel museo sono proprio come un oggetto che esce dal quadro, appendici del corpo umano. Ma forse Mauri ha scelto lo sci rispetto ad altre attività sportive con riferimento alle romantiche poetiche del sublime che esaltano le asperità della montagna e sembrano mettere l’uomo a confronto con l’infinito, come nell’opera di Friedrich.
Chiude e apre la mostra il lavoro di Christian Frosi che analizza la comunicazione attraverso i media di un fenomeno naturale come quello della grande nevicata che blocca le città, isola i piccoli centri e devia il ritmo quotidiano delle cose.
Laura Cherubini
La mostra, curata da Laura Cherubini e Glorianda Cipolla, intende indagare la relazione tra arte e natura, concentrandosi sugli elementi della neve e del ghiaccio, emblemi dei processi naturali di trasformazione della materia. La Valle d'Aosta è infatti il luogo esemplare in cui assistere alla dialettica processuale tra acqua, neve e ghiaccio, da un punto di vista estetico, scientifico ed ecologico.
Entre glace et neige presenta le opere di circa 30 artisti italiani e stranieri che, attraverso tecniche e mezzi espressivi diversi, dalla pittura alla fotografia al video e dalla scultura all'installazione, si sono confrontati con quei fenomeni naturali che rappresentano gli stati solidi dell'acqua. Artisti storicizzati come Pier Paolo Calzolari, Anish Kapoor, Mario Merz, Salvatore Scarpitta, Hamish Fulton, Lawrence Carroll e Salvo sono affiancati da artisti più giovani come Anthony Goicolea, Elisa Sighicelli, Massimo Bartolini, Hans Op de Beeck, Christian Frosi, Lucy+Jorge Orta e Loris Cecchini per esplorare le modalità con cui l'arte riflette sulle energie della natura, nel duplice aspetto di universo pericoloso ora in pericolo.
Nella sua rappresentazione della neve, Salvo fa riferimento all’Impressionismo, grande momento di analisi pittorica della neve. Jana Sterbak appronta impraticabili sedie di ghiaccio in Dissolution e nel video Février riprende una pista di pattinaggio a Montreal, citando Brueghel. Anthony Goicolea realizza foto di crepacci e nevi dove permangono misteriose tracce umane. Donato Piccolo ricrea una bufera di neve sotto vetro. Pier Paolo Calzolari mette in posa una raggelata natura morta morandiana. Giuliana Cunéaz espone una fotografia ispirata all’enigma leggendario delle fate. Vera Lutter ritrae la neve nella natura urbana del Central Park di New York, Olivo Barbieri un colorato colosseo cinese di ghiaccio, Hiroyuki Masuyama il Monte Bianco in visione panoramica. Luca Artioli e Stefano Nicolini presentano entrambi fotografie di ghiacci che rasentano l’astrazione. Nel video Campo Sportivo Sabrina Mezzaqui contempla una fitta e silenziosa nevicata. Lucy+Jorge Orta aprono una finestra sui ghiacciai. Loris Cecchini immagina un iceberg abitato e fluttuante, alla deriva. Christian Frosi ci restituisce la notizia di una massiccia nevicata di venticinque anni fa. Chris Drury filma la vita di un iceberg e propone l’elettrocardiogramma di un ghiacciaio. Hamish Fulton documenta due camminate in quota. Anish Kapoor celebra il sole e la luna con una montagna in marmo bianco. Walter Niedermayr ci consegna il grande vuoto della montagna, costellato di piccole figure. La neve astratta di Pat Steir. La rugiada monocroma di Massimo Bartolini. Lo sgargiante giardino d’inverno di Marc Quinn. Il paesaggio artificiale di Hans Op de Beeck. Le tracce sulla neve di Armin Linke e i segni geometrici di David Tremlett. Elisa Sighicelli illumina i ghiacci dell’Islanda, Olafur Eliasson ne fotografa il paesaggio sterminato e Roni Horn realizza in quello stesso nord le immagini bifronti in mostra (Doubt by Water). Lo scarpone ghiacciato di Lawrence Carroll ci parla di viaggi e fatiche. Il libro di Chicco Margaroli ci consegna la linfa generatrice della montagna. La slitta di Salvatore Scarpitta è un oggetto mobile, come le auto con cui per anni ha gareggiato. L’Igloo di Mario Merz celebra con la pietra l’energia della vita. Durante l’inaugurazione della mostra è riproposta la storica performance L’Espressionista di Fabio Mauri (1982): un ragazzo vestito da sciatore d’epoca si muove tra il pubblico con gli sci ai piedi.
