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Etiopia: il Tigray dimenticato di Coralie Maneri
Le fotografie della mostra sono la testimonianza vissuta sul campo della quotidianità di un popolo che vive con grande fierezza ed umiltà in un territorio estremamente aspro e difficile.
Comunicato stampa
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Introduzione: Coralie Maneri, fotografa autodidatta italo-svizzera, si dedica ad oggi soprattutto a progetti sociali nei paesi in via di sviluppo come fotografa freelance. In Etiopia documenta da più di 10 anni la realizzazione di pozzi d’acqua, scuole rurali ed health post, in particolar modo nel territorio del Tigray tramite la Fondazione Butterfly onlus.
Queste immagini sono la testimonianza vissuta sul campo della quotidianità di un popolo che vive con grande fierezza ed umiltà in un territorio estremamente aspro e difficile. Gli scatti si fermano a novembre 2020, momento nel quale, ong, giornalisti e fotografi sono stati interdetti dalla zona di guerra che dura da più 2 anni.
Viene da chiedersi il perché alcune notizie di guerra e di crimini contro l’umanità siano più degne di attenzione rispetto ad altre. Giornalisticamente sembrerebbe essere importante il concetto di "morto chilometrico" in quanto i media sembrano attribuire importanza alle vittime di una tragedia in base alla distanza che le separa dallo spettatore, dall'ascoltatore o dal lettore.
Il dizionario definisce la parola Umanità come “l’insieme di uomini” in quanto sottoposti alle limitazioni della natura umana; oppure ancora “l'intero genere umano” senza fare alcuna allusione al colore della pelle.
È necessario che l’intera società occidentale non cada nel tranello dei media e dei poteri forti che, per ovvi interessi economici, distolgono l’attenzione da guerre lontane dai nostri occhi (59 guerre in corso sul pianeta nel 2022), e inizi ad occuparsi realmente di “crimini contro l’umanità” al di fuori delle barriere che ci vogliono separare dalla realtà che ci definisce tutti, indistintamente “esseri umani”.
Coralie Maneri
Emergenza idrica
L’acqua nei suoi molteplici significati ed usi è un elemento che connette molti aspetti della vita sociale, dalla sopravvivenza all’igiene, dalla produzione alla ritualità fino al piacere. A fronte di questa sua connettività, la quantità e la qualità dell’acqua sono ormai diventate una questione cruciale.
La scarsità d'acqua è emersa come uno dei problemi più urgenti del 21° secolo. Si stima, infatti, che 2,7 miliardi di persone dovranno affrontare la scarsità d'acqua entro il 2025 (UN, 2003).
Non meno problematica è la qualità dell’acqua, anch’essa da tempo sul tavolo dei dibattiti delle politiche internazionali di intervento allo sviluppo.
Nel luglio 2010, l’Assemblea Generale dell’ONU ha dichiarato il diritto all'acqua potabile sicura e pulita e ai servizi igienico-sanitari come diritto umano universale, un diritto che concerne la dignità della persona, è essenziale al pieno godimento della vita ed è fondamentale per tutti gli altri diritti.
Una preoccupazione fondamentale è l'equità dell'accesso all'acqua potabile per persone di tutte le
classi, di tutti i gruppi etnici, di tutte le età e di entrambi i sessi:
Tuttavia, esiste ancora una notevole discrepanza tra i discorsi sui diritti all’acqua e le pratiche di attuazione dei diritti stessi.
Nonostante decenni di impegno per soddisfare le esigenze idriche locali, la copertura idrica globale varia in modo significativo tra regioni e continenti e 1,1 miliardi di persone rimangono senza accesso a forniture idriche accettabili.
Nello scenario globale, l’Etiopia è la quinta nazione al mondo con la più elevata percentuale di decessi legati all’assunzione di acqua non potabile, dopo Chad, Niger, Madagascar e Sud Sudan. I rischi per la salute legati all'utilizzo di acqua non potabile, contaminata da parassiti o insetti vettori di malattie, sono numerosissimi. Colera, epatite, tifo e diarrea sono la causa più frequente di mortalità infantile.
In Etiopia, ma soprattutto nella regione del Tigray, particolarmente soggetta a lunghi periodi di siccità, ci sono oltre sei milioni di persone che ‘sopravvivono’ tramite agricoltura di sussistenza. Secondo i dati di Aquastat, solo il 40% della superficie coltivata in Etiopia è attrezzata per l’irrigazione, mentre il rimanente 60% è interamente dipendente dalle condizioni atmosferiche e dal lavoro delle famiglie nei campi, con risultati molto spesso catastrofici determinati dai cambiamenti climatici degli ultimi decenni.
