Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Enzo Gagliardino – #3CITTA’ #3SPAZI #3MOSTRE
La storia pittorica di Enzo Gagliardino è letteralmente racchiusa in luoghi che rendono duplice il significato di protezione dall’esterno e di difesa da possibili intrusioni. Spazi di gruppi e di comunità che agli inizi dell’attività artistica erano sale d’attesa, mense, palestre, ospedali e dopo il 1976 sono diventati i luoghi di detenzione o i letti di contenzione manicomiale, spazi concentrazionari legati alla cultura dell’esclusione e della protezione della società nei confronti dei devianti, di tutti i tipi
Comunicato stampa
Segnala l'evento
La storia pittorica di Enzo Gagliardino è letteralmente racchiusa in luoghi che rendono
duplice il significato di protezione dall’esterno e di difesa da possibili intrusioni. Spazi
di gruppi e di comunità che agli inizi dell’attività artistica erano sale d’attesa, mense,
palestre, ospedali e dopo il 1976 sono diventati i luoghi di detenzione o i letti di
contenzione manicomiale, spazi concentrazionari legati alla cultura dell’esclusione e
della protezione della società nei confronti dei devianti, di tutti i tipi.
Le architetture degli anni ’80 sono apparse una sorta di liberazione, di apertura verso
l’esterno, il paesaggio seppur urbano, periferico, connotato da lunghe sequenze di
mattoni condensate in fabbriche e altri non luoghi della produzione e del lavoro.
Questo è l’universo del fobico e ripetitivo del pittore che ha anche trovato
incredibilmente degli sprazzi di cieli e di nuvole.
Con guizzo geniale Gagliardino li ha mostrati quasi non direttamente ma in tralice,
come emergenze casuali, non volute, oppure come riflessi nei vetri degli edifici
industriali. Certamente questi sky line non potevano durare, probabilmente il cielo
sarà anche blu e terso, ma da qualche altra parte e per qualche altro osservatore.
Enzo Gagliardino porta all’estrema conseguenza una pittura che è precisa e perfetta
senza essere iperrealistica né tantomeno pop. Non vi è un elogio della realtà come
siamo distanti dall’esigenza di un realismo che sia descrittivo. I mattoni prendono le
intere superfici pittoriche, le finestre sono delle finte aperture sia per la loro tetragona
opposizione all’esterno, sia perché diventano solo dei corollari della parte muraria che
rimane assoluta, degli elementi di decoro la cui funzione sembra dimenticata.
Non vi sono neppure degli elementi di riferimento, marciapiedi, arredo urbano come
si dice volgarmente, qualcosa che ci faccia ritornare all’umanità che si muove attorno.
Gli edifici scanditi dal ritmo infinito e indefinito dei piccoli mattoni marroni sono tutto
quello che c’è. Le ampie finestre dei ricordi consolatori di un rapporto tra dentro e
fuori che può essere solo immaginato e supposto.
Gagliardino affida alla pittura come ha sempre fatto l‘idea che la costruzione logica
del mondo sia stata già fatta e a noi non ci resta che guardarne il risultato. E questa
volta la pittura non è consolatoria, non porta nulla sul piano della metafora, della
simbolizzazione che distanzia l’arte dalla realtà.
La qualità del dipingere viene messa al servizio di una visione chiusa del mondo,
di un angoscia esistenziale che non si apre nemmeno lontanamente alle atmosfere
malinconiche e alcoliche del “Black Hawk” di Eduard Hopper. I giochi sono fatti e
lo sono per sempre, non vi sono altre possibilità, altre aperture. L’unica cosa che
possiamo vedere è the wall, con il sospetto che non sia rimasto nulla né prima né
oltre.
Il linguaggio asciutto, impietoso, definitivo della pittura di Enzo Gagliardino non vuole
aggiungere nulla a quanto sappiamo, né vuole ricamare sull’esistenzialismo come
filosofia abbastanza demodé anche se imprescindibile per capire il Novecento appena
trascorso. Non siamo alla tragedia, non vi sono drammi in corso se non quello banale
del male di esistere. La stessa pratica pittorica lenta, precisa, estenuante, fa capire
come l’artista segua una disciplina rigorosa e monacale. La coazione a ripetere è un
modo per mettersi in sintonia con quello che dipinge, non vi sono altri universi, non vi
sono scorciatoie.
Il muro, l’edificio industriale non è un simbolo legato alla storia alla sociologia, è un
assoluto come la scelta del linguaggio da parte di Gagliardino. La coerenza è totale,
il rispecchiamento coincidente, fare, vedere, vivere, sono la stessa cosa. Forse anche
dipingere è una religione, una liberazione falsamente promessa.
Il mattone diventa l’unità di misura della non felicità, di una condizione invalicabile
dello stare al mondo senza alternative. Essere e vivere fuori con la nostalgia
dell’interno e stare all’interno sognando il mondo esterno.
Probabilmente una pittura così ossessiva, ha un senso proprio per la sua metodica,
per la sua direzione obbligata, continua: ripetersi è un tentativo di perdersi e
dimenticarsi. Un modo per cercare di comprendere la condizione umana passa
attraverso questa ricerca interiore e vengono in mente altre ricerche analoghe,
altre immagini che la letteratura ha reso universali dal deserto di Buzzati allo stato
d’assedio di Camus, dal castello di Kafka ai labirinti di Borges. L’impossibilità di
trovare delle soluzioni non impedisce di continuare a cercarle, sempre, all’infinito. Non
sappiamo dove il muro finisca e neppure da dove abbia avuto origine, sappiamo che
esiste ma non il nome di chi l’ha costruito.
