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Est modus in rebus
I tre artisti presentano lavori inediti, concepiti per questo progetto
Comunicato stampa
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Est modus in rebus
di Ivan Quaroni
Est modus in rebus è un motto che si trova nelle Satire di Orazio (I, 1, 106). Vuol dire che ogni cosa si può fare nel modo più appropriato. Secondo il principio classico dell’Aurea Mediocritas, ciò significa che ogni circostanza deve essere affrontata con moderazione, ma dovendo trattare di un mondo sconfinato, privo di regole e dai confini pressoché inafferrabili qual è quello della pittura, il detto latino viene ad assumere un significato più letterale: c’è un modo per fare ogni cosa, sebbene non sia necessariamente uno solo. Proviamo a vedere la cosa secondo un’altra prospettiva. Nel suo saggio La scienza e l’ipotesi, il matematico e filosofo Henri Poincaré scrisse che “La scienza si fa con i fatti come una casa si fa con i mattoni, ma l’accumulazione dei fatti non è scienza più di quanto un mucchio di mattoni non sia una casa”1. Analogamente, possiamo affermare che la pittura si fa con i colori, ma dall’accumulo di colori non sortisce necessariamente un quadro. Ogni opera è il risultato combinatorio di elementi organizzati e di fattori casuali o accidentali. Un quadro completamente casuale non è un’opera più di quanto lo sia un quadro completamente organizzato, frutto dell’esecuzione meccanica di un principio astratto. In questo caso, vale la massima oraziana secondo cui est modus in rebus. L’eccesso di casualità, così come il suo opposto meccanico sono, a mio avviso, egualmente equidistanti dal concetto di opera d’arte. Due esempi lampanti sono il quadro dilettantesco, dipinto con assoluta spontaneità e senza alcuna cognizione tecnica e quello iperrealista estremo, che ripropone fedelmente un’immagine di origine fotografica. In entrambi i casi, la supposta opera non ci dice nulla a proposito dell’artista e delle sue intenzioni, non lasciandoci intuire altro che un presunto grado di approssimazione a due concetti astratti quali il caos e l’ordine. Con la teoria della complessità e con il concetto dei piccoli mondi, la scienza contemporanea sta cercando di dimostrare che la natura, la società, l’economia e la comunicazione funzionano tutte allo stesso modo. Sono tutte strutture basate su un’architettura di rete che contiene, allo stesso tempo, elementi casuali e organizzati, che hanno una funzionalità e una complessità enormemente più elevate rispetto alle reti ordinate e a quelle caotiche2. La stessa rete neurale del cervello umano potrebbe rispondere alle caratteristiche delle strutture di piccolo mondo, a metà strada tra l’ordine e il caos. Nel 1999, Luis Lago-Fernandez dell’università di Madrid condusse un esperimento sul cervello delle locuste, che possiede un numero relativamente limitato di neuroni e dunque si presta, più del cervello umano, ad essere studiato e mappato. Lago-Fernandez e i suoi colleghi, utilizzando i sofisticati modelli che i neuroscienziati avevano faticosamente messo a punto nel corso di mezzo secolo per ciascuno degli 800 neuroni della locusta, avevano elaborato una simulazione assemblando i neuroni in uno schema ordinato. Sottoposto questo schema a una stimolazione esterna, come, per esempio, un odore interessante per la locusta, lo scienziato spagnolo si accorse che la rete ordinata (e simulata) dei neuroni degli insetti non rispondeva con la stessa velocità della rete di una locusta vera. In uno schema ordinato, privo di nessi casuali, la rete dava risposte pari a quelle di un soggetto sub-normale. Uno schema caotico simulato, invece, rispondeva più velocemente agli stimoli esterni, ma non riusciva a sincronizzare il comportamento dei neuroni. Risultato: la struttura neurale del cervello delle locuste doveva essere, in egual misura, ordinato e caotico. A questo esempio si potrebbero aggiungere i risultati di centinaia di esperimenti sui più disparati campi, dall’organizzazione sociale a quella economica, dal funzionamento delle cellule all’architettura di internet. Tutte confermano, con un buon grado di approssimazione, la teoria della complessità.