In questo contesto di limitato accesso all’acqua, si aggiunge una nota di genere. Come in molte altre parti del pianeta, soprattutto nei contesti più poveri, in Etiopia sono le donne e le ragazze a ricoprire il ruolo vitale di portatrici d’acqua, impiegando lunghe ore di cammino alla ricerca di acqua, per riportare a casa pesanti taniche legate con corde sulle proprie spalle, contenenti 30 litri di acqua spesso non potabile. Questa pratica fa parte della tradizione locale che assegna alle donne molteplici ruoli nella fornitura di acqua, servizi igienico-sanitari e gestione dello stato di salute della famiglia, mentre gli uomini sono maggiormente impiegati nelle attività produttive.
Una rinnovata attenzione alle condizioni di scarsità e cattiva qualità dell’acqua, tanto per ragioni biosferiche quanto antropiche politiche, e un diverso impegno verso la redistribuzione equa dell’acqua aiuterebbe a ridurre la povertà e a migliorare la salute e le condizioni sociali di milioni di persone.
Tra le tante azioni possibili, la realizzazione di pozzi di acqua è fondamentale anche per l’educazione delle future generazioni, poiché molti bambini che devono raggiungere la scuola, camminando per chilometri, non hanno la possibilità di rifornirsi dell’acqua necessaria per il fabbisogno giornaliero, oltre che avere il compito, nel contempo, di aiutare la propria famiglia al sostentamento quotidiano.
Da noi, il tempo è denaro, per loro, il tempo è acqua..
Désirée Adami & Coralie Maneri
Oltre lo sguardo. Donne in Tigray.
Negli ultimi decenni la donna è stata, e continua a essere, il soggetto cardine di ogni processo di crescita sociale, politico, economico. Una centralità scaturita dalla presa di coscienza di una disparità storica che condiziona, con gradi di negatività variabile, la diversa posizione delle donne rispetto agli uomini.
Gli scatti che compongono questa raccolta nascono da una consapevolezza, forse azzardata e rischiosa da esprimere, quanto mai necessaria: prendere le distanze da una visione monocromatica sulla donna, e in particolare sulla donna dei mondi “esotici”, che la vorrebbe a tutte le latitudini e in tutti i contesti culturali vittima delle più svariate forme di oppressione e ineguaglianze.
Le donne nelle zone rurali dell’Etiopia esistono all’interno di un quadro generale di dominio maschile, giustificato dalla naturalizzazione d’idee normative che sembrano avvantaggiare gli uomini in tutti gli ambiti dell’ordine sociale.
Uno sguardo più circostanziato restituisce, però, una scena più complessa che si muove tra costrizioni effettivamente sperimentate e spazi di azione anche molto incisivi. Spazi che parlano di mani sapienti, di arti culinarie, di saperi che curano, di socialità che scandiscono il tempo ordinario e quello delle feste.
Da sempre le donne sono state in movimento, influenzando le questioni pubbliche e domestiche e contribuendo in modo sostanziale al cambiamento culturale attraverso forme creative di espressione del sé, tattiche finissime di ribellione, gesti, a volte impercettibili, di controllo.
Un potere “morbido” quello delle donne, che si dipana tra le maglie di un reale sfaccettato, complesso e dinamico. Un potere che porta i segni della storia in questa regione dell’Etiopia, il Tigray, quella della guerra di liberazione dalla dittatura militare del DERG (1975-1991), dove le donne rurali sono state protagoniste in prima linea, con i fucili contro l’oppressione politica, con la parola contro l’oppressione di classe e di genere, coinvolgendosi in una personale battaglia per i diritti civili.
Un “potere”, qui nell’altopiano tigrino, che non è sottratto al peso delle fatiche quotidiane, alla durezza di un territorio tanto bello quanto severo con chi lo abita, dove “Dio ha chiuso il rubinetto e pietrificato la terra”.
Un’agentività che di certo incontra gli inciampi causati da scelte politiche predatorie e da (dis)connessioni globali più generali, ma che non rinuncia ad un proprio posizionamento critico.
La preoccupazione di questi scatti è di invitare chi guarda a fare uno sforzo di attenzione, per cogliere quello che può non essere immediatamente visibile. Una preoccupazione che è anche un invito a superare un’acritica lettura che pone la violenza, il controllo e la subordinazione come esclusive nel modellare le biografie femminili, escludendo così la possibilità di forme di resistenza e di espressione di coscienze antagoniste di cui, a ben vedere, la storia è piena.
