Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Fabio Rocca
Mostra personale
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Fabio Rocca è Fabio Rocca
Dove collochiamo Fabio Rocca, se non nello spazio, nelle intenzionalità e nelle maniere poietiche che
sono propri di Fabio Rocca? Certamente ci sono cento e più ragioni per ravvisarne la prossimità con le
situazioni moderne, postmoderne e transmoderne (con tutti quegli ambiti dell’aniconismo
dell’informale, del neoinformale e del postinformale, con tutti quei movimenti e raggruppamenti
maggiori, minori e minimi del secondo Novecento invischiati nelle tensioni ludiche e destrutturative
della materialità, per andare ad appuntamenti godibili con le esperienze della precarietà,
dell’impalpabilità, della magmaticità, dei ritmi vibratili del mondo come macroevento). Ma ci sono
altrettante o più ragioni per dover rilevare forti spartiacque rispetto a quegli ambiti, ragioni che si
richiamano a istanze libertarie e utopiche dell’artista e dell’uomo, a sue frequentazioni (irriducibilmente
ribelli) di deserti selenitici che egli attraversa con la gioiosa meraviglia di chi si libera passo dopo passo
di immagini ghiacciate e ingombranti preconfezionate per mortificare la fantasia. Queste sue escursioni
extravagantes sono nell’intimo del suo Super-io giustificate come fisiologiche in rapporto al crollo
ignominioso delle grandi narrazioni e delle grandi ermeneutiche di spiegazione della storia e delle sue
contraddizioni e del dilagare, di contro, della banalità e della volgarità sugli scenari dell’attualità. Ma
questo è quello che lui sa e che lui narra/rinarra a sé stesso. In realtà, quello che ognuno di noi sa di sé è
soltanto un insieme di immagini che surnuotano sul lago della nostra (falsa, direbbe Freud) coscienza.
Sotterraneamente e in genere inconsapevolmente siamo manipolati da spinte e da forze misteriose. E
l’Altro, che lavora Rocca, è la forza irresistibile dell’enigmaticità e della volontà di riscatto dalle
concrezioni passive e dalle coazioni generate dalla illibertà al potere nel quotidiano, oltre che
nell’ordine esistente delle cose. In Rocca, c’è come uno zoccolo duro abitato da sollecitazioni di rivolta
(stirnerianamente) indirizzate al riscatto dell’individuo come attore essenziale delle vicende e misura di
tutte le cose, come si potrebbe dire con modulo protagoreo, a cui nulla è garantito in partenza e che in
ultimo può essere esposto, è esposto al nulla e all’insignificanza.
L’ammissione e il riconoscimento del vuoto, però, non sono il vuoto. Sono dei lancinanti avvisi e inviti
a cercare agganci. E l’aggancio fondamentale per Rocca è l’arte non come feticcio, quella che si scrive
con la A maiuscola, ma come campo di prova sportivamente dilettosa di un modo di esistere, di
respirare, di sognare, di usare il giorno e la sua luce. Di frequentare la modernità come spazio di libertà
e di sfide alla fantasia. Rocca potrebbe fare sue le parole di Burri: “Questa [= la mia pittura] è […] una
presenza nello stesso tempo imminente e attiva. Questo è quanto essa significa: esistere così come
dipingere. La mia pittura è una realtà che è parte di me stesso, una realtà che non posso rivelare con
parole”.
Per Rocca, un nodo forte stringe vita e pittura, con effetti di transfert. Vivere è fare pittura, reinventare
in proprio la pittura; dipingere, quindi, è vivere di volta in volta una situazione pittorica, aiutarla a
definirsi e a riconoscersi. Quasi come nei situazionisti, per i quali l’arte era occasione per ritrovarsi
altrove, al di là degli stessi calcoli mentali e soprattutto al di là delle avvolgenti e ingessanti pratiche
economiche e politiche. Per Rocca, infatti, il risultato finale, quella che un giorno si chiamava l’opera, è
destituito di ogni valore di scambio e di mercato. La cosa è fatta semplicemente per saggiare il grado di
meraviglia e l’abilità dell’artista. La cosa fatta, se ha un senso, è nelle occasioni che essa offre di
osservare l’epifania di un aspetto prima inedito al mondo, l’apparizione di un profilo che invita a
procedere oltre, che smuove fantasie, che induce all’ avventura e al sogno.
