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Ezio Tribbia – Pane di domani
Installando nel sottotetto di un luogo deputato al sacro i teli utilizzati dai fornai per porre il pane a lievitare, Tribbia innesca significati legati a una grammatica di lemmi segnici e di impronte, che dimorano nella presenza fisica e simbolica del pane.
Comunicato stampa
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Pane di domani
“Quando il mondo classico sarà esaurito,
quando saranno morti i contadini e tutti gli artigiani,
quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra storia sarà finita”
(Pier Paolo Pasolini)
Pasolini ci ha lasciato in eredità la maniera lucida di restare sempre al livello della realtà, per esprimere una specie di “ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita”1. Ogni opera artistica dovrebbe emanare un messaggio che includa anche “tutto ciò che l’autore non sa”2, l’imparlabile lasciato al silenzio e alla presenza dell’opera stessa. E questo rigore dello sguardo conduce a un approfondimento psicologico verso tutto ciò che “rende complicate le cose, contraddittori i fatti, difficili gli avvenimenti” - un prodotto che non sia mai solo spettacolo - che è poi da “rendere concreto, semplice, ottico, plastico, attraverso gli immediati strumenti dell’espressione artistica”3.
Ezio Tribbia, mettendo in ostensione un alfabeto del pane rimasto impresso sopra sudari dell’opera quotidiana di un fornaio, afferma al contempo sia la pratica “predestinata” di un lavoro ereditato dai suoi avi sia “il segno visibile di una realtà sacra”4, una forma visibile di qualcos’altro che è invisibile: “Una nazione che ricominci la sua storia ridà, prima di tutto, agli uomini, l’umiltà di assomigliare con innocenza ai padri. La tradizione è una grandezza che si può esprimere in un gesto. Mille padri lo videro, e attraverso loro nei secoli è diventato puro come il volo di un uccello, elementare come il moto di un’onda” (Pier Paolo Pasolini, La rabbia).
Il gesto semplice di un fornaio del proletariato si trasfigura in un progetto legato all’arte. Un progetto che dichiara di appartenere ancora al mondo classico, quello dei contadini e degli artigiani.
Installando nel sottotetto di un luogo deputato al sacro i teli utilizzati dai fornai per porre il pane a lievitare, Tribbia innesca significati legati a una grammatica di lemmi segnici e di impronte, che dimorano nella presenza fisica e simbolica del pane. Questa presenza diviene contemporaneamente sia immagine tangibile di un mistero sia “creatura” simbolica, dove convivono natura - poiché il grano è frutto della terra - e cultura, nel senso di conoscenza che permette di coltivare, in un processo di lavorazione dalla semina alla produzione del pane stesso. La corrispondenza tra il simbolo e la sua rappresentazione visibile e materiale è così stretta che si può repentinamente passare dall’uno all’altro.
Secondo Predrag Mavtejevic, chi desidera conoscere profondamente un popolo deve cibarsi del suo pane – qui inteso come specchio di cultura - perché è frutto della terra e della luce che ha nutrito la spiga, ma anche della cultura di chi ha lavorato una determinata terra e una specifica spiga. Il pane che sfama è più antico della scrittura: nasce dalla pietra e dalla cenere, ed è intimamente legato all'uomo, come in un rito di legatura archetipale. Guardando attentamente i graffiti rupestri possiamo leggere tra le righe che il pane si può considerare anche simbolo dell'evoluzione dei popoli, perché avviene un passaggio più evoluto dal pensiero dei cacciatori nomadi, che disegnano linee diritte, a quello ai seminatori stanziali, che invece adottano i segni a spirale e le forme chiuse, simboli del divenire circolare e della vita del ciclo agreste.