Jana Sterbak, Dissolution, 2001, stampa fotografica, cm 80x100
Jana Sterbak, Février, 2005, video
Chris Drury, Lake Concordia, 2007/08, biro su stampa a getto d'inchiostro su vinile, cm 135x120
Chris Drury, 24 Hour Iceberg, 2007, video
Sabrina Mezzaqui, Fuochi, 2006, DVD Loop, 6’
Sabrina Mezzaqui, Campo sportivo, 2003, DVD, 10’
Hamish Fulton, A view from the highest point in North America (plus Argentina) - Alaska, 2003/04, stampa fotografica, cm 50x60
Marc Quinn, Winter Garden, 2005, fotografia su carta Somerset Velvet, cm 83x124
Pat Steir, Simone's Snow, 2001, olio su tela, cm 124x124x4
Vera Lutter, Central Park, 1996, stampa fotografica, cm 60x80
Roni Horn, Doubt by Water, 2003/04, 12 foto pigmentate, 6 unità con due lati, 6 piedistalli in alluminio, ogni foto cm 42x56, ogni piedistallo cm 35,5 (diametro base) x 180 (altezza)
Loris Cecchini, Sliding construction and drifting thoughts V, 2008, stampa a getto d’inchiostro su carta di cotone Hahnemuhle montata su Forex e lamiera zincata, resina poliuretanica, PETG, pellicola lenticolare 3M, rivetti in alluminio, scatola in poliuretano termoformato trasparente, cm 141x101x25
Armin Linke, Ice pack Artic North Pole, 2001, stampa fotografica su alluminio con cornice in legno, cm 100x200
Lawrence Carroll, Untitled (Freezing Shoes), 2006, scarpe, ghiaccio, Plexiglas, piedistallo cm 99x59x58, coperchio cm 23,5x36x29
Anthony Goicolea, Glacier, 2002, stampa fotografica, cm 183x61
Anthony Goicolea, Snowscape with Owls, 2003, stampa fotografica, cm 76x76
Pierpaolo Calzolari, Natura Morta, 2005, tempera al latte, rame, piombo, feltro, ferro, refrigeratore, cm 142x262x70
Salvatore Scarpitta, Parachute Sled, 1987, slitta in legno e paracadute, cm 220 (altezza)
Lucy+Jorge Orta, Window on the World - Amazonia, 2010, finestra con cornice in legno, fotografia lambda laminata su Dubon, 20 bottiglie da plasma, cm 95x95x20
Massimo Bartolini, Rugiada, 2009, smalto su alluminio, cm 50x75
Walter Niedermayr, La Plaine Morte 3, 2005, stampa fotografica, 3 pannelli cm 131x104, installazione cm 131x318
Anish Kapoor, Mountain with Sun and Moon, 2003, marmo bianco statuario, foglia d'oro, grasso, cm 100x100x100, kg 1300
David Tremlett, 6 Parallelograms in Snow 1972 Lapland (0ulu), 1972, stampa fotografica, cm 185x122
Elisa Sighicelli, White Dappled Mountains, 2003, lightbox, cm 109,5x109,5x4
Elisa Sighicelli, Icebergs, 2001, 3 light box, ognuno cm 119x144x10
Hiroyuki Masuyama, Mont Blanc Flight, 2005, stampa fotografica, cm 30x300
Luca Artioli, La Caduta dal Cielo, 2006, stampa lambda, cm 100x70
Mario Merz, Igloo, 1991, struttura metallica, pietre, morsetti, cm 300 diametro x cm 150 (altezza)
Giuliana Cunéaz, Fata del Miage (Courmayeur), 1990, stampa digitale su carta baritata, cm 150x150
Chicco Margaroli, Libro Ciclico - Palindromo del Freddo, 2010, smerigliatura su vetro e aggregazione limo glaciale di epoca neolitica, cm 31x21x9,5 chiuso, cm 31x50 aperto
Stefano Nicolini, L'armatura polare, Orcadi Australi, 2008, fotografia analogica in diapositiva, cm 96x110
Donato Piccolo, Why Henry Cavendish did not smoke, 2010, vetro, nebulizzatore ad ultrasuoni, neve chimica, impianto alogeno, motoventilatori, acqua demineralizzata, cm 170x50x30
Christian Frosi, Lettura modificata di un telegiornale del 1985 riguardante la massiccia nevicata di quell'anno e un elenco di 800 possibili inquadrature per una sigla di un programma televisivo sull'ambiente, 2010, file audio digitale in loop
Fabio Mauri, L’Espressionista, 1982, performance
Hans Op de Beeck, Exterior (1), 2010, stampa Lambda montata su Dibond in cornice di legno, cm 241,75x93,35x4,1
Olafur Eliasson, Untitled, 1994, stampa fotografica su Forex, cm 50,5x60,5
Olivo Barbieri, Harbin, China, 2010, stampa a getto d’inchiostro su carta archival, cm 111x146,1
Salvo, Dicembre, 2002, olio su tela, cm 70x50
UN OCEANO BIANCO
“They dropped like Flakes –
They dropped like Stars –
Like Petals from a Rose –
When suddenly across the June
A Wind with fingers – goes…”
Emily Dickinson
“O femme dangereuse, o séduisants climats!
Adorerai-je aussi ta neige et vos frimas,
Et saurai-je tirer de l’implacable hiver
Des plaisirs plus aigus que la glace et le fer?”