Benché non ancora studiata secondo la prospettiva della teoria dei piccoli mondi, possiamo azzardare l’ipotesi che la pittura, così come altri campi dell’agire umano, risponda agli stessi macro-principi strutturali, quelli cioè di una equilibrata combinazione tra fattori regolati e fattori accidentali. Immaginiamo, infatti, tutte le ricerche artistiche come dei grafi complessi, corrispondenti a delle reti piccolo mondo, ognuna diversa dall’altra. In tal caso che cosa renderebbe ogni ricerca unica? Certamente gli elementi casuali che intervengono nel corso della lavorazione, certe macchie non volute, il risultato imprevisto di una mescita di colori, magari una non calcolata rugosità del supporto e mille altri piccoli dettagli, ma soprattutto l’intenzione dell’artista, il suo originale background culturale, la sua particolare padronanza delle tecniche, la sua visione complessiva, la sua volontà. Tutto questo può essere chiamato modus. La maniera, la modalità o, per usare un termine più effimero, lo stile sono, infatti, i segni distintivi di una ricerca artistica.
Est modus in rebus raccoglie la testimonianza di tre modi completamente diversi di intendere la pittura, quelli di Marco Fantini, Enrico Cazzaniga e Manuel Baldini. Tre piccoli mondi, originali e fuori dagli schemi ordinati delle mode e dei trend, che indagano le potenzialità del medium partendo da premesse disparate e giungendo a risultati altrettanto dissimili. Tre esempi che illustrano, seppure in parte infinitesimale, la complessa ricchezza di una pittura in continua evoluzione, più viva che mai, a discapito delle sue molteplici morti annunciate.
Modus primus: Marco Fantini
Come ho scritto in altre occasioni, l’approccio di Marco Fantini alla pittura è apparentemente erratico, casuale, quasi labirintico. Ogni suo lavoro sembra nascere da un’intuizione iniziale, da una figura epifanica, intorno alla quale si costruisce la struttura del quadro per progressivi accumuli, formati da una mescolanza di segni riusciti e di ripensamenti che disegnano un percorso tortuoso, niente affatto lineare. Ciò che intendo dire è che, quello di Fantini, è un modo di dipingere quasi performativo, nel senso che è strettamente connesso con un’azione dagli esiti incerti. È come un corpo a corpo fatto di improvvisi affondi e repentine ritirate, di finte e di colpi piazzati, di pause ed assalti dal ritmo altalenante. Una procedura claudicante, oscillatoria, che procede tra dubbi ed esitazioni, sempre in bilico tra il rischio del fallimento e la sublime riuscita e che, per giunta, mescola elementi pittorici e disegnativi, addensamenti di materia e graffiature della superficie secondo una logica inafferrabile, che tiene conto di un suo personalissimo senso dell’equilibrio. In un certo senso, il modus di Fantini non è affatto casuale. Ci sono elementi visivi ricorrenti, come gli assurdi tagli prospettici delle sue stanze, la compresenza di immagini chiaramente delineate, perfettamente riconoscibili e di figure dai contorni fluidi e indefiniti, il bilanciamento tra masse di colore scuro e chiaro, il contrappeso tra segni grafici e gestuali, la chiosa calligrafica dei giochi di parole, che dischiudono una varietà di significati. Insomma, c’è un ordine strutturale, sebbene sia mobile, vibratile, talvolta addirittura occultato dall’apporto di nuovi segni e nuove soluzioni. Poeticamente, Marco Fantini vorrebbe che ogni suo lavoro fosse unico e profondamente diverso e senza dubbio lo è, ma non tanto da rendere irriconoscibile la sua struttura di piccolo mondo, che è giocata sull’antitesi tra finzioni reali e presunte verità.
Fantini dipinge i propri racconti come fossero rebus in cui in cui il senso complessivo della narrazione risulta criptato. Ed è per questo che anche queste nuove carte dell’artista si offrono allo spettatore in veste di quesiti visivi, piuttosto che di risposte esaustive. La trama che li sorregge è la stessa delle tele. Anzi, la distinzione tra i due supporti rischia a volta di essere fuorviante, perché l’approccio è sostanzialmente identico. È come se si trattasse, ogni volta, di inscenare le sorti di una partita a scacchi dell’artista con se stesso. Qualunque sia il risultato, la sfida è avvincente. Credo sia questo, agli occhi di Fantini, a rendere la pittura un territorio ancora così interessante da esplorare.