La pittura di Fabio Rocca scorre su un piano inclinato, per appunti e scene di viaggio, secondo il ritmo
esistenziale di un flaneur, in senso baudelairianowildiano, che interroga i luoghi per diversioni e
curiosità suggerite dal caso o dall’insorgere provocatorio di un dettaglio inatteso. Ed ecco che trova
puntualmente dietro l’angolo qualcosa che lo aspettava o, meglio, che lui si aspettava, perché il suo
trovare discende quasi automaticamente da un messaggio, da un’indicazione cogente dati dal
collegamento con un satellite spaziale. Così, egli va dove è portato da un richiamo non della cosa, che
preesiste, ma da un’informazione laterale, terza, che sa quello che ancora lui non sa, ma che è
intimamente prefigurato e un po’ accarezzato sotto la soglia della sua coscienza.
In pieno candore di disinteresse, intanto, egli viene a contatto con ciò che sta dietro la facciata della
quotidianità e delle immagini codificate della natura delle cose, e aiuta anche gli altri a vedere questi
squarci che ordinariamente non si concedono al tatto e alla vista. Nello stesso tempo, egli conferma, per
tale via, l’attualità suggestiva della tradizione del nuovo, il suo trapiantarsi e gioire nelle possibilità
tensive del colore e della luce, il suo continuare a essere nel quadro e fuori del quadro, il lievitare
dell’imprevisto in ogni azione e situazione inedita, il rappresentarsi del pensiero da tergo di suggestioni
che affiorano venendo da lontano.
Ugo Piscopo
Fabio Rocca nasce ad Alcamo, in Sicilia, ma si trasferisce presto a Napoli per compiere gli studi universitari. Gli
anni trascorsi all'“Orientale” lo vedono impegnato nelle lotte sociali e politiche del '68 che lasceranno tracce nella
sua formazione. Alla prima laurea in Lingue e letterature straniere segue dopo alcuni anni una seconda in
Psicologia, che probabilmente lo aiuta a definire meglio i contorni emotivi della propria arte. La prima propensione
alla pittura nasce dalla commozione provata, poco più che adolescente, davanti alle tele dei grandi maestri nei musei
del Nord Europa. Sarà solo alla fine degli anni Settanta, tuttavia, che si cimenterà nelle prime opere, cominciando a
esporre in varie mostre in Italia e all'estero. Una filosofia di vita tutta siciliana, che solo i superficiali potrebbero
definire pigrizia, lo ha indotto a esporre, finora, con molta parsimonia, nella convinzione che la forza dei suoi segni
possa vincere la caducità della memoria anche senza la ripetitività dello sguardo.
Dove collochiamo Fabio Rocca, se non nello spazio, nelle intenzionalità e nelle maniere poietiche che
sono propri di Fabio Rocca? Certamente ci sono cento e più ragioni per ravvisarne la prossimità con le
situazioni moderne, postmoderne e transmoderne (con tutti quegli ambiti dell’aniconismo
dell’informale, del neoinformale e del postinformale, con tutti quei movimenti e raggruppamenti
maggiori, minori e minimi del secondo Novecento invischiati nelle tensioni ludiche e destrutturative
della materialità, per andare ad appuntamenti godibili con le esperienze della precarietà,
dell’impalpabilità, della magmaticità, dei ritmi vibratili del mondo come macroevento). Ma ci sono
altrettante o più ragioni per dover rilevare forti spartiacque rispetto a quegli ambiti, ragioni che si
richiamano a istanze libertarie e utopiche dell’artista e dell’uomo, a sue frequentazioni (irriducibilmente
ribelli) di deserti selenitici che egli attraversa con la gioiosa meraviglia di chi si libera passo dopo passo
di immagini ghiacciate e ingombranti preconfezionate per mortificare la fantasia. Queste sue escursioni
extravagantes sono nell’intimo del suo Super-io giustificate come fisiologiche in rapporto al crollo
ignominioso delle grandi narrazioni e delle grandi ermeneutiche di spiegazione della storia e delle sue
contraddizioni e del dilagare, di contro, della banalità e della volgarità sugli scenari dell’attualità. Ma
questo è quello che lui sa e che lui narra/rinarra a sé stesso. In realtà, quello che ognuno di noi sa di sé è
soltanto un insieme di immagini che surnuotano sul lago della nostra (falsa, direbbe Freud) coscienza.
Sotterraneamente e in genere inconsapevolmente siamo manipolati da spinte e da forze misteriose. E
l’Altro, che lavora Rocca, è la forza irresistibile dell’enigmaticità e della volontà di riscatto dalle
concrezioni passive e dalle coazioni generate dalla illibertà al potere nel quotidiano, oltre che
nell’ordine esistente delle cose. In Rocca, c’è come uno zoccolo duro abitato da sollecitazioni di rivolta
(stirnerianamente) indirizzate al riscatto dell’individuo come attore essenziale delle vicende e misura di
tutte le cose, come si potrebbe dire con modulo protagoreo, a cui nulla è garantito in partenza e che in
ultimo può essere esposto, è esposto al nulla e all’insignificanza.