Charles Baudelaire
“Snow flakes./I counted till they danced so/Their slippers leale the town,/And then I took a pencil/To note the rebels down” (“Fiocchi di neve//Io li contai finché così danzavano/che le loro scarpine saltavano/la città - e presi una matita/per registrare severa i ribelli”) sono versi di Emily Dickinson. Il fiocco di neve è l’unità elementare della neve, l’atomo, la cellula singola che sta alla base di tutto il fenomeno. Nell’aria fredda distinguiamo ancora il fiocco di neve: in quel momento la sua caratteristica è il movimento. Il fiocco di neve scende dal cielo, volteggia, sembra in effetti condurre una danza guidata dal vento. Tanti fiocchi di neve ci circondano. Dopo la loro caduta i fiocchi diventano neve, la loro pluralità scompare, per lasciare il posto a un elemento unico e il movimento finisce per lasciare il posto alla stasi. “The Flake the Wind esasperate/More eloquently lie/Then if escorted to it’s Down,/By Arm of Chivalry” (“Il fiocco di neve straziato dai venti/giace con più autorevole eloquenza/che se l’avesse scortato al giaciglio/il braccio della cavalleria”) ancora Emily Dickinson.
“Snow beneath whose chilly softness/Some that never lay/Make their first Repose this Winter/I admonish Thee” scrive Emily Dickinson “Blanket Wealthier the Neighbor/We so new bestow/Than thine acclimated Creature/Wilt Thou, Austere Snow?” (“Neve sotto il cui gelido tepore/ alcuni che non giacquero in passato/riposano quest’inverno,/ascoltami//al nuovo amico che ora ti affidiamo/riserva una coltre più ricca/che agli altri già cresciuti nel tuo clima/Vorrai tu farlo, dimmi, neve austera?”). La neve può essere l’ultima dimora, può accogliere il sonno eterno della morte. Il silenzio è in questo caso assoluto, il tempo infinito. La neve è coperta, grembo materno, è l’interfaccia candido e luminoso del buio della fossa scavata nella terra.
La neve fa perdere ogni punto di riferimento. Nel romanzo di Emily Bronte Cime Tempestose (1847) il signor Lockwood, affittuario di Thrushcross Grange (la bella villa dei Linton caduta anch’essa nelle mani di Heatcliff), torna a casa dopo una tempesta di neve (e una tempestosa notte passata nella fosca dimora di Heatcliff), in una giornata in cui l’aria è “limpida, calma e fredda come ghiaccio impalpabile”, e trova un paesaggio mutato: “…il fianco della collina era tutto un oceano bianco e ondoso, in cui le creste e gli strapiombi non corrispondevano affatto ai rialzi e avallamenti del terreno: o perlomeno molte buche si erano riempite fino a livellarsi, e intere file di cumuli di detriti delle cave erano state cancellate dalla mappa che la mia escursione del giorno prima mi aveva lasciato impressa in
mente”. La neve trasforma la mappatura del territorio, la geografia mentale.
Il fatto è che la neve crea uno spiazzamento, una sensazione di de realizzazione. E’ in genere proprio per questo che viene utilizzata nella letteratura. “Il silenzio della neve, pensava l’uomo seduto dietro all’autista del pullman” è l’incipit di Neve (2002) del premio Nobel turco Orhan Pamuk “Se questo fosse stato l’inizio di una poesia, avrebbe chiamato ‘silenzio della neve’ ciò che sentiva dentro”. Poco dopo la partenza da Erzurum aveva ripreso a nevicare. “Adesso era più forte: i fiocchi erano più grandi di quelli del tragitto da Istanbul a Erzurum. Se il passeggero non fosse stato stanco per l viaggio e avesse prestato un po’ più di attenzione ai grandi fiocchi di neve che scendevano dal cielo come piume di uccelli, avrebbe potuto percepire che si stava avvicinando una violenta tormenta di neve e, forse, avrebbe potuto capire immediatamente di aver intrapreso un viaggio destinato a cambiare tutta la sua vita, e sarebbe potuto tornare indietro” (tutti i corsivi sono miei). Perché di questo ci parla la neve, di una trasformazione. E’ una materia processuale, una materia in perpetua metamorfosi. E’ metafora di cambiamento, di rigenerazione. “Contemplava i fiocchi di neve che man mano si facevano più grandi e si disperdevano nel vento, non come presagi di una prossima sventura ma, finalmente, come indizi del ritorno della felicità e dell’innocenza della sua infanzia”. La neve rende luminoso il cielo. “Sentiva che quella bellezza sovrannaturale lo rendeva persino più felice della Istanbul che aveva potuto rivedere dopo tanti anni… Mentre la neve scendeva fitta e silenziosa come nei sogni, il passeggero provò quella sensazione di innocenza e di ingenuità che cercava appassionatamente da anni…”. Se la neve appartiene a una età, questa è l’età dell’infanzia. “I segnali stradali erano coperti di neve e non si leggevano… I passeggeri impauriti, in silenzio assoluto, guardavano le strade delle misere cittadine già coperte di neve, le pallide luci delle fatiscenti case a un solo piano, le strade già bloccate dei villaggi lontani e gli strapiombi appena illuminati dai fari. Se parlavano, lo facevano a bassa voce”. Il silenzio della neve è contagioso. Arrivato a Kars, il viaggiatore non la riconosce: “Era come se tutto fosse stato cancellato, perso sotto la neve”. Nell’albergo dal simbolico nome Palazzo delle nevi “scostò leggermente