Modus secundus: Enrico Cazzaniga
La ricerca artistica di Enrico Cazzaniga muove da una domanda fondamentale: che accadrebbe a un supporto se anziché aggiungere la materia cromatica si procedesse per sottrazione? O meglio, sarebbe possibile ottenere da una superficie bidimensionale le immagini togliendo la materia, così come fanno gli scultori quando estraggono la figura dal blocco di marmo? Certo, basta scegliere il supporto adeguato. Cazzaniga ha dipinto i suoi quadri utilizzando tele di fustagno nero e disegnandovi sopra con una soluzione diluita di ipoclorito sodico, meglio conosciuta come candeggina. Variando la quantità di candeggina diluita in acqua, Cazzaniga ha costruito una tavolozza cromatica composta di un ricco assortimento di toni, che vanno dal bruno chiaro al bianco, con i quali ha immerso le sue visioni realistiche in una luce vespertina. Tuttavia, la sua indagine non si limita alla declinazione di questa trovata tecnica. In ogni suo lavoro, Cazzaniga ha affrontato temi che prendevano le mosse dalla sua esperienza biografica per approdare a una dimensione collettiva largamente condivisibile, come nel caso dei suoi spaccati urbani, che univano la visione in soggettiva di strade e incroci con la quotidiana consuetudine di ogni cittadino a percorrere spazi di attraversamento e non luoghi del paesaggio contemporaneo.
Anche in questo nuovo progetto, Cazzaniga unisce la memoria privata con quella collettiva e generazionale. Oggetto della sua indagine sono, questa volta, le figurine storiche degli albi della Panini, legate ai ricordi d’infanzia dell’artista. Chi è nato tra la metà degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 ricorderà con quanta passione si collezionavano le immaginette adesive dei calciatori, dei cartoni animati come Goldrake o Heidi, o dei personaggi di serial televisivi come Spazio 1999 e Il Corsaro Nero. Sono icone che hanno influenzato l’immaginario di più di una generazione, insegnando ai bambini i primi rudimenti del collezionismo, dello scambio di merci e persino del gioco d’azzardo (chi non ha giocato a muretto almeno una volta?). I figuritratti dell’artista, disegnati con pirografo e candeggina su fogli di carta bitumata accoppiata di 21x30 centimetri, ripropongono alcune intramontabili icone di quegli anni, dal calciatore Giacinto Facchetti a Sandokan fino a Giacomo Puccini. Il supporto non è più la tela di fustagno, ma la tecnica è ancora correlata con un’azione di sottrazione. Le bruciature del pirografo e le decolorazioni della candeggina erodono il foglio di carta bitumata, facendo emergere le immagini virtualmente già contenute in esso. Il modus si replica attraverso un tipo di disegno che rimanda all’incisione, ma il meccanismo di occultamento si accentua perchè Cazzaniga scompone ogni figuritratto in 16 parti uguali, invitando gli spettatori a ricostruire il frammentario mosaico di un lontano ricordo. Così, attraverso la partecipazione del pubblico, l’artista riesce a compiere, forse in maniera più incisiva, lo slittamento tematico dalla dimensione individuale a quella sociale.