Désirée Adami
Antropologa freelance
Sapienza Università di Roma
Queste immagini sono la testimonianza vissuta sul campo della quotidianità di un popolo che vive con grande fierezza ed umiltà in un territorio estremamente aspro e difficile. Gli scatti si fermano a novembre 2020, momento nel quale, ong, giornalisti e fotografi sono stati interdetti dalla zona di guerra che dura da più 2 anni.
Viene da chiedersi il perché alcune notizie di guerra e di crimini contro l’umanità siano più degne di attenzione rispetto ad altre. Giornalisticamente sembrerebbe essere importante il concetto di "morto chilometrico" in quanto i media sembrano attribuire importanza alle vittime di una tragedia in base alla distanza che le separa dallo spettatore, dall'ascoltatore o dal lettore.
Il dizionario definisce la parola Umanità come “l’insieme di uomini” in quanto sottoposti alle limitazioni della natura umana; oppure ancora “l'intero genere umano” senza fare alcuna allusione al colore della pelle.
È necessario che l’intera società occidentale non cada nel tranello dei media e dei poteri forti che, per ovvi interessi economici, distolgono l’attenzione da guerre lontane dai nostri occhi (59 guerre in corso sul pianeta nel 2022), e inizi ad occuparsi realmente di “crimini contro l’umanità” al di fuori delle barriere che ci vogliono separare dalla realtà che ci definisce tutti, indistintamente “esseri umani”.
Coralie Maneri
Emergenza idrica
L’acqua nei suoi molteplici significati ed usi è un elemento che connette molti aspetti della vita sociale, dalla sopravvivenza all’igiene, dalla produzione alla ritualità fino al piacere. A fronte di questa sua connettività, la quantità e la qualità dell’acqua sono ormai diventate una questione cruciale.
La scarsità d'acqua è emersa come uno dei problemi più urgenti del 21° secolo. Si stima, infatti, che 2,7 miliardi di persone dovranno affrontare la scarsità d'acqua entro il 2025 (UN, 2003).
Non meno problematica è la qualità dell’acqua, anch’essa da tempo sul tavolo dei dibattiti delle politiche internazionali di intervento allo sviluppo.
Nel luglio 2010, l’Assemblea Generale dell’ONU ha dichiarato il diritto all'acqua potabile sicura e pulita e ai servizi igienico-sanitari come diritto umano universale, un diritto che concerne la dignità della persona, è essenziale al pieno godimento della vita ed è fondamentale per tutti gli altri diritti.
Una preoccupazione fondamentale è l'equità dell'accesso all'acqua potabile per persone di tutte le
classi, di tutti i gruppi etnici, di tutte le età e di entrambi i sessi:
Tuttavia, esiste ancora una notevole discrepanza tra i discorsi sui diritti all’acqua e le pratiche di attuazione dei diritti stessi.
Nonostante decenni di impegno per soddisfare le esigenze idriche locali, la copertura idrica globale varia in modo significativo tra regioni e continenti e 1,1 miliardi di persone rimangono senza accesso a forniture idriche accettabili.
Nello scenario globale, l’Etiopia è la quinta nazione al mondo con la più elevata percentuale di decessi legati all’assunzione di acqua non potabile, dopo Chad, Niger, Madagascar e Sud Sudan. I rischi per la salute legati all'utilizzo di acqua non potabile, contaminata da parassiti o insetti vettori di malattie, sono numerosissimi. Colera, epatite, tifo e diarrea sono la causa più frequente di mortalità infantile.
In Etiopia, ma soprattutto nella regione del Tigray, particolarmente soggetta a lunghi periodi di siccità, ci sono oltre sei milioni di persone che ‘sopravvivono’ tramite agricoltura di sussistenza. Secondo i dati di Aquastat, solo il 40% della superficie coltivata in Etiopia è attrezzata per l’irrigazione, mentre il rimanente 60% è interamente dipendente dalle condizioni atmosferiche e dal lavoro delle famiglie nei campi, con risultati molto spesso catastrofici determinati dai cambiamenti climatici degli ultimi decenni.
In questo contesto di limitato accesso all’acqua, si aggiunge una nota di genere. Come in molte altre parti del pianeta, soprattutto nei contesti più poveri, in Etiopia sono le donne e le ragazze a ricoprire il ruolo vitale di portatrici d’acqua, impiegando lunghe ore di cammino alla ricerca di acqua, per riportare a casa pesanti taniche legate con corde sulle proprie spalle, contenenti 30 litri di acqua spesso non potabile. Questa pratica fa parte della tradizione locale che assegna alle donne molteplici ruoli nella fornitura di acqua, servizi igienico-sanitari e gestione dello stato di salute della famiglia, mentre gli uomini sono maggiormente impiegati nelle attività produttive.