Nella tradizione cristiana il segno del pane incarna un sacramento: diviene terminologia ecclesiastica a opera di Tertulliano, il quale traduce in latino il termine “mistero” con “sacramentum”. Per Zwingli5, l’affermazione di Cristo “Io sono il pane della vita” (Giov. 6,48) vuol dire che egli rappresenta e simboleggia la vita stessa. Ma Tribbia vuole evocare, più che dichiarare significati “altri” rispetto a qualcosa che nasce dalla pratica quotidiana di un lavoro vissuto. L’ostensione dei teli di cotone utilizzati dai fornai, dove quotidianamente vengono deposte le palline di pasta del pane, diviene simulacro di qualcosa d’altro, al di là delle impronte indelebili, simbolo della produzione reiterata, di generazione in generazione, della trascorrenza temporale nella sacralità della vita. L’ostensione dei teli/sudari, scandita da un ritmo ripetitivo delle impronte, è giocata sulle micro-variazioni del segno materico, a metà strada tra il segno casuale e l’esecuzione controllata e condotta dalla volontà dell’artista: macchie, screpolature, muffe, stropicciature, segni sostanziali, bruciature, tutto concorre a una poetica ultrasottile di lievi spostamenti minimali ed essenziali. Come se fosse un flusso di coscienza, che svolge un compito non comprensibile fino in fondo, fra destino e libero arbitrio, un fare per produrre continuamente un alimento necessario, il pane di domani, nel segno di un desiderio vitalistico, scabro ed essenziale, come la semplice complessità della vita stessa. Nel solco di un neo-pasolinismo, dunque, per prendere consapevolezza lucida in un mondo che rifiuta la coscienza del suo male, in una società che “ha estetizzato la forma merce al punto di svendere anche la propria tragedia”. Un ritorno all’antica innocenza, per contrastare le certezze a buon mercato e la volgarità piccolo borghese, poiché non avvenga l’annullamento dell’identità personale a favore dell’identificazione con la maggioranza, perché “dovremmo ricominciare daccapo, da dove non c’è certezza”6.
Mauro Zanchi
“Quando il mondo classico sarà esaurito,
quando saranno morti i contadini e tutti gli artigiani,
quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra storia sarà finita”
(Pier Paolo Pasolini)
Pasolini ci ha lasciato in eredità la maniera lucida di restare sempre al livello della realtà, per esprimere una specie di “ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita”1. Ogni opera artistica dovrebbe emanare un messaggio che includa anche “tutto ciò che l’autore non sa”2, l’imparlabile lasciato al silenzio e alla presenza dell’opera stessa. E questo rigore dello sguardo conduce a un approfondimento psicologico verso tutto ciò che “rende complicate le cose, contraddittori i fatti, difficili gli avvenimenti” - un prodotto che non sia mai solo spettacolo - che è poi da “rendere concreto, semplice, ottico, plastico, attraverso gli immediati strumenti dell’espressione artistica”3.
Ezio Tribbia, mettendo in ostensione un alfabeto del pane rimasto impresso sopra sudari dell’opera quotidiana di un fornaio, afferma al contempo sia la pratica “predestinata” di un lavoro ereditato dai suoi avi sia “il segno visibile di una realtà sacra”4, una forma visibile di qualcos’altro che è invisibile: “Una nazione che ricominci la sua storia ridà, prima di tutto, agli uomini, l’umiltà di assomigliare con innocenza ai padri. La tradizione è una grandezza che si può esprimere in un gesto. Mille padri lo videro, e attraverso loro nei secoli è diventato puro come il volo di un uccello, elementare come il moto di un’onda” (Pier Paolo Pasolini, La rabbia).
Il gesto semplice di un fornaio del proletariato si trasfigura in un progetto legato all’arte. Un progetto che dichiara di appartenere ancora al mondo classico, quello dei contadini e degli artigiani.