la tenda per guardare gli enormi fiocchi di neve che continuavano a scendere”. Continua a nevicare per tutta la notte e anche il giorno dopo, ma è difficile per il protagonista ritrovare quella sensazione di purezza che la neve gli ha sempre dato, mentre cresce in lui una forte sensazione di solitudine: “Come se questo fosse un luogo dimenticato da tutti, mentre la neve scendeva silenziosa sulla fine del mondo”. Più avanti nella sua stanza d’albergo il protagonista scrive una poesia che intitola Neve: “Tempo dopo, pensando a come aveva scritto quella poesia, gli sarebbe venuto in mente un fiocco di neve, e visto che quel fiocco, in qualche modo, descriveva la sua neve, avrebbe deciso che questa poesia doveva trovarsi in un posto vicino al suo io, a spiegarne il senso della vita”. Poco dopo riceve una lettera che riferisce un sogno: “…nel sogno nevicava e ogni fiocco di neve scendeva sul mondo come una luce sacra…”. Questi fiocchi di neve costellano tutto il libro, a volte sembrano “appesi in aria” come al di fuori di ogni legge di gravità terrestre. A un certo punto il protagonista trova in un’enciclopedia dalle pagine strappate nella bibloteca provinciale una definizione che lo colpisce molto: “KAR (neve). E’ la forma solida che l’acqua acquista scendendo, ruotando oppure sollevandosi nell’atmosfera. In generale è a forma di graziose stelline di cristallo a struttura esagonale. Ogni cristallo ha una struttura esagonale propria. I segreti della neve, fin dai tempi antichi, hanno attirato l’attenzione e l’ammirazione dell’uomo. Il primo ad affermare che ogni fiocco di neve avesse una struttura esagonale, come si vede nello schema, fu il sacerdote Olaus Magnus nella città di Uppsala, in Svezia, nel 1555”. Da notare che il teatro della vicenda è la cittadina di Kars e che il protagonista è chiamato con le sue iniziali Ka e che queste due parole sembrano avere la stessa radice di Kar, il termine turco che designa la neve. Il libro finisce con un treno in partenza: “poi tutti scomparvero dentro i grandi fiocchi di neve che si facevano sempre più intensi”.
“Il treno sbucò dalla lunga galleria nel paese delle nevi. La campagna si stendeva bianca sotto il cielo notturno. Il treno si arrestò a un segnale”. Così entra in scena Shimamura, il protagonista de Il paese delle nevi (1947) di Kawabata Yasunari. Il paese delle nevi è un territorio incantato dove ha sede una stazione termale. “ Il paesaggio era scuro, severo. Il crepitio della neve che gelava sulla terra pareva rimbombare nelle sue profondità”. La neve può avere un rumore, un’eco. “Anche se nere, le montagne parevano in quel momento brillare del colore della neve. Parevano ora trasparenti, ora cupe”. La neve può avere un colore. In questo libro la neve è colta in piccoli, brevi, effimeri momenti. Fasi di passaggio e di transizione: “Le verdi cipolle negli orti non erano ancora sepolte dalla neve… Piccoli ghiaccioli scintillavano delicatamente lungo le grondaie… I bambini spezzavano blocchi di ghiaccio dai canali di scolo e li gettavano in mezzo alla strada. Era senza dubbio lo scintillio del ghiaccio che volava in pezzi a incantarli così…”. In più di un’occasione la neve è colta come un riflesso in uno specchio. La fugacità è qui una sua caratteristica. “Doveva esserci un giardino di fronte alla casa, e rosse carpe nuotavano nel piccolo stagno. Il ghiaccio era stato rotto e giaceva ammucchiato lungo la riva”. Piccole scene domestiche. “La neve sui monti lontani era morbida e farinosa, come velata da un leggero fumo”. La neve si sfarina, il paesaggio si vela diventa sfumato. E’ questa una nuova qualità della neve, diversa da quella cristallina che brilla. “Il gioco di luci e di ombre mutava di momento in momento tratteggiando un gelido paesaggio… Shimamura vedeva sotto la finestra piccoli aghi di gelo simili a colla di pesce fra i crisantemi avvizziti…”. Kawabata Yasunari ci lascia intravedere diverse tipologie e diverse fasi della neve, momenti di differente fisicità e natura. “Ho sentito dire che nella cittadina dopo questa gli scolari si tuffano nudi dal secondo piano del dormitorio, Affondano nella neve e si muovono sotto di essa come se nuotassero”. Nel paese delle nevi per la festa del 14 febbraio i bambini pestano la neve, la tagliano in cubi di mezzo metro e costruiscono un palazzo di neve. Shimamura cerca dai rigattieri antichi e rari tessuti Chijimi, filati da ragazze tra i quattordici e i ventiquattro anni, che invecchiando perdono il loro tocco. Il tempo di questa tessitura è quello dell’inverno, da ottobre, quando iniziava la filatura, a metà febbraio quando finisce l’ultima sbiancatura, elaborata operazione lungamente descritta. “Il filo veniva filato nella neve, e la stoffa tessuta nella neve, lavata nella neve e imbiancata nella neve. Ogni operazione, dalla prima filatura alle ultime rifiniture, era compiuta nella neve. ‘Esiste la tela Chijimi perché esiste la neve, - aveva scritto qualcuno tanto tempo fa – La neve è la madre del Chijimi’. La tela Chijimi di questo paese delle nevi era il lavoro a mano delle fanciulle di montagna bloccate fra la neve nei lunghi mesi invernali”.