“Another brick in the wall” di Valerio Dehò
franzpaludetto_roma
via degli ausoni 18 - 00185 roma
www.franzpaludetto.com
info@franzpaludetto.com
duplice il significato di protezione dall’esterno e di difesa da possibili intrusioni. Spazi
di gruppi e di comunità che agli inizi dell’attività artistica erano sale d’attesa, mense,
palestre, ospedali e dopo il 1976 sono diventati i luoghi di detenzione o i letti di
contenzione manicomiale, spazi concentrazionari legati alla cultura dell’esclusione e
della protezione della società nei confronti dei devianti, di tutti i tipi.
Le architetture degli anni ’80 sono apparse una sorta di liberazione, di apertura verso
l’esterno, il paesaggio seppur urbano, periferico, connotato da lunghe sequenze di
mattoni condensate in fabbriche e altri non luoghi della produzione e del lavoro.
Questo è l’universo del fobico e ripetitivo del pittore che ha anche trovato
incredibilmente degli sprazzi di cieli e di nuvole.
Con guizzo geniale Gagliardino li ha mostrati quasi non direttamente ma in tralice,
come emergenze casuali, non volute, oppure come riflessi nei vetri degli edifici
industriali. Certamente questi sky line non potevano durare, probabilmente il cielo
sarà anche blu e terso, ma da qualche altra parte e per qualche altro osservatore.
Enzo Gagliardino porta all’estrema conseguenza una pittura che è precisa e perfetta
senza essere iperrealistica né tantomeno pop. Non vi è un elogio della realtà come
siamo distanti dall’esigenza di un realismo che sia descrittivo. I mattoni prendono le
intere superfici pittoriche, le finestre sono delle finte aperture sia per la loro tetragona
opposizione all’esterno, sia perché diventano solo dei corollari della parte muraria che
rimane assoluta, degli elementi di decoro la cui funzione sembra dimenticata.
Non vi sono neppure degli elementi di riferimento, marciapiedi, arredo urbano come
si dice volgarmente, qualcosa che ci faccia ritornare all’umanità che si muove attorno.
Gli edifici scanditi dal ritmo infinito e indefinito dei piccoli mattoni marroni sono tutto
quello che c’è. Le ampie finestre dei ricordi consolatori di un rapporto tra dentro e
fuori che può essere solo immaginato e supposto.
Gagliardino affida alla pittura come ha sempre fatto l‘idea che la costruzione logica
del mondo sia stata già fatta e a noi non ci resta che guardarne il risultato. E questa
volta la pittura non è consolatoria, non porta nulla sul piano della metafora, della
simbolizzazione che distanzia l’arte dalla realtà.
La qualità del dipingere viene messa al servizio di una visione chiusa del mondo,
di un angoscia esistenziale che non si apre nemmeno lontanamente alle atmosfere
malinconiche e alcoliche del “Black Hawk” di Eduard Hopper. I giochi sono fatti e
lo sono per sempre, non vi sono altre possibilità, altre aperture. L’unica cosa che
possiamo vedere è the wall, con il sospetto che non sia rimasto nulla né prima né
oltre.
Il linguaggio asciutto, impietoso, definitivo della pittura di Enzo Gagliardino non vuole
aggiungere nulla a quanto sappiamo, né vuole ricamare sull’esistenzialismo come
filosofia abbastanza demodé anche se imprescindibile per capire il Novecento appena
trascorso. Non siamo alla tragedia, non vi sono drammi in corso se non quello banale
del male di esistere. La stessa pratica pittorica lenta, precisa, estenuante, fa capire
come l’artista segua una disciplina rigorosa e monacale. La coazione a ripetere è un
modo per mettersi in sintonia con quello che dipinge, non vi sono altri universi, non vi
sono scorciatoie.
Il muro, l’edificio industriale non è un simbolo legato alla storia alla sociologia, è un
assoluto come la scelta del linguaggio da parte di Gagliardino. La coerenza è totale,
il rispecchiamento coincidente, fare, vedere, vivere, sono la stessa cosa. Forse anche
dipingere è una religione, una liberazione falsamente promessa.
Il mattone diventa l’unità di misura della non felicità, di una condizione invalicabile
dello stare al mondo senza alternative. Essere e vivere fuori con la nostalgia
dell’interno e stare all’interno sognando il mondo esterno.
Probabilmente una pittura così ossessiva, ha un senso proprio per la sua metodica,
per la sua direzione obbligata, continua: ripetersi è un tentativo di perdersi e
dimenticarsi. Un modo per cercare di comprendere la condizione umana passa
attraverso questa ricerca interiore e vengono in mente altre ricerche analoghe,
altre immagini che la letteratura ha reso universali dal deserto di Buzzati allo stato
d’assedio di Camus, dal castello di Kafka ai labirinti di Borges. L’impossibilità di
trovare delle soluzioni non impedisce di continuare a cercarle, sempre, all’infinito. Non
sappiamo dove il muro finisca e neppure da dove abbia avuto origine, sappiamo che
esiste ma non il nome di chi l’ha costruito.
“Another brick in the wall” di Valerio Dehò
franzpaludetto_roma
via degli ausoni 18 - 00185 roma
www.franzpaludetto.com
info@franzpaludetto.com
18
aprile 2014
Enzo Gagliardino – #3CITTA’ #3SPAZI #3MOSTRE
Dal 18 aprile al 17 maggio 2014
arte contemporanea
Location
FRANZ PALUDETTO
Roma, Via Degli Ausoni, 18, (Roma)
Roma, Via Degli Ausoni, 18, (Roma)
Vernissage
18 Aprile 2014, h 19
Autore