Modus tertius: Manuel Baldini
Punto nodale dell’indagine di Manuel Baldini è una riflessione intorno alle peculiarità del linguaggio pittorico e alle sue modalità di fruizione. Rispetto ai nuovi media, che impongono allo spettatore un consumo visivo rapido e talvolta acritico, la pittura richiede tempistiche assai più dilatate e una capacità d’osservazione più affinata. Come in certi disegni ingannevoli che di primo acchito offrono un’immagine facile e ben definita, ma poi svelano la presenza di una forma nascosta – è celebre il doppio ritratto di profilo che disegna nel mezzo la forma di un calice -, la pittura sottopone l’occhio a una diversa ginnastica percettiva. Se da un lato le opere di Baldini esplorano la capacità della pittura di rilasciare forme e significati in un arco temporale non immediato, dall’altro mettono in evidenza le reazioni ottiche dello spettatore. Osservando i lavori dell’artista vicentino ci si accorge, infatti, che l’attenzione viene subito catturata dall’oggetto posto in primo piano, mentre solo un secondo sguardo riesce a cogliere la forma evanescente che fluttua sullo sfondo. Quest’ultima, che nella maggior parte dei casi è l’immagine di un volto umano, costituisce il soggetto del quadro, come nel caso di Play I, Selfpotrait e Madame X , mentre gli oggetti enigmatici o i segni in primo piano, siano essi accenni geometrici o indicazioni gestuali, assolvono una funzione di disturbo visivo. L’abilità di Baldini sta nella messa a punto di questo meccanismo pittorico, di questa macchina ottica che fa rimbalzare l’attenzione dello spettatore dalle forme piatte e immediate del primo livello ai ritratti delicati e quasi diafani, affogati nelle velature di colore del fondo. Tanto che, una volta che l’occhio abbia catturato i contorni della figura principale, gli sarà impossibile ignorarla o tornare alla condizione precedente. Nella sua pittura, Baldini limita al minimo l’incursione di elementi casuali, esercitando un controllo severo sull’intero processo e, in un certo senso, i suoi dipinti sono la dimostrazione pratica di un problema cognitivo legato alla funzionalità della percezione umana. Dal punto di vista della teoria dei piccoli mondi, si sarebbe tentati di considerare i suoi quadri come strutture completamente organizzate, prive di nessi casuali, ma sarebbe un giudizio troppo affrettato. L’artista, infatti, non imita alcun modello preordinato, come nel caso del pittore iperrealista impegnato a riportare su tela un’immagine fotografica. La sua trasposizione è piuttosto di tipo platonico, in quanto concerne la fedele trascrizione di intuizioni ideali sul piano più prosaico della pittura. Sebbene, proprio quei volti, quei soggetti affioranti dal fondo finiscano per rappresentare la traccia residua di una ineliminabile umanità.
di Ivan Quaroni
Est modus in rebus è un motto che si trova nelle Satire di Orazio (I, 1, 106). Vuol dire che ogni cosa si può fare nel modo più appropriato. Secondo il principio classico dell’Aurea Mediocritas, ciò significa che ogni circostanza deve essere affrontata con moderazione, ma dovendo trattare di un mondo sconfinato, privo di regole e dai confini pressoché inafferrabili qual è quello della pittura, il detto latino viene ad assumere un significato più letterale: c’è un modo per fare ogni cosa, sebbene non sia necessariamente uno solo. Proviamo a vedere la cosa secondo un’altra prospettiva. Nel suo saggio La scienza e l’ipotesi, il matematico e filosofo Henri Poincaré scrisse che “La scienza si fa con i fatti come una casa si fa con i mattoni, ma l’accumulazione dei fatti non è scienza più di quanto un mucchio di mattoni non sia una casa”1. Analogamente, possiamo affermare che la pittura si fa con i colori, ma dall’accumulo di colori non sortisce necessariamente un quadro. Ogni opera è il risultato combinatorio di elementi organizzati e di fattori casuali o accidentali. Un quadro completamente casuale non è un’opera più di quanto lo sia un quadro completamente organizzato, frutto dell’esecuzione meccanica di un principio astratto. In questo caso, vale la massima oraziana secondo cui est modus in rebus. L’eccesso di casualità, così come il suo opposto meccanico sono, a