Con La neve era sporca Georges Simenon rovescia un luogo comune: quello che la neve sia sempre immagine di purezza e innocenza. Il teatro della vicenda è un bordello in una città del Nord occupata dai nazisti. Il protagonista Frank è il figlio della piacente tenutaria e compie una serie di crimini e misfatti quasi senza altra ragione che quella di andare incontro al suo tragico destino. Questo ineluttabile percorso è scandito dall’immagine degradata della neve in città. “La via del tram è bianca e nera, e la neve è più sudicia che altrove… Il cielo è basso, eccessivamente chiaro, con quella luminosità che dà più malinconia del grigiore deciso. Livido e traslucido, quel bianco ha qualcosa di minaccioso, di definitivo, di eterno…”. E più avanti, nel sabato che è il giorno principale nella casa di Lotte, mentre Frank deve occuparsi di trovare una sostituta a Minna, “sempre neve sporca, tutta quella neve che pare marcita, con tracce nere e incrostazioni di detriti. La polvere bianca che ogni tanto si stacca dalla crosta celeste, a mucchietti, come il calcinaccio da un soffitto, non ce la fa a coprire quel sudiciume”. E nel giorno in cui qualcuno lo preleva per portarlo in una non ben identificata prigione: “Il cielo era luminoso e si aveva l’impressione, quella mattina, che tutta la città scintillasse, le vetrate, la neve, i tetti candidi. E’ lui che deforma quella visione? C’è però un particolare che non inganna. Aspettando il secondo tram, ha lasciato cadere il mozzicone di sigaretta nella neve. Di solito la neve è dura, coperta da una crosta ghiacciata e il tabacco avrebbe dovuto continuare a consumarsi per un bel pezzo; invece il mozzicone si era spento, come assorbito dall’umidità della neve al sole. Con un po’ meno rigore avrebbe potuto dire che era stato risucchiato dalla neve”. Anche la fine arriva “una mattina che ha ripreso a nevicare”.
Il protagonista di Canto della neve silenziosa di Hubert Selby Jr. deve camminare ogni giorno per ordine del medico. La sua mattina inizia in modo quotidiano e domestico. Suo figlio Michael gioca con le palle di neve. Harry (il nome che l’autore conserva sempre nei suoi diversi racconti, il nome che potrebbe essere di ogni protagonista) si avvia in quella che potrebbe essere l’ultima neve della stagione nel Connecticut per la sua passeggiata: “Persino la neve che cadeva dava una certa impressione d’immobilità. Mulinava nell’aria e si posava a terra e sui cespugli senza mai dare l’impressione che fosse estranea a quell’ambiente, come se fosse stata sempre lì, facesse parte dell’aria stessa e di tutto ciò che circondava lui… Camminando guardava gli alberi spogli coi rami merlettati di neve e i sempreverdi e i cespugli anch’essi coperti e piegati sotto l’umido peso della neve. Quella quiete era nuova per lui, un silenzio mai udito e di cui non sapeva niente ma che tuttavia stava ormai conoscendo. E benché l’aria avesse una qualità quasi tangibile era tuttavia più leggera di prima e dava la sensazione di galleggiarvi dentro, una sensazione che lo invase dolcemente man mano che avanzava dandogli l’impressione che ogni movimento incontrasse sempre meno resistenza. Guardò in fondo alla strada a tutto quel bianco intatto e poi guardò i propri piedi affondare nella neve e sentì il lieve scricchiolio dei passi. Si voltò a guardare le proprie impronte. Affascinanti. Era il primo che percorreva quella strada oggi”. Pian piano davanti a i suoi occhi il paesaggio familiare cambia: “ogni casa e cespuglio e albero e arbusto e cassetta da lettere erano decorati di neve e fusi in quell’aria come se fossero un quadro, la rappresentazione di quell’immobile grigio perla, nient’altro che un’impressione creata dalla stessa silenziosa neve, un quadro pronto a scomparire per lasciare solo aria e neve, quelle attraverso cui lui ora stava avanzando a passo leggero” (corsivi miei). Voleva “abbandonarsi all’aria dolce e illuminata e alla neve silenziosa che lo circondava, sfiorava, gli si posava addosso, coi fiocchi che gli ornavano le sopracciglia, vagamente discernibili come chissà cosa ai margini della visione… Tutto era visione, una visione senza…una visione proiettata tutt’intorno a lui e tuttavia provata nell’intimo”. Ripercorre le proprie impronte mentre due cani avanzano tranquilli nella neve annusando l’aria. Selby descrive un’esperienza sensoriale della neve, che accompagna il protagonista verso il trapasso di una soglia. Si tratta di un’esperienza psicofisica, un viaggio fisico e mentale al tempo stesso, una relazione silenziosa tra la propria interiorità e le cose che ci circondano. I pensieri di morte svaniscono assorbiti dalla neve, non sente più lo scricchiolio dei passi e non lascia più impronte. “Sentì la neve cadere lenta nell’aria, ogni fiocco con un suono proprio e distinto e non ostacolato nella caduta così che i suoni di tutti quei fiocchi non mescolavano né stridevano ma si fondevano invece in un canto, quello della neve, che lui sapeva che pochi avevano mai udito. E, pur restando dolce, quel canto diventava sempre più forte mentre lui era sempre assorbito dalla luce, diventava una cosa sola con la luce…”. Infine il canto della neve viene gradualmente sostituito da un canto familiare. “Udì lo scricchiolio della neve sotto i suoi piedi ma ancora una volta si sentì più leggero… non ostacolato né impedito… capace di muoversi liberamente nell’aria grigio perla e sulla neve silenziosa”. Come ogni viaggio iniziatico la passeggiata nella neve ci porta poco lontano dalla propria casa in un’atmosfera sospesa, dove il silenzio è palpabile.