Una rinnovata attenzione alle condizioni di scarsità e cattiva qualità dell’acqua, tanto per ragioni biosferiche quanto antropiche politiche, e un diverso impegno verso la redistribuzione equa dell’acqua aiuterebbe a ridurre la povertà e a migliorare la salute e le condizioni sociali di milioni di persone.
Tra le tante azioni possibili, la realizzazione di pozzi di acqua è fondamentale anche per l’educazione delle future generazioni, poiché molti bambini che devono raggiungere la scuola, camminando per chilometri, non hanno la possibilità di rifornirsi dell’acqua necessaria per il fabbisogno giornaliero, oltre che avere il compito, nel contempo, di aiutare la propria famiglia al sostentamento quotidiano.
Da noi, il tempo è denaro, per loro, il tempo è acqua..
Désirée Adami & Coralie Maneri
Oltre lo sguardo. Donne in Tigray.
Negli ultimi decenni la donna è stata, e continua a essere, il soggetto cardine di ogni processo di crescita sociale, politico, economico. Una centralità scaturita dalla presa di coscienza di una disparità storica che condiziona, con gradi di negatività variabile, la diversa posizione delle donne rispetto agli uomini.
Gli scatti che compongono questa raccolta nascono da una consapevolezza, forse azzardata e rischiosa da esprimere, quanto mai necessaria: prendere le distanze da una visione monocromatica sulla donna, e in particolare sulla donna dei mondi “esotici”, che la vorrebbe a tutte le latitudini e in tutti i contesti culturali vittima delle più svariate forme di oppressione e ineguaglianze.
Le donne nelle zone rurali dell’Etiopia esistono all’interno di un quadro generale di dominio maschile, giustificato dalla naturalizzazione d’idee normative che sembrano avvantaggiare gli uomini in tutti gli ambiti dell’ordine sociale.
Uno sguardo più circostanziato restituisce, però, una scena più complessa che si muove tra costrizioni effettivamente sperimentate e spazi di azione anche molto incisivi. Spazi che parlano di mani sapienti, di arti culinarie, di saperi che curano, di socialità che scandiscono il tempo ordinario e quello delle feste.
Da sempre le donne sono state in movimento, influenzando le questioni pubbliche e domestiche e contribuendo in modo sostanziale al cambiamento culturale attraverso forme creative di espressione del sé, tattiche finissime di ribellione, gesti, a volte impercettibili, di controllo.
Un potere “morbido” quello delle donne, che si dipana tra le maglie di un reale sfaccettato, complesso e dinamico. Un potere che porta i segni della storia in questa regione dell’Etiopia, il Tigray, quella della guerra di liberazione dalla dittatura militare del DERG (1975-1991), dove le donne rurali sono state protagoniste in prima linea, con i fucili contro l’oppressione politica, con la parola contro l’oppressione di classe e di genere, coinvolgendosi in una personale battaglia per i diritti civili.
Un “potere”, qui nell’altopiano tigrino, che non è sottratto al peso delle fatiche quotidiane, alla durezza di un territorio tanto bello quanto severo con chi lo abita, dove “Dio ha chiuso il rubinetto e pietrificato la terra”.
Un’agentività che di certo incontra gli inciampi causati da scelte politiche predatorie e da (dis)connessioni globali più generali, ma che non rinuncia ad un proprio posizionamento critico.
La preoccupazione di questi scatti è di invitare chi guarda a fare uno sforzo di attenzione, per cogliere quello che può non essere immediatamente visibile. Una preoccupazione che è anche un invito a superare un’acritica lettura che pone la violenza, il controllo e la subordinazione come esclusive nel modellare le biografie femminili, escludendo così la possibilità di forme di resistenza e di espressione di coscienze antagoniste di cui, a ben vedere, la storia è piena.
Désirée Adami
Antropologa freelance
Sapienza Università di Roma
07
dicembre 2022
Etiopia: il Tigray dimenticato di Coralie Maneri
Dal 07 al 13 dicembre 2022
fotografia
Location
ROBERT F. KENNEDY HUMAN RIGHTS EUROPE
Firenze, Via Ghibellina, 12A, (Firenze)
Firenze, Via Ghibellina, 12A, (Firenze)
Orario di apertura
Mercoledì 7 Dicembre 18.00 – 20.30
da Giovedì 8 a Domenica 11 Dicembre: 11.00 - 20.30
Lunedì 12 e Martedì 13 Dicembre: 16.00 - 20.30
Vernissage
7 Dicembre 2022, Mercoledì 7 Dicembre 18.00 – 20.30
Autore
Patrocini