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Everest
La mostra vuole essere luogo dagli infiniti significati: territorio di conquista, viaggio ascensionale, sfida del pericolo al limite dell’umana sopportazione, nonché testimonianza di grandi e piccole imprese, di un tentativo clamorosamente riuscito o tragicamente mancato
Comunicato stampa
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“Well, we knocked the bastard off” (letteralmente: Bene, abbiamo battuto il bastardo). Con queste parole nude e crude inizia Everest, l’ultima mostra-evento all’interno dello spazio Fondair. La frase in questione è quella pronunciata, subito dopo la storica conquista, dall’escursionista neozelandese Edmund Hillary che per primo ha messo piede sulla vetta del monte Everest.
Così la mostra Everest, curata da Elena Bentini e Elisa Bressan vuole essere luogo dagli infiniti significati: territorio di conquista, viaggio ascensionale, sfida del pericolo al limite dell’umana sop-portazione, nonché testimonianza di grandi e piccole imprese, di un tentativo clamorosamente riu-scito o tragicamente mancato. Un percorso alterno quindi, un viaggio caratterizzato da altezze ver-tiginose e precipizi sistematici, come ci suggerisce Eber Bosa nelle sue stampe fotografiche in bianco e nero di grande formato. Una continua alternanza tra bene e male, un viaggio allucinato dove i fantasmi e gli angeli hanno la possibilità di trasformare il sogno in incubo e viceversa.
Come un omaggio all’epopea dei “corrieri cosmici”, Be Invisible Now! evoca con le sue lunghe e minacciose increspature analogiche, nuovi itinerari, il mito dei viaggi spaziali. L’artista presenta il suo lavoro più recente Neutrino, disco uscito nel 2007 per l'etichetta Boring Machines. L’esibizione Live a Fondair vede anche la partecipazione del videomaker EEviac che per l’occasione, con il supporto di televisori, telecamere e un mixer video, interviene nella performance per captare i se-gnali UHF e manipolare quelli audio/video. Il risultato è tradotto in una serie di disturbi visivi, rumore bianco/rosa e frattali.
Su un piano meno tecnologico ma altrettanto coinvolgente, grazie a un processo di umanizzazione di un luogo disabitato, Elisa Rossi accompagna lo spettatore verso nuove scoperte. Nelle opere qui esposte si privilegia lo sguardo rivolto al passato, alla memoria, come se il percorso da compiere non fosse altro che un continuo ritorno a casa. L’artista si sofferma sugli spazi che ospitano la mostra e sul concetto di casa, in quanto luogo dell'intimità, intriso di ricordi, un tempo teatro, ora testimonianza di una storia.
Rifacendosi al concetto di cordata, tipico della scalata alpinistica, Enrico Bressan presenta un’opera collettiva, nella quale un gruppo di architetti è coinvolto nella progettazione di un Centro di Permanenza Temporanea, struttura che ospita gli immigrati clandestini prima della loro espulsione. I partecipanti al progetto devono fare i conti con le proprie convinzioni morali perché dare forma concreta a una struttura che irrimediabilmente spezza lo slancio di un sogno è come sentirsi complici di un sistema spietato. In questo progetto le parti si capovolgono e chi metaforicamente ha scalato il monte della speranza, per raggiungere la terra promessa, ora si ritrova al punto di partenza, prigioniero e in attesa del rimpatrio.
Per i tibetani l’Everest è una montagna sacra, lo dimostrano i tanti nomi che le vengono attribuiti: "madre dell'universo", "dea della terra" e "dio del cielo". Ecco allora che la montagna può diventare luogo di culto, temuta e adorata dagli stessi scalatori. E proprio in questo territorio di sublimazione Daniele Macca rivolge il proprio sguardo. I suoi scatti fotografici ritraggono musicisti jazz mentre si esibiscono in assoli, preghiere melodiche sofferte e gioiose. Sempre alla ricerca di un culmine e-mozionale, ecco allora rivelarsi l’irripetibile istante in cui il corpo del musicista si fa altro da sé, e-merge e si allontana durante lo slancio mistico.
Nell’opera intitolata My space, Serena Barbisan decide di indagare sul proprio inconscio, speri-mentando per la prima volta il linguaggio dell’installazione multimediale. La sua voce distorta, regi-strata durante il sonno, accompagna una sequenza di immagini-ricordi. Quest’opera vuole essere un invito a non indietreggiare durante la sfida, a non spaventarsi di fronte ad avversità e incognite, anche quando il senso di impotenza sembra prevalere sull’ipotesi di una “soluzione”.
Sempre in relazione al significato dell’ignoto e dell’incomprensibile, Taiabati espone fotografie si-lenziose, fatte di vapore, indefinibili. La nebbia diventa il soggetto principale, la montagna è ora uno stato d’animo dalle atmosfere rarefatte. Le immagini hanno contorni sfuocati, si compongono di assenze. L’Everest ha così perso l’elemento reale, ora lo si può scorgere solo attraverso uno sguardo immaginifico.
Un progetto che parte da una condizione personale è quello di Vania Pepe, Bathroom, un lavoro che prende spunto dall’idea di spazio riservato, intimo, dove l’individuo prova a raccogliersi e ritro-vare se stesso. La conquista del traguardo, in questo caso, corrisponde al tentativo di riappropria-zione del diritto all’isolamento, e del bisogno di difendere una dimensione vulnerabile.
Già dai titoli delle sue opere si può intuire il percorso artistico di Marco Andrighetto. Con Riposo e Salita l’artista ci conduce attraverso presenze in trasformazione, di forze contrastanti: generatrici e distruttrici. Particolare attenzione viene posta sulla natura intesa come “sistema di inconsapevole germinazione umana” e dove il segno rende le tele somiglianti a mappe terrestri.