Quasi infinite sono le variazioni nel campo d’indagine delle relazioni tra natura e arte. Tutta la storia dell’arte nasce all’interno di questo dialettico rapporto e se ne alimenta come in un soffio vitale.
La Valle d’Aosta e’ uno straordinario sito di bellezza famoso in tutto il mondo, anche perché in modo esemplare vi si sviluppa la dialettica naturale tra acqua, neve e ghiaccio. Il massiccio del Monte Bianco, la vetta più alta d’Europa, è di questo emblema.
L’arte contemporanea è sempre stata molto attenta agli elementi naturali e alla processualità delle materie. Gran parte dell’arte contemporanea ha scelto la modalità della presentazione diretta degli elementi naturali: in Italia questo è stato particolarmente importante con la fase dell’arte povera. I processi di trasformazione sono stati assunti dall’arte contemporanea. L’arte stessa è un grande processo di trasformazione delle materie, delle forme e delle idee. Le materie in divenire, l’acqua, la luce, persino l’aria, sono protagoniste. Materiali privilegiati sono anche quelli viventi: l’uomo nelle performance, gli animali, il mondo vegetale. Molti artisti sono tornati a lavorare per quell’eden creato dall’uomo che è il giardino. Questo microcosmo un tempo proteggeva l’uomo dalla natura selvaggia, oggi può forse proteggere la natura dall’uomo. Nel mondo contemporaneo è infatti avvenuto un grande mutamento: la natura, oltre che pericolosa, come è sempre stata per l’uomo, è soprattutto in pericolo. A questo doppio aspetto l’arte contemporanea continuamente si riferisce, attingendo all’energia dei fenomeni naturali. Alcune opere hanno utilizzato neve e ghiaccio, stati solidi dell’elemento acqua. Il ciclo dell’acqua è un trasparente processo di trasformazione delle energie naturali. Inoltre i più svariati strumenti si sono cimentati nella documentazione e nell’evocazione dell’ambiente della montagna e delle sue componenti: pittura, fotografia, video, installazione.
In una delle nostre lunghe chiacchierate con Salvo abbiamo parlato a lungo del tema della neve in pittura e di quale poteva essere un quadro considerato caposaldo in questo senso. Le nostre idee convergevano su uno dei capolavori del Museo di Capodimonte a Napoli, Il miracolo della neve di Masolino da Panicale (1429). Una leggenda (le cose non stavano esattamente così) narrava che nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 352 dopo Cristo un patrizio romano, che ha deciso di dedicare una chiesa alla Vergine affinché esaudisca il suo desiderio di avere un figlio, sogna Maria stessa che gli dice che un miracolo indicherà il luogo dove costruire l’edificio. Papa Liberio fa lo stesso sogno e il giorno dopo trova l’Esquilino coperto di neve. E’ lì che viene costruita la chiesa a spese del committente. E’ per questo che viene chiamata S. Maria Liberiana o S. Maria ad Nives. Il quadro di Masolino mostra il Papa che traccia la pianta della Basilica di S. Maria Maggiore (come viene più comunemente chiamata) nella neve. La scena in precedenza era già stata raffigurata a mosaico da Filippo Rusuti sull’esterno della Basilica (1288) e in una vetrata di Orsanmichele alla fine del XIV secolo, successivamente sarà rappresentata dal Perugino e da Mathias Grunewald. Nel quadro di Masolino, la neve cade da nuvole quasi solide, come dischi volanti (con cui in effetti qualcuno le ha scambiate!), disposte in prospettiva nel cielo aureo che nell’interfaccia superiore mostra Cristo e la Madonna all’interno di un campo circolare. In Dicembre (2002) Salvo si ricorda di queste nuvole solide di Masolino, che hanno la stessa consistenza delle montagne e degli edifici. Aggiunge un piccolo miracolo personale: per le nuvole e per la neve usa tutti i colori tranne il bianco, eppure inequivocabilmente riconosciamo il paesaggio nevoso come tale.