mio avviso, egualmente equidistanti dal concetto di opera d’arte. Due esempi lampanti sono il quadro dilettantesco, dipinto con assoluta spontaneità e senza alcuna cognizione tecnica e quello iperrealista estremo, che ripropone fedelmente un’immagine di origine fotografica. In entrambi i casi, la supposta opera non ci dice nulla a proposito dell’artista e delle sue intenzioni, non lasciandoci intuire altro che un presunto grado di approssimazione a due concetti astratti quali il caos e l’ordine. Con la teoria della complessità e con il concetto dei piccoli mondi, la scienza contemporanea sta cercando di dimostrare che la natura, la società, l’economia e la comunicazione funzionano tutte allo stesso modo. Sono tutte strutture basate su un’architettura di rete che contiene, allo stesso tempo, elementi casuali e organizzati, che hanno una funzionalità e una complessità enormemente più elevate rispetto alle reti ordinate e a quelle caotiche2. La stessa rete neurale del cervello umano potrebbe rispondere alle caratteristiche delle strutture di piccolo mondo, a metà strada tra l’ordine e il caos. Nel 1999, Luis Lago-Fernandez dell’università di Madrid condusse un esperimento sul cervello delle locuste, che possiede un numero relativamente limitato di neuroni e dunque si presta, più del cervello umano, ad essere studiato e mappato. Lago-Fernandez e i suoi colleghi, utilizzando i sofisticati modelli che i neuroscienziati avevano faticosamente messo a punto nel corso di mezzo secolo per ciascuno degli 800 neuroni della locusta, avevano elaborato una simulazione assemblando i neuroni in uno schema ordinato. Sottoposto questo schema a una stimolazione esterna, come, per esempio, un odore interessante per la locusta, lo scienziato spagnolo si accorse che la rete ordinata (e simulata) dei neuroni degli insetti non rispondeva con la stessa velocità della rete di una locusta vera. In uno schema ordinato, privo di nessi casuali, la rete dava risposte pari a quelle di un soggetto sub-normale. Uno schema caotico simulato, invece, rispondeva più velocemente agli stimoli esterni, ma non riusciva a sincronizzare il comportamento dei neuroni. Risultato: la struttura neurale del cervello delle locuste doveva essere, in egual misura, ordinato e caotico. A questo esempio si potrebbero aggiungere i risultati di centinaia di esperimenti sui più disparati campi, dall’organizzazione sociale a quella economica, dal funzionamento delle cellule all’architettura di internet. Tutte confermano, con un buon grado di approssimazione, la teoria della complessità.
Benché non ancora studiata secondo la prospettiva della teoria dei piccoli mondi, possiamo azzardare l’ipotesi che la pittura, così come altri campi dell’agire umano, risponda agli stessi macro-principi strutturali, quelli cioè di una equilibrata combinazione tra fattori regolati e fattori accidentali. Immaginiamo, infatti, tutte le ricerche artistiche come dei grafi complessi, corrispondenti a delle reti piccolo mondo, ognuna diversa dall’altra. In tal caso che cosa renderebbe ogni ricerca unica? Certamente gli elementi casuali che intervengono nel corso della lavorazione, certe macchie non volute, il risultato imprevisto di una mescita di colori, magari una non calcolata rugosità del supporto e mille altri piccoli dettagli, ma soprattutto l’intenzione dell’artista, il suo originale background culturale, la sua particolare padronanza delle tecniche, la sua visione complessiva, la sua volontà. Tutto questo può essere chiamato modus. La maniera, la modalità o, per usare un termine più effimero, lo stile sono, infatti, i segni distintivi di una ricerca artistica.
Est modus in rebus raccoglie la testimonianza di tre modi completamente diversi di intendere la pittura, quelli di Marco Fantini, Enrico Cazzaniga e Manuel Baldini. Tre piccoli mondi, originali e fuori dagli schemi ordinati delle mode e dei trend, che indagano le potenzialità del medium partendo da premesse disparate e giungendo a risultati altrettanto dissimili. Tre esempi che illustrano, seppure in parte infinitesimale, la complessa ricchezza di una pittura in continua evoluzione, più viva che mai, a discapito delle sue molteplici morti annunciate.