Così la mostra Everest, curata da Elena Bentini e Elisa Bressan vuole essere luogo dagli infiniti significati: territorio di conquista, viaggio ascensionale, sfida del pericolo al limite dell’umana sop-portazione, nonché testimonianza di grandi e piccole imprese, di un tentativo clamorosamente riu-scito o tragicamente mancato. Un percorso alterno quindi, un viaggio caratterizzato da altezze ver-tiginose e precipizi sistematici, come ci suggerisce Eber Bosa nelle sue stampe fotografiche in bianco e nero di grande formato. Una continua alternanza tra bene e male, un viaggio allucinato dove i fantasmi e gli angeli hanno la possibilità di trasformare il sogno in incubo e viceversa.
Come un omaggio all’epopea dei “corrieri cosmici”, Be Invisible Now! evoca con le sue lunghe e minacciose increspature analogiche, nuovi itinerari, il mito dei viaggi spaziali. L’artista presenta il suo lavoro più recente Neutrino, disco uscito nel 2007 per l'etichetta Boring Machines. L’esibizione Live a Fondair vede anche la partecipazione del videomaker EEviac che per l’occasione, con il supporto di televisori, telecamere e un mixer video, interviene nella performance per captare i se-gnali UHF e manipolare quelli audio/video. Il risultato è tradotto in una serie di disturbi visivi, rumore bianco/rosa e frattali.
Su un piano meno tecnologico ma altrettanto coinvolgente, grazie a un processo di umanizzazione di un luogo disabitato, Elisa Rossi accompagna lo spettatore verso nuove scoperte. Nelle opere qui esposte si privilegia lo sguardo rivolto al passato, alla memoria, come se il percorso da compiere non fosse altro che un continuo ritorno a casa. L’artista si sofferma sugli spazi che ospitano la mostra e sul concetto di casa, in quanto luogo dell'intimità, intriso di ricordi, un tempo teatro, ora testimonianza di una storia.
Rifacendosi al concetto di cordata, tipico della scalata alpinistica, Enrico Bressan presenta un’opera collettiva, nella quale un gruppo di architetti è coinvolto nella progettazione di un Centro di Permanenza Temporanea, struttura che ospita gli immigrati clandestini prima della loro espulsione. I partecipanti al progetto devono fare i conti con le proprie convinzioni morali perché dare forma concreta a una struttura che irrimediabilmente spezza lo slancio di un sogno è come sentirsi complici di un sistema spietato. In questo progetto le parti si capovolgono e chi metaforicamente ha scalato il monte della speranza, per raggiungere la terra promessa, ora si ritrova al punto di partenza, prigioniero e in attesa del rimpatrio.
Per i tibetani l’Everest è una montagna sacra, lo dimostrano i tanti nomi che le vengono attribuiti: "madre dell'universo", "dea della terra" e "dio del cielo". Ecco allora che la montagna può diventare luogo di culto, temuta e adorata dagli stessi scalatori. E proprio in questo territorio di sublimazione Daniele Macca rivolge il proprio sguardo. I suoi scatti fotografici ritraggono musicisti jazz mentre si esibiscono in assoli, preghiere melodiche sofferte e gioiose. Sempre alla ricerca di un culmine e-mozionale, ecco allora rivelarsi l’irripetibile istante in cui il corpo del musicista si fa altro da sé, e-merge e si allontana durante lo slancio mistico.
Nell’opera intitolata My space, Serena Barbisan decide di indagare sul proprio inconscio, speri-mentando per la prima volta il linguaggio dell’installazione multimediale. La sua voce distorta, regi-strata durante il sonno, accompagna una sequenza di immagini-ricordi. Quest’opera vuole essere un invito a non indietreggiare durante la sfida, a non spaventarsi di fronte ad avversità e incognite, anche quando il senso di impotenza sembra prevalere sull’ipotesi di una “soluzione”.
Sempre in relazione al significato dell’ignoto e dell’incomprensibile, Taiabati espone fotografie si-lenziose, fatte di vapore, indefinibili. La nebbia diventa il soggetto principale, la montagna è ora uno stato d’animo dalle atmosfere rarefatte. Le immagini hanno contorni sfuocati, si compongono di assenze. L’Everest ha così perso l’elemento reale, ora lo si può scorgere solo attraverso uno sguardo immaginifico.
Un progetto che parte da una condizione personale è quello di Vania Pepe, Bathroom, un lavoro che prende spunto dall’idea di spazio riservato, intimo, dove l’individuo prova a raccogliersi e ritro-vare se stesso. La conquista del traguardo, in questo caso, corrisponde al tentativo di riappropria-zione del diritto all’isolamento, e del bisogno di difendere una dimensione vulnerabile.
Già dai titoli delle sue opere si può intuire il percorso artistico di Marco Andrighetto. Con Riposo e Salita l’artista ci conduce attraverso presenze in trasformazione, di forze contrastanti: generatrici e distruttrici. Particolare attenzione viene posta sulla natura intesa come “sistema di inconsapevole germinazione umana” e dove il segno rende le tele somiglianti a mappe terrestri.
16
febbraio 2008
Everest
16 febbraio 2008
arte contemporanea
serata - evento
serata - evento
Location
FONDAIR
Montebelluna, Via Piave, 116, (Treviso)
Montebelluna, Via Piave, 116, (Treviso)
Vernissage
16 Febbraio 2008, ore 21
Autore
Curatore