Però, qui come in altre opere, Salvo fa riferimento anche all’altro grande momento di analisi pittorica sulla neve: l’Impressionismo. La neve, con la sua struttura a fiocchi, sembra quasi essere il modello naturale della pittura impressionista a piccoli tocchi, è stata infatti frequentemente rappresentata da quegli artisti. In molti quadri di Salvo la lenta caduta dei fiocchi viene messa a fuoco, letteralmente, dalla luce dei lampioni nell’ambiente urbano.
Jana Sterbak appronta scomode e quasi impraticabili sedie di ghiaccio (Dissolution, 2001), improbabili protesi per il corpo umano attorno al quale si accentra la sua ricerca. Il video Febbraio riprende in altissima risoluzione a camera fissa una pista di pattinaggio a Montreal. Lo spettatore si trova di fronte a uno scenario dettagliato come in un dipinto di Brueghel: un luogo banale e quotidiano diventa un equivalente contemporaneo dello stile nordico rinascimentale. Anthony Goicolea (Glacier, 2002 e Snowscape with Owls, 2003) realizza foto di ghiacciai, nevi, crepacci che dialogano con lo spazio entro il quale vengono installate. I fotografi di natura colgono le energie naturali: le muraglie di ghiacci trasparenti di Luca Artioli, il ciclo acqua-neve-ghiaccio di Nicolini.
Pier Paolo Calzolari mette in posa una raggelata natura morta morandiana.
Giuliana Cunéaz nel ’90 ha creato in Val d’Aosta un circuito che unisce 24 località legate all’apparizione di una fata, tra queste due fate dei ghiacciai: in ogni sito un leggio con uno spartito in marmo. Riunendo i 24 brani è possibile ricostruire l’intera composizione musicale. “Le fate sono creature nate e cresciute nell’immaginario umano, sono esseri eterei e impalpabili che si annidano nell’intercapedine tra mente e natura. Le leggende ne descrivono la bellezza, la levità e il mistero ma dietro a queste virtù, spesso, si nasconde un lato più oscuro: una segreta deformità (uno zoccolo caprino o una coda d’asino nascosti sotto gli abiti)…” dice l’artista. Miti, saghe e leggende ci hanno tramandato di bocca in bocca seduzioni e pericoli delle fate: si può esserne rapiti per un viaggio senza ritorno. Le complesse installazioni di Roni Horn ci parlano di una rapporto ciclico tra l’uomo e la natura, una relazione speculare in cui si tenta di ricostruire la natura a nostra immagine e somiglianza. Nella foto di Vera Lutter la neve copre quel brano di natura selvaggia in città che è il Central Park di New York. Quella di Hiroyuki Masuyama è la visione panoramica del Monte Bianco a volo d’uccello. Da notare inoltre che Masuyama nel 2008 ha fotografato il Monte Rosa dipinto da Turner nel 1836 con curiosi effetti di pittorialismo fotografico e una sovrapposizione di visioni e memorie. Per Sabrina Mezzaqui in un video del 2003 una fitta, lenta, silenziosa nevicata, l’attitudine contemplativa dell’artista capace di fermare un momento senza tempo, la melanconia di un campo sportivo sotto la neve.
Di Lucy e Jorge Horta vediamo una finestra, di cui un tempo il quadro era il perfetto analogon, che affaccia sui ghiacci. Per Massimo Bartolini l’esperienza della montagna è quella della pittura toscana del primo Trecento: le sue “montagne di Giotto” sono realizzate in pietra serena (come nella tradizione dei bassorilievi di Donatello). Sono tagliate alla cima perché devono essere considerate valicabili, praticabili. Su una di queste montagne nel ’95 Bartolini aveva posto un piccolo blocco di ghiaccio che lasciava sciogliere. Tutta l’opera di Bartolini parte da elementi naturali e processi della natura posti in analogia con le costruzioni della mente umana, l’arte, l’architettura. Tra le materie in trasformazione un posto particolare occupa la Rugiada: simbolo della grazia vivificante è legata al mistero del sangue del Redentore. Il sangue è la “rugiada celeste” dell’ermetismo e della Cabala. Per la tradizione cinese al centro del mondo c’è “l’albero della rugiada dolce”, simbolo dell’unione armoniosa di cielo e terra. La rugiada nasce anche dall’accordo perfetto di quattro corde di un liuto. Plinio la chiama sudore del cielo” e “saliva degli astri”.