Modus primus: Marco Fantini
Come ho scritto in altre occasioni, l’approccio di Marco Fantini alla pittura è apparentemente erratico, casuale, quasi labirintico. Ogni suo lavoro sembra nascere da un’intuizione iniziale, da una figura epifanica, intorno alla quale si costruisce la struttura del quadro per progressivi accumuli, formati da una mescolanza di segni riusciti e di ripensamenti che disegnano un percorso tortuoso, niente affatto lineare. Ciò che intendo dire è che, quello di Fantini, è un modo di dipingere quasi performativo, nel senso che è strettamente connesso con un’azione dagli esiti incerti. È come un corpo a corpo fatto di improvvisi affondi e repentine ritirate, di finte e di colpi piazzati, di pause ed assalti dal ritmo altalenante. Una procedura claudicante, oscillatoria, che procede tra dubbi ed esitazioni, sempre in bilico tra il rischio del fallimento e la sublime riuscita e che, per giunta, mescola elementi pittorici e disegnativi, addensamenti di materia e graffiature della superficie secondo una logica inafferrabile, che tiene conto di un suo personalissimo senso dell’equilibrio. In un certo senso, il modus di Fantini non è affatto casuale. Ci sono elementi visivi ricorrenti, come gli assurdi tagli prospettici delle sue stanze, la compresenza di immagini chiaramente delineate, perfettamente riconoscibili e di figure dai contorni fluidi e indefiniti, il bilanciamento tra masse di colore scuro e chiaro, il contrappeso tra segni grafici e gestuali, la chiosa calligrafica dei giochi di parole, che dischiudono una varietà di significati. Insomma, c’è un ordine strutturale, sebbene sia mobile, vibratile, talvolta addirittura occultato dall’apporto di nuovi segni e nuove soluzioni. Poeticamente, Marco Fantini vorrebbe che ogni suo lavoro fosse unico e profondamente diverso e senza dubbio lo è, ma non tanto da rendere irriconoscibile la sua struttura di piccolo mondo, che è giocata sull’antitesi tra finzioni reali e presunte verità.
Fantini dipinge i propri racconti come fossero rebus in cui in cui il senso complessivo della narrazione risulta criptato. Ed è per questo che anche queste nuove carte dell’artista si offrono allo spettatore in veste di quesiti visivi, piuttosto che di risposte esaustive. La trama che li sorregge è la stessa delle tele. Anzi, la distinzione tra i due supporti rischia a volta di essere fuorviante, perché l’approccio è sostanzialmente identico. È come se si trattasse, ogni volta, di inscenare le sorti di una partita a scacchi dell’artista con se stesso. Qualunque sia il risultato, la sfida è avvincente. Credo sia questo, agli occhi di Fantini, a rendere la pittura un territorio ancora così interessante da esplorare.
Modus secundus: Enrico Cazzaniga
La ricerca artistica di Enrico Cazzaniga muove da una domanda fondamentale: che accadrebbe a un supporto se anziché aggiungere la materia cromatica si procedesse per sottrazione? O meglio, sarebbe possibile ottenere da una superficie bidimensionale le immagini togliendo la materia, così come fanno gli scultori quando estraggono la figura dal blocco di marmo? Certo, basta scegliere il supporto adeguato. Cazzaniga ha dipinto i suoi quadri utilizzando tele di fustagno nero e disegnandovi sopra con una soluzione diluita di ipoclorito sodico, meglio conosciuta come candeggina. Variando la quantità di candeggina diluita in acqua, Cazzaniga ha costruito una tavolozza cromatica composta di un ricco assortimento di toni, che vanno dal bruno chiaro al bianco, con i quali ha immerso le sue visioni realistiche in una luce vespertina. Tuttavia, la sua indagine non si limita alla declinazione di questa trovata tecnica. In ogni suo lavoro, Cazzaniga ha affrontato temi che prendevano le mosse dalla sua esperienza biografica per approdare a una dimensione collettiva largamente condivisibile, come nel caso dei suoi spaccati urbani, che univano la visione in soggettiva di strade e incroci con la quotidiana consuetudine di ogni cittadino a percorrere spazi di attraversamento e non luoghi del paesaggio contemporaneo.
