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Fabio e Sergio Spataro
il ritorno in Sicilia di due artisti siciliani ma napoletani di adozione Fabio e Sergio Spataro
Comunicato stampa
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In questo viaggio nella terra degli dei e del mito si introducono con naturalezza le esperienze artistiche di Sergio e Fabio Spataro. Le opere sono state prodotte appositamente per questa mostra, dal titolo Tracce di memoria, immagini e miti, allestita nella galleria QAL’AT di Caltanissetta. Affianco dunque del mito, la memoria che altrettanto si presta a più angolazioni di lettura. Potrebbe in tal senso trattarsi della memoria del mito, o della memoria storica con tutte le sue implicazioni, o semplicemente di una memoria personale nella sua più privata dimensione narrativa. Va da sé, trattandosi di distinte esperienze, inoltrarsi nel confronto con l’opera, nella pagina creativa che li contraddistingue, luogo di quelle proiezioni immaginative con le quali l’arte tenta di svelare il mondo.
Da quanti anni conosco Sergio Spataro, in particolare il suo lavoro di pittore, “postumo” come lui ama definirsi con quel senso di ironia e di apparente dissacrazione che gli sono propri, credo di poter affermare che il fascino della mitologia assunta nella veste di rappresentazione simbolica, quanto l’operazione di scavo memoriale inteso come sondaggio antropologico, siano da considerarsi nodi centrali della sua quotidiana pratica pittorica. Se il punto di partenza più emblematico può considerarsi quel ciclo dei “sudari” cui aveva dato vita nella metà degli anni Ottanta, puntando sul valore del segno in costante dialogo con la materia cromatica, è quest’ultima ad avere assunto un ruolo conduttore nel suo lavoro a venire. In sostanza dal prelievo simbolico del sudario, dal suo valore di traccia imbastita sul filo delle assenze, depurata cioè dalle precedenti suggestioni oggettuali, Spataro è passato a caricare la materia cromatica, quale luogo di possibili, magmatici svelamenti interiori. L’artista ha vieppiù puntato infatti su una febbrile, quasi manierata, combinazione di essa, resa corposa attraverso l’uso di componenti extrapittoriche, cera, plastica, fuoco, rinnovando di volta in volta in quei nuclei fatti di corrosioni, frammentazioni, bruciature, nel corpo cioè interrogativo della pittura, la propensione a ricorrere a miti, leggende o simboli quali forme, figure cioè immaginative attraverso le quali colmare quel vuoto etico dal quale si sente evidentemente circondato. È il cammino che dai citati “sudari”, alla leggenda di Orlando, al significato alchemico della pietra filosofale, all’arcano del quadrato magico lo ha condotto all’attuale serie dei “golem”. Un passaggio che sul piano formale ha portato Spataro anche ad un recupero oggettuale del suo esercizio. Una traccia che oggi divenuta sostanza, nelle vesti di questi fantocci in lana d’acciaio, apparentabili alla secolare storia degli automi, parla ancora di un disagio, di un’inquietudine che l’artista lascia trasparire attraverso la capacità di far leva su immagini che appartengono alla sfera di una dimensione collettiva.
Giovanissima l’esperienza di Fabio Spataro già segnata da numerosi momenti di confronto, essa va riassunta sotto il segno di un’espressività impetuosa che può dirsi matrice di tutto il suo lavoro. Una pratica creativa la sua che se fino a qualche tempo fa ha privilegiato la grammatica della pittura, incluse le declinazioni del disegno e dell’incisione, recentemente vale a dire da un anno a questa parte, si è ricomposta alla luce di un’attenzione per l’oggetto. È un interesse che, già manifestatosi nei dipinti, penso a quella personale tenuta a Napoli nel 2002 dal titolo Oggettomagia, ha trovato attualmente una nuova formulazione espressiva. Dal piano della rappresentazione, dal carattere illusionistico proprio della pittura, l’artista ha trasferito il tutto sul versante della tangibilità. Un approdo che in qualche modo ha riguardato non solo il dettato formale, ma gli stessi contenuti. Voglio dire il prelievo iconico da un perimetro sollecitazioni familiari, reso attraverso il filtro immaginativo della narrazione, si è come ripiegato da un portato personale ad una dimensione meno circostanziata. Fabio ha allungato lo sguardo, raffreddando di contro la forza del colore, la corsività del segno. Ha, al contempo, riaffermato la presenza dell’oggetto assumendolo sotto il segno di un nuovo valore simbolico cui ha affidato anche uno spazio da abitare. È quanto appartiene alle sue teche, contenitori di materie lasciate sotto le spoglie di polveri colorate o di malleabile argilla cruda alle quali interpone segni, immagini appena sbozzate, reperti, tracce come è il caso di quella installazione composta da una sequenza di orme rosse impresse su pani di argilla naturale. È il suo modo di richiamarsi alla memoria della terra, al carattere simbolico della sua qualità generatrice e rigeneratrice. Una memoria richiamata come sostanza universale, fragile e concreta, trasparente e opaca, irta e accogliente come il cammino dell’uomo cui evidentemente allude.