Donato Piccolo ha realizzato una serie di parallelepipedi trasparenti che ospita eventi naturali miniaturizzati, piccoli uragani artificialmente ricreati (Hurricane). Gli strumenti sono costituiti da meccanismi di ventilazione, nebulizzazione e illuminotecnica. Le immagini degli uragani sono rese emozionali. Così è anche per una esplosione di acqua. Ed è sempre un volume diafano a contenere una tempesta di neve e ancora una volta un fenomeno artificiale si trasforma in uno stato mentale. Avvistiamo la fine dell’inverno e in lontananza le montagne venate dai ghiacciai nell’opera di Elisa Sighicelli. La stessa autrice ci porta tra isole di ghiaccio che vagano tra le acque. La natura è il grande teatro entro cui si colloca l’opera intera di Olafur Eliasson. Chicco Margaroli presenta un libro trasparente che mima le materie stesse della montagna. Hans Op de Beck appronta un piccolo set che ospita un desolato paesaggio invernale, spoglio e algido. La foto di David Tremlett rintraccia figure geometriche nell’indifferenziato bianco della neve.
“Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza”:dalla circolarità di questa massima del generale Giap trae origine l’igloo di Merz, casa, cupola, caverna, coppa che accoglie uomini, cose, pensieri. “L’igloo è la forma organica ideale” dice l’artista “E’ nel contempo mondo e piccola casa. Quello che mi ha interessato nell’igloo è il fatto di esistere nella mente prima di essere realizzato”. Per Merz un’idea si traduce immediatamente in termini spaziali, così è il linguaggio a generare il luogo. Dalle parole nasce l’abitare, il precario riparo dell’igloo, all’interno di un’idea rotonda. “Quello che mi dava enormemente fastidio erano gli angoli… La scritta di Giap era senza angoli ed è venuto fuori l’igloo”. Le parole al neon si dispongono a spirale sulla calotta dell’igloo. Nella creazione dell’igloo convergono tre motivi: l’abbandono del piano murale, l’idea di creare uno spazio indipendente dall’appendere le cose al muro, l’idea di spazio chiuso in se stesso.
E poi la costruzione slittante in analogia con i pensieri alla deriva di Loris Cecchini. La vita di un iceberg e l’elettrocardiogramma di un ghiacciaio raccontate in diretta da Chris Drury. La mappa delle vette di Hamish Fulton. Le montagne di marmo in cui i riflessi sono veramente d’oro di Anish Kapoor. Lo spazio della montagna innevata come grande momento di vuoto costellato da piccole figure di Walter Niedermayr. La neve dipinta da Pat Steir. L’immagine dell’algido giardino d’inverno di Marc Quinn. L’infinita distesa di bianco di Armin Linke.
Ci sono poi le attrezzature che ci permettono di affrontare la neve e il ghiaccio. Lo scarpone ghiacciato di Lawrence Carroll ci parla di viaggi e fatiche. La slitta di Salvatore Scarpitta è un oggetto mobile, come le auto con cui per anni l’artista ha gareggiato. Alla slitta è legato un paracadute producendo una tensione simile a quella che si creava nei quadri realizzati con le bande elastiche.
L’Espressionista di Fabio Mauri (1982) presenta un ragazzo in sci, vestito da sciatore d’epoca che si muove tra il pubblico. “Si toglie gli sci, sale le scale, se li rimette. Di tanto in tanto, estrae matita e carta e disegna ciò che vede: una figura femminile, un tavolo, una pianta. Abbandona i suoi disegni al pubblico. Dallo zaino spuntano xilografie di Heckel, di Muller, di altri giovani espressionisti. La presenza degli sci ai piedi muta istantaneamente il rapporto dell’individuo col Teatro o con il Museo. Introduce un elemento irriducibilmente esterno, la presenza inospitale e solitaria di un’artista” scrive lo stesso Mauri. Ricordo che una volta Mauri mi disse che “dove c’è un oggetto che esce dal quadro c’è espressionismo. La performance dunque è espressionismo, tutta l’arte di comportamento è puro espressionismo”. Dallo zaino dello sciatore infatti escono opere espressioniste. E gli sci ai piedi del giovane che goffamente si aggira spiazzato nel museo sono proprio come un oggetto che esce dal quadro, appendici del corpo umano. Ma forse Mauri ha scelto lo sci rispetto ad altre attività sportive con riferimento alle romantiche poetiche del sublime che esaltano le asperità della montagna e sembrano mettere l’uomo a confronto con l’infinito, come nell’opera di Friedrich.
Chiude e apre la mostra il lavoro di Christian Frosi che analizza la comunicazione attraverso i media di un fenomeno naturale come quello della grande nevicata che blocca le città, isola i piccoli centri e devia il ritmo quotidiano delle cose.
Laura Cherubini
14
maggio 2010
Entre glace et neige. Processi ed energie della natura
Dal 14 maggio al 26 ottobre 2010
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
CENTRO SAINT BENIN
Aosta, Via Bonifacio Festaz, 27, (Aosta)
Aosta, Via Bonifacio Festaz, 27, (Aosta)
Biglietti
€ 3,00 intero / € 2,00 ridotto. Riduzione 50% soci TCI. Gratuito per i minori di 18 anni e per i maggiori di 65
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 14.30 alle 18.30
Vernissage
14 Maggio 2010, ore 18
Ufficio stampa
CRISTINA PARISET
Autore
Curatore