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Ewa-Mari Johansson – Mama Masài
Due diversi stili si combinano in questo lavoro. Emerge la notevole competenza dell’autrice nell’ambito della moda, che ha la capacità di osservare e cogliere le sue improvvisate modelle nere come se fossero ritratte in studio. Al taglio vagamente glamour si affianca il suo bisogno di raccontare i Masài con il metodo del reportage sociale. Per compiere il suo lavoro, Ewa-Mari Johannson ha vissuto quasi due mesi con questo popolo.
Comunicato stampa
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“Il mio primo contatto con Ewa-Mari Johansson avvenne nel 2004. Non fu diretto. Fu attraverso alcune sue immagini che erano un misto di pittura e fotografia, di geometrie e curve che mi incantò. Nero su bianco, così si intitolava quella piccola mostra allestita a Milano alla Galleria 70 di via Moscova. Erano nudi femminili eleganti e scultorei. Erano corpi flessuosi che prima di venire inquadrati erano stati dipinti da un artista svedese. Riquadri neri su carne bianca, che strana, organica morbidezza: questo fu il mio primo pensiero. Vedevo campiture spigolose ricoprire braccia, gambe, seni, quasi a voler interrompere le linee rotonde, continue del corpo. Era pura astrazione, esasperata dalle posture complesse delle modelle ritratte, eppure tutto sembrava perfetto, armonico, convincente. Mi persi nella poesia di quella sensibilissima interpretazione dell’universo donna, e mi chiesi chi si celasse dietro quell’occhio meccanico. Ewa-Mari Johansson e io ci conoscemmo di persona soltanto parecchio tempo dopo, in occasione di una sua successiva esposizione milanese. La sensazione di equilibrio e meraviglia di fronte a lei fu esattamente la stessa. Che si ripete ora scorrendo i suoi scatti realizzati in Africa.
Ewa-Mari è una persona semplice. Ti affronta avvolta dai suoi lunghi capelli biondi, ti sorride con occhi sereni e guizzanti e non ostenta la sua notevole esperienza in ambito artistico che l’ha portata ad occuparsi anche di documentari e a studiare produzione televisiva. Per molto tempo ha sperato di realizzare un reportage nel Continente Nero. Lo ha desiderato fortemente, come spesso accade per le cose che si pensa di non poter avere mai. E lo voleva realizzare a modo suo, focalizzando l’attenzione sulle donne. Ci è riuscita lo scorso anno, passando quasi due mesi con i Masài.
L’artista ha scelto di esprimersi il bianco e nero, come se i colori di quei paesi fossero di secondaria importanza rispetto allo spessore della gente e dei paesaggi. Come a voler sottolineare quanto sia più rilevante una ruga d’espressione che la tonalità di un tessuto. Nessun pietismo, niente retorica o romanticismi da romanzo. Le sue indigene sono carne e sangue e pensiero, sono regine orgogliose, mogli e madri che ridono insieme ai loro figli per questa curiosa esperienza. L’artista non parla mai della fame, delle carestie, dell’immenso dolore di questo continente. Sceglie invece di focalizzare l’attenzione sulla vita quotidiana. Riprende giovani o vecchie, belle o brutte, e tutte hanno lo stesso sguardo che viene dal cuore della madre terra. Osservandole si pensa la centralità dell’Africa, al suo ruolo secolare di contenitore fertile e pulsante di vita, come le belle signore che la abitano.
Due diversi stili si combinano in questo lavoro. Emerge la notevole competenza dell’autrice nell’ambito della moda, che ha la capacità di osservare e cogliere le sue improvvisate modelle nere come se fossero ritratte in studio. Al taglio vagamente glamour si affianca il suo bisogno di
raccontare i Masài con il metodo del reportage sociale. Per compiere il suo lavoro, Ewa-Mari Johannson ha vissuto quasi due mesi con questo popolo. La sola idea mi fa sorridere di gioia. Mi sono immaginata lei, alta, bionda, diafana, mescolarsi in mezzo a tutti questi contrasti. Me la sono vista portarsi a spasso la sua Hasselblad e tutto l’armamentario tecnologico nei villaggi, tra le pianure aspre, tra marmocchi vocianti. Vincendo le diffidenze, affidandosi a pochi scatti, si deve essere soffermata su molti occhi fieri, su gesti di ogni giorno tanto semplici da sembrare ancestrali. E li ha portati fino a noi, in un clic. Per raccontarci un’Africa vista dalle sue donne. Madri e mogli che rassettano casa, che badano agli animali domestici e stendono i panni al sole. Femmine affascinanti, spirituali, che con qualche ornamento e una stoffa annodata dietro la nuca sembrano decisamente più belle di noi.