Da quanti anni conosco Sergio Spataro, in particolare il suo lavoro di pittore, “postumo” come lui ama definirsi con quel senso di ironia e di apparente dissacrazione che gli sono propri, credo di poter affermare che il fascino della mitologia assunta nella veste di rappresentazione simbolica, quanto l’operazione di scavo memoriale inteso come sondaggio antropologico, siano da considerarsi nodi centrali della sua quotidiana pratica pittorica. Se il punto di partenza più emblematico può considerarsi quel ciclo dei “sudari” cui aveva dato vita nella metà degli anni Ottanta, puntando sul valore del segno in costante dialogo con la materia cromatica, è quest’ultima ad avere assunto un ruolo conduttore nel suo lavoro a venire. In sostanza dal prelievo simbolico del sudario, dal suo valore di traccia imbastita sul filo delle assenze, depurata cioè dalle precedenti suggestioni oggettuali, Spataro è passato a caricare la materia cromatica, quale luogo di possibili, magmatici svelamenti interiori. L’artista ha vieppiù puntato infatti su una febbrile, quasi manierata, combinazione di essa, resa corposa attraverso l’uso di componenti extrapittoriche, cera, plastica, fuoco, rinnovando di volta in volta in quei nuclei fatti di corrosioni, frammentazioni, bruciature, nel corpo cioè interrogativo della pittura, la propensione a ricorrere a miti, leggende o simboli quali forme, figure cioè immaginative attraverso le quali colmare quel vuoto etico dal quale si sente evidentemente circondato. È il cammino che dai citati “sudari”, alla leggenda di Orlando, al significato alchemico della pietra filosofale, all’arcano del quadrato magico lo ha condotto all’attuale serie dei “golem”. Un passaggio che sul piano formale ha portato Spataro anche ad un recupero oggettuale del suo esercizio. Una traccia che oggi divenuta sostanza, nelle vesti di questi fantocci in lana d’acciaio, apparentabili alla secolare storia degli automi, parla ancora di un disagio, di un’inquietudine che l’artista lascia trasparire attraverso la capacità di far leva su immagini che appartengono alla sfera di una dimensione collettiva.
Giovanissima l’esperienza di Fabio Spataro già segnata da numerosi momenti di confronto, essa va riassunta sotto il segno di un’espressività impetuosa che può dirsi matrice di tutto il suo lavoro. Una pratica creativa la sua che se fino a qualche tempo fa ha privilegiato la grammatica della pittura, incluse le declinazioni del disegno e dell’incisione, recentemente vale a dire da un anno a questa parte, si è ricomposta alla luce di un’attenzione per l’oggetto. È un interesse che, già manifestatosi nei dipinti, penso a quella personale tenuta a Napoli nel 2002 dal titolo Oggettomagia, ha trovato attualmente una nuova formulazione espressiva. Dal piano della rappresentazione, dal carattere illusionistico proprio della pittura, l’artista ha trasferito il tutto sul versante della tangibilità. Un approdo che in qualche modo ha riguardato non solo il dettato formale, ma gli stessi contenuti. Voglio dire il prelievo iconico da un perimetro sollecitazioni familiari, reso attraverso il filtro immaginativo della narrazione, si è come ripiegato da un portato personale ad una dimensione meno circostanziata. Fabio ha allungato lo sguardo, raffreddando di contro la forza del colore, la corsività del segno. Ha, al contempo, riaffermato la presenza dell’oggetto assumendolo sotto il segno di un nuovo valore simbolico cui ha affidato anche uno spazio da abitare. È quanto appartiene alle sue teche, contenitori di materie lasciate sotto le spoglie di polveri colorate o di malleabile argilla cruda alle quali interpone segni, immagini appena sbozzate, reperti, tracce come è il caso di quella installazione composta da una sequenza di orme rosse impresse su pani di argilla naturale. È il suo modo di richiamarsi alla memoria della terra, al carattere simbolico della sua qualità generatrice e rigeneratrice. Una memoria richiamata come sostanza universale, fragile e concreta, trasparente e opaca, irta e accogliente come il cammino dell’uomo cui evidentemente allude.
02
ottobre 2004
Fabio e Sergio Spataro
Dal 02 al 16 ottobre 2004
arte contemporanea
Location
QAL’AT
Caltanissetta, Corso Umberto, 221, (Caltanissetta)
Caltanissetta, Corso Umberto, 221, (Caltanissetta)
Orario di apertura
18.00/20.00 chiuso Domenica e Lunedì
Vernissage
2 Ottobre 2004, ore 18.30
Autore
Curatore