Installando nel sottotetto di un luogo deputato al sacro i teli utilizzati dai fornai per porre il pane a lievitare, Tribbia innesca significati legati a una grammatica di lemmi segnici e di impronte, che dimorano nella presenza fisica e simbolica del pane. Questa presenza diviene contemporaneamente sia immagine tangibile di un mistero sia “creatura” simbolica, dove convivono natura - poiché il grano è frutto della terra - e cultura, nel senso di conoscenza che permette di coltivare, in un processo di lavorazione dalla semina alla produzione del pane stesso. La corrispondenza tra il simbolo e la sua rappresentazione visibile e materiale è così stretta che si può repentinamente passare dall’uno all’altro.
Secondo Predrag Mavtejevic, chi desidera conoscere profondamente un popolo deve cibarsi del suo pane – qui inteso come specchio di cultura - perché è frutto della terra e della luce che ha nutrito la spiga, ma anche della cultura di chi ha lavorato una determinata terra e una specifica spiga. Il pane che sfama è più antico della scrittura: nasce dalla pietra e dalla cenere, ed è intimamente legato all'uomo, come in un rito di legatura archetipale. Guardando attentamente i graffiti rupestri possiamo leggere tra le righe che il pane si può considerare anche simbolo dell'evoluzione dei popoli, perché avviene un passaggio più evoluto dal pensiero dei cacciatori nomadi, che disegnano linee diritte, a quello ai seminatori stanziali, che invece adottano i segni a spirale e le forme chiuse, simboli del divenire circolare e della vita del ciclo agreste.
Nella tradizione cristiana il segno del pane incarna un sacramento: diviene terminologia ecclesiastica a opera di Tertulliano, il quale traduce in latino il termine “mistero” con “sacramentum”. Per Zwingli5, l’affermazione di Cristo “Io sono il pane della vita” (Giov. 6,48) vuol dire che egli rappresenta e simboleggia la vita stessa. Ma Tribbia vuole evocare, più che dichiarare significati “altri” rispetto a qualcosa che nasce dalla pratica quotidiana di un lavoro vissuto. L’ostensione dei teli di cotone utilizzati dai fornai, dove quotidianamente vengono deposte le palline di pasta del pane, diviene simulacro di qualcosa d’altro, al di là delle impronte indelebili, simbolo della produzione reiterata, di generazione in generazione, della trascorrenza temporale nella sacralità della vita. L’ostensione dei teli/sudari, scandita da un ritmo ripetitivo delle impronte, è giocata sulle micro-variazioni del segno materico, a metà strada tra il segno casuale e l’esecuzione controllata e condotta dalla volontà dell’artista: macchie, screpolature, muffe, stropicciature, segni sostanziali, bruciature, tutto concorre a una poetica ultrasottile di lievi spostamenti minimali ed essenziali. Come se fosse un flusso di coscienza, che svolge un compito non comprensibile fino in fondo, fra destino e libero arbitrio, un fare per produrre continuamente un alimento necessario, il pane di domani, nel segno di un desiderio vitalistico, scabro ed essenziale, come la semplice complessità della vita stessa. Nel solco di un neo-pasolinismo, dunque, per prendere consapevolezza lucida in un mondo che rifiuta la coscienza del suo male, in una società che “ha estetizzato la forma merce al punto di svendere anche la propria tragedia”. Un ritorno all’antica innocenza, per contrastare le certezze a buon mercato e la volgarità piccolo borghese, poiché non avvenga l’annullamento dell’identità personale a favore dell’identificazione con la maggioranza, perché “dovremmo ricominciare daccapo, da dove non c’è certezza”6.
Mauro Zanchi
20
giugno 2009
Ezio Tribbia – Pane di domani
Dal 20 giugno al 19 luglio 2009
arte contemporanea
Location
BASILICA SANTA MARIA MAGGIORE
Bergamo, Piazza Duomo, (Bergamo)
Bergamo, Piazza Duomo, (Bergamo)
Orario di apertura
da lunedì a sabato: 10,30 – 12,30 / 14,30 – 17
domenica: 15 - 18
Vernissage
20 Giugno 2009, ore 16
Editore
LUBRINA
Autore
Curatore