Barbara Silbe
Barbara Silbe vive e lavora a Milano. Si occupa di critica fotografica per il quotidiano Il Giornale e collabora con diverse altre testate. Scrive principalmente di fotografia, arte, cultura, costume e turismo.
Fotografare il popolo indigeno dei Masài in Africa è stato per lungo tempo il sogno di Ewa-Mari Johansson, fotografa svedese conosciuta in particolare per il suo lavoro sulla fotografia d’arte e di moda. Tramite contatti con l’Associazione Maasai Swedish Partnership, ai vecchi dei 14 villaggi Masài della regione di Morogoro, è stato chiesto per Ewa-Mari il permesso di soggiornare presso di loro e fotografare la loro vita quotidiana. Dopo 6 mesi, la fotografa svedese ha ricevuto una risposta affermativa e, alla fine del 2006, è rimasta ospite nei villaggi Masài per quasi due mesi.
I villaggi Masài fotografati da Ewa-Mari Johansson si trovano all’interno del Tanzania, sulla strada da Dar es Salam a Dodoma. È un luogo difficile da raggiungere e, per questo, ancora oggi lontano dalle mete dei turisti. Appartenenti alla famiglia di gruppi tribali dei Niloti, i Masài non hanno mai abbandonato lo stile di vita semi-nomade e l'allevamento come principale fonte di sostentamento.
Nel corso del tempo, si sono suddivisi in due gruppi: una parte si è fermata a sud-ovest verso la zona del Serengheti ed è conosciuta dai turisti per i gioielli abilmente realizzati con perline multicolori; l’altra si è spostata ancora più a Sud, nella regione di Morogoro e, avendo avuto nel corso del tempo solo sporadici contatti con l’esterno, non utilizza vetri o perline colorati per confezionare i meravigliosi gioielli bianchi, ma perpetua l'antica tradizione che ha sempre usato ossa e altri materiali naturali.
In anni recenti, in particolare in seguito all'istituzione delle riserve nazionali del Masai Mara e del Serengeti, i Masài hanno visto ridursi sempre di più la libertà di movimento e di pascolo del bestiame. Ai giorni nostri, gli indomiti guerrieri, conosciuti oltre che per il loro coraggio anche per l’agilità con cui compiono incredibili balzi rituali, non possono più condurre vita nomade e sono costretti a restare in una zona circoscritta.
Ewa-Mari Johansson, introdotta da Angelika Masi-Geissner – moglie di Hans-Martin Geissner, Pastor for and toghether with the Maassai – che lavora quotidianamente con le donne Masài e non appartiene a nessuna congregazione o associazione, si è lasciata affascinare e ha fotografato il mondo delle donne Masài condividendo giorno e notte il loro quotidiano. Le donne Masài, di cui non abbiamo che poca documentazione, stanno vivendo con il loro popolo un sostanziale cambiamento di vita passando dal nomadismo alla stanzialità. Il graduale passaggio comporta un cambiamento di ruolo all’interno della tribù.
Le donne compiono più lavori, svolgono mansioni diverse e assumono un ruolo determinante all’interno del gruppo sociale. I villaggi non sono dotati di elettricità e i pozzi d’acqua distano da 1 a 70 km. Il portare l’acqua come occuparsi dei vitelli, mungere le mucche, costruire le case e raccogliere il legno, cucinare, accudire i bambini e infibulare le bambine a pubertà avvenuta, è compito delle donne. Le donne non hanno diritto di possedere terreni e, al momento del matrimonio, la famiglia del marito retribuisce quella della sposa con un certo numero di mucche. Se restano vedove e sono fortunate, vengono prese tra le mogli del fratello del marito defunto, ma non hanno la stessa importanza della prima moglie o quello che era il loro ruolo nella "buma"o villaggio. Ma nonostante la loro vita difficile, c'è tra le donne tanta solidarietà, orgoglio e gioia di vivere.
Ewa-Mari Johansson
Nata a Solveborg, in Svezia, Ewa-Mari Johansson si è formata alla New School di New York e alla UCLA di Los Angeles, studiando regia, produzione televisiva, fotografia e tecnica della camera oscura, e poi lavorando come assistant director presso Arnold Eagle, collaboratore di Man Ray. In Italia ha già esposto alla Galleria Il Diaframma di Milano (1992), alla Biennale di Fotografia nel Museo di Fiesole (1995), alla Galleria Sabatino di Roma (1998), al Museo dell’Arte e della Stampa Di Rovereto (1998)e al Castello dei Doria di Castelsardo, nel quadro delle manifestazioni per Genova 2004. Da segnalare, di recente, le mostre al Museo di Malmo (2001) e, nella stessa città, alla Galerie Rose Marie (2003) e al Form Design Center (2005). Ha partecipato alle edizioni della rassegna Photography in advertising, all’Audi Forum di Stoccolm (2003), di Berlino (2004) e di Monaco di Baviera (2004). Alla Galleria 70 di Milano Ewa-Mari Johansson ha esposto nel 2004 con la mostra Nero su Bianco, e nel 2006 con Più nudo. Nel 2007 ha esposto all’Orto Botanico di Bergamo. In programma il 20 marzo del 2008 una personale a Gothenburg.