Anche in questo nuovo progetto, Cazzaniga unisce la memoria privata con quella collettiva e generazionale. Oggetto della sua indagine sono, questa volta, le figurine storiche degli albi della Panini, legate ai ricordi d’infanzia dell’artista. Chi è nato tra la metà degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 ricorderà con quanta passione si collezionavano le immaginette adesive dei calciatori, dei cartoni animati come Goldrake o Heidi, o dei personaggi di serial televisivi come Spazio 1999 e Il Corsaro Nero. Sono icone che hanno influenzato l’immaginario di più di una generazione, insegnando ai bambini i primi rudimenti del collezionismo, dello scambio di merci e persino del gioco d’azzardo (chi non ha giocato a muretto almeno una volta?). I figuritratti dell’artista, disegnati con pirografo e candeggina su fogli di carta bitumata accoppiata di 21x30 centimetri, ripropongono alcune intramontabili icone di quegli anni, dal calciatore Giacinto Facchetti a Sandokan fino a Giacomo Puccini. Il supporto non è più la tela di fustagno, ma la tecnica è ancora correlata con un’azione di sottrazione. Le bruciature del pirografo e le decolorazioni della candeggina erodono il foglio di carta bitumata, facendo emergere le immagini virtualmente già contenute in esso. Il modus si replica attraverso un tipo di disegno che rimanda all’incisione, ma il meccanismo di occultamento si accentua perchè Cazzaniga scompone ogni figuritratto in 16 parti uguali, invitando gli spettatori a ricostruire il frammentario mosaico di un lontano ricordo. Così, attraverso la partecipazione del pubblico, l’artista riesce a compiere, forse in maniera più incisiva, lo slittamento tematico dalla dimensione individuale a quella sociale.
Modus tertius: Manuel Baldini
Punto nodale dell’indagine di Manuel Baldini è una riflessione intorno alle peculiarità del linguaggio pittorico e alle sue modalità di fruizione. Rispetto ai nuovi media, che impongono allo spettatore un consumo visivo rapido e talvolta acritico, la pittura richiede tempistiche assai più dilatate e una capacità d’osservazione più affinata. Come in certi disegni ingannevoli che di primo acchito offrono un’immagine facile e ben definita, ma poi svelano la presenza di una forma nascosta – è celebre il doppio ritratto di profilo che disegna nel mezzo la forma di un calice -, la pittura sottopone l’occhio a una diversa ginnastica percettiva. Se da un lato le opere di Baldini esplorano la capacità della pittura di rilasciare forme e significati in un arco temporale non immediato, dall’altro mettono in evidenza le reazioni ottiche dello spettatore. Osservando i lavori dell’artista vicentino ci si accorge, infatti, che l’attenzione viene subito catturata dall’oggetto posto in primo piano, mentre solo un secondo sguardo riesce a cogliere la forma evanescente che fluttua sullo sfondo. Quest’ultima, che nella maggior parte dei casi è l’immagine di un volto umano, costituisce il soggetto del quadro, come nel caso di Play I, Selfpotrait e Madame X , mentre gli oggetti enigmatici o i segni in primo piano, siano essi accenni geometrici o indicazioni gestuali, assolvono una funzione di disturbo visivo. L’abilità di Baldini sta nella messa a punto di questo meccanismo pittorico, di questa macchina ottica che fa rimbalzare l’attenzione dello spettatore dalle forme piatte e immediate del primo livello ai ritratti delicati e quasi diafani, affogati nelle velature di colore del fondo. Tanto che, una volta che l’occhio abbia catturato i contorni della figura principale, gli sarà impossibile ignorarla o tornare alla condizione precedente. Nella sua pittura, Baldini limita al minimo l’incursione di elementi casuali, esercitando un controllo severo sull’intero processo e, in un certo senso, i suoi dipinti sono la dimostrazione pratica di un problema cognitivo legato alla funzionalità della percezione umana. Dal punto di vista della teoria dei piccoli mondi, si sarebbe tentati di considerare i suoi quadri come strutture completamente organizzate, prive di nessi casuali, ma sarebbe un giudizio troppo affrettato. L’artista, infatti, non imita alcun modello preordinato, come nel caso del pittore iperrealista impegnato a riportare su tela un’immagine fotografica. La sua trasposizione è piuttosto di tipo platonico, in quanto concerne la fedele trascrizione di intuizioni ideali sul piano più prosaico della pittura. Sebbene, proprio quei volti, quei soggetti affioranti dal fondo finiscano per rappresentare la traccia residua di una ineliminabile umanità.
17
febbraio 2007
Est modus in rebus
Dal 17 febbraio al 24 marzo 2007
arte contemporanea
Location
GALLERIA SAN SALVATORE
Modena, Via Canalino, 31, (Modena)
Modena, Via Canalino, 31, (Modena)
Vernissage
17 Febbraio 2007, ore 18
Autore
Curatore