Le foto della mostra sono in vendita. Il ricavato verrà destinato ai villaggi Masài fotografati da Ewa-Mari Johansson tramite l’Associazione Maasai Swedish Partnership.
Ewa-Mari è una persona semplice. Ti affronta avvolta dai suoi lunghi capelli biondi, ti sorride con occhi sereni e guizzanti e non ostenta la sua notevole esperienza in ambito artistico che l’ha portata ad occuparsi anche di documentari e a studiare produzione televisiva. Per molto tempo ha sperato di realizzare un reportage nel Continente Nero. Lo ha desiderato fortemente, come spesso accade per le cose che si pensa di non poter avere mai. E lo voleva realizzare a modo suo, focalizzando l’attenzione sulle donne. Ci è riuscita lo scorso anno, passando quasi due mesi con i Masài.
L’artista ha scelto di esprimersi il bianco e nero, come se i colori di quei paesi fossero di secondaria importanza rispetto allo spessore della gente e dei paesaggi. Come a voler sottolineare quanto sia più rilevante una ruga d’espressione che la tonalità di un tessuto. Nessun pietismo, niente retorica o romanticismi da romanzo. Le sue indigene sono carne e sangue e pensiero, sono regine orgogliose, mogli e madri che ridono insieme ai loro figli per questa curiosa esperienza. L’artista non parla mai della fame, delle carestie, dell’immenso dolore di questo continente. Sceglie invece di focalizzare l’attenzione sulla vita quotidiana. Riprende giovani o vecchie, belle o brutte, e tutte hanno lo stesso sguardo che viene dal cuore della madre terra. Osservandole si pensa la centralità dell’Africa, al suo ruolo secolare di contenitore fertile e pulsante di vita, come le belle signore che la abitano.
Due diversi stili si combinano in questo lavoro. Emerge la notevole competenza dell’autrice nell’ambito della moda, che ha la capacità di osservare e cogliere le sue improvvisate modelle nere come se fossero ritratte in studio. Al taglio vagamente glamour si affianca il suo bisogno di
raccontare i Masài con il metodo del reportage sociale. Per compiere il suo lavoro, Ewa-Mari Johannson ha vissuto quasi due mesi con questo popolo. La sola idea mi fa sorridere di gioia. Mi sono immaginata lei, alta, bionda, diafana, mescolarsi in mezzo a tutti questi contrasti. Me la sono vista portarsi a spasso la sua Hasselblad e tutto l’armamentario tecnologico nei villaggi, tra le pianure aspre, tra marmocchi vocianti. Vincendo le diffidenze, affidandosi a pochi scatti, si deve essere soffermata su molti occhi fieri, su gesti di ogni giorno tanto semplici da sembrare ancestrali. E li ha portati fino a noi, in un clic. Per raccontarci un’Africa vista dalle sue donne. Madri e mogli che rassettano casa, che badano agli animali domestici e stendono i panni al sole. Femmine affascinanti, spirituali, che con qualche ornamento e una stoffa annodata dietro la nuca sembrano decisamente più belle di noi.
Barbara Silbe
Barbara Silbe vive e lavora a Milano. Si occupa di critica fotografica per il quotidiano Il Giornale e collabora con diverse altre testate. Scrive principalmente di fotografia, arte, cultura, costume e turismo.
Fotografare il popolo indigeno dei Masài in Africa è stato per lungo tempo il sogno di Ewa-Mari Johansson, fotografa svedese conosciuta in particolare per il suo lavoro sulla fotografia d’arte e di moda. Tramite contatti con l’Associazione Maasai Swedish Partnership, ai vecchi dei 14 villaggi Masài della regione di Morogoro, è stato chiesto per Ewa-Mari il permesso di soggiornare presso di loro e fotografare la loro vita quotidiana. Dopo 6 mesi, la fotografa svedese ha ricevuto una risposta affermativa e, alla fine del 2006, è rimasta ospite nei villaggi Masài per quasi due mesi.
I villaggi Masài fotografati da Ewa-Mari Johansson si trovano all’interno del Tanzania, sulla strada da Dar es Salam a Dodoma. È un luogo difficile da raggiungere e, per questo, ancora oggi lontano dalle mete dei turisti. Appartenenti alla famiglia di gruppi tribali dei Niloti, i Masài non hanno mai abbandonato lo stile di vita semi-nomade e l'allevamento come principale fonte di sostentamento.
Nel corso del tempo, si sono suddivisi in due gruppi: una parte si è fermata a sud-ovest verso la zona del Serengheti ed è conosciuta dai turisti per i gioielli abilmente realizzati con perline multicolori; l’altra si è spostata ancora più a Sud, nella regione di Morogoro e, avendo avuto nel corso del tempo solo sporadici contatti con l’esterno, non utilizza vetri o perline colorati per confezionare i meravigliosi gioielli bianchi, ma perpetua l'antica tradizione che ha sempre usato ossa e altri materiali naturali.
In anni recenti, in particolare in seguito all'istituzione delle riserve nazionali del Masai Mara e del Serengeti, i Masài hanno visto ridursi sempre di più la libertà di movimento e di pascolo del bestiame. Ai giorni nostri, gli indomiti guerrieri, conosciuti oltre che per il loro coraggio anche per l’agilità con cui compiono incredibili balzi rituali, non possono più condurre vita nomade e sono costretti a restare in una zona circoscritta.
Ewa-Mari Johansson, introdotta da Angelika Masi-Geissner – moglie di Hans-Martin Geissner, Pastor for and toghether with the Maassai – che lavora quotidianamente con le donne Masài e non appartiene a nessuna congregazione o associazione, si è lasciata affascinare e ha fotografato il mondo delle donne Masài condividendo giorno e notte il loro quotidiano. Le donne Masài, di cui non abbiamo che poca documentazione, stanno vivendo con il loro popolo un sostanziale cambiamento di vita passando dal nomadismo alla stanzialità. Il graduale passaggio comporta un cambiamento di ruolo all’interno della tribù.
Le donne compiono più lavori, svolgono mansioni diverse e assumono un ruolo determinante all’interno del gruppo sociale. I villaggi non sono dotati di elettricità e i pozzi d’acqua distano da 1 a 70 km. Il portare l’acqua come occuparsi dei vitelli, mungere le mucche, costruire le case e raccogliere il legno, cucinare, accudire i bambini e infibulare le bambine a pubertà avvenuta, è compito delle donne. Le donne non hanno diritto di possedere terreni e, al momento del matrimonio, la famiglia del marito retribuisce quella della sposa con un certo numero di mucche. Se restano vedove e sono fortunate, vengono prese tra le mogli del fratello del marito defunto, ma non hanno la stessa importanza della prima moglie o quello che era il loro ruolo nella "buma"o villaggio. Ma nonostante la loro vita difficile, c'è tra le donne tanta solidarietà, orgoglio e gioia di vivere.
Ewa-Mari Johansson
Nata a Solveborg, in Svezia, Ewa-Mari Johansson si è formata alla New School di New York e alla UCLA di Los Angeles, studiando regia, produzione televisiva, fotografia e tecnica della camera oscura, e poi lavorando come assistant director presso Arnold Eagle, collaboratore di Man Ray. In Italia ha già esposto alla Galleria Il Diaframma di Milano (1992), alla Biennale di Fotografia nel Museo di Fiesole (1995), alla Galleria Sabatino di Roma (1998), al Museo dell’Arte e della Stampa Di Rovereto (1998)e al Castello dei Doria di Castelsardo, nel quadro delle manifestazioni per Genova 2004. Da segnalare, di recente, le mostre al Museo di Malmo (2001) e, nella stessa città, alla Galerie Rose Marie (2003) e al Form Design Center (2005). Ha partecipato alle edizioni della rassegna Photography in advertising, all’Audi Forum di Stoccolm (2003), di Berlino (2004) e di Monaco di Baviera (2004). Alla Galleria 70 di Milano Ewa-Mari Johansson ha esposto nel 2004 con la mostra Nero su Bianco, e nel 2006 con Più nudo. Nel 2007 ha esposto all’Orto Botanico di Bergamo. In programma il 20 marzo del 2008 una personale a Gothenburg.
Le foto della mostra sono in vendita. Il ricavato verrà destinato ai villaggi Masài fotografati da Ewa-Mari Johansson tramite l’Associazione Maasai Swedish Partnership.
13
gennaio 2009
Ewa-Mari Johansson – Mama Masài
Dal 13 gennaio al 16 febbraio 2009
fotografia
Location
FNAC
Grugliasco, Via Crea, 10, (Torino)
Grugliasco, Via Crea, 10, (Torino)
Orario di apertura
dalle 12 alle 22 - Mar-Sab: dalle 9 alle 22 1ª Dom del mese: dalle 9 alle 21
Autore
Curatore