L’ammissione e il riconoscimento del vuoto, però, non sono il vuoto. Sono dei lancinanti avvisi e inviti
a cercare agganci. E l’aggancio fondamentale per Rocca è l’arte non come feticcio, quella che si scrive
con la A maiuscola, ma come campo di prova sportivamente dilettosa di un modo di esistere, di
respirare, di sognare, di usare il giorno e la sua luce. Di frequentare la modernità come spazio di libertà
e di sfide alla fantasia. Rocca potrebbe fare sue le parole di Burri: “Questa [= la mia pittura] è […] una
presenza nello stesso tempo imminente e attiva. Questo è quanto essa significa: esistere così come
dipingere. La mia pittura è una realtà che è parte di me stesso, una realtà che non posso rivelare con
parole”.
Per Rocca, un nodo forte stringe vita e pittura, con effetti di transfert. Vivere è fare pittura, reinventare
in proprio la pittura; dipingere, quindi, è vivere di volta in volta una situazione pittorica, aiutarla a
definirsi e a riconoscersi. Quasi come nei situazionisti, per i quali l’arte era occasione per ritrovarsi
altrove, al di là degli stessi calcoli mentali e soprattutto al di là delle avvolgenti e ingessanti pratiche
economiche e politiche. Per Rocca, infatti, il risultato finale, quella che un giorno si chiamava l’opera, è
destituito di ogni valore di scambio e di mercato. La cosa è fatta semplicemente per saggiare il grado di
meraviglia e l’abilità dell’artista. La cosa fatta, se ha un senso, è nelle occasioni che essa offre di
osservare l’epifania di un aspetto prima inedito al mondo, l’apparizione di un profilo che invita a
procedere oltre, che smuove fantasie, che induce all’ avventura e al sogno.
La pittura di Fabio Rocca scorre su un piano inclinato, per appunti e scene di viaggio, secondo il ritmo
esistenziale di un flaneur, in senso baudelairianowildiano, che interroga i luoghi per diversioni e
curiosità suggerite dal caso o dall’insorgere provocatorio di un dettaglio inatteso. Ed ecco che trova
puntualmente dietro l’angolo qualcosa che lo aspettava o, meglio, che lui si aspettava, perché il suo
trovare discende quasi automaticamente da un messaggio, da un’indicazione cogente dati dal
collegamento con un satellite spaziale. Così, egli va dove è portato da un richiamo non della cosa, che
preesiste, ma da un’informazione laterale, terza, che sa quello che ancora lui non sa, ma che è
intimamente prefigurato e un po’ accarezzato sotto la soglia della sua coscienza.
In pieno candore di disinteresse, intanto, egli viene a contatto con ciò che sta dietro la facciata della
quotidianità e delle immagini codificate della natura delle cose, e aiuta anche gli altri a vedere questi
squarci che ordinariamente non si concedono al tatto e alla vista. Nello stesso tempo, egli conferma, per
tale via, l’attualità suggestiva della tradizione del nuovo, il suo trapiantarsi e gioire nelle possibilità
tensive del colore e della luce, il suo continuare a essere nel quadro e fuori del quadro, il lievitare
dell’imprevisto in ogni azione e situazione inedita, il rappresentarsi del pensiero da tergo di suggestioni
che affiorano venendo da lontano.
Ugo Piscopo
Fabio Rocca nasce ad Alcamo, in Sicilia, ma si trasferisce presto a Napoli per compiere gli studi universitari. Gli
anni trascorsi all'“Orientale” lo vedono impegnato nelle lotte sociali e politiche del '68 che lasceranno tracce nella
sua formazione. Alla prima laurea in Lingue e letterature straniere segue dopo alcuni anni una seconda in
Psicologia, che probabilmente lo aiuta a definire meglio i contorni emotivi della propria arte. La prima propensione
alla pittura nasce dalla commozione provata, poco più che adolescente, davanti alle tele dei grandi maestri nei musei
del Nord Europa. Sarà solo alla fine degli anni Settanta, tuttavia, che si cimenterà nelle prime opere, cominciando a
esporre in varie mostre in Italia e all'estero. Una filosofia di vita tutta siciliana, che solo i superficiali potrebbero
definire pigrizia, lo ha indotto a esporre, finora, con molta parsimonia, nella convinzione che la forza dei suoi segni
possa vincere la caducità della memoria anche senza la ripetitività dello sguardo.
09
marzo 2010
Fabio Rocca
Dal 09 marzo al 05 aprile 2010
arte contemporanea
Location
MOVIMENTO APERTO
Napoli, Via Duomo, 290/C, (Napoli)
Napoli, Via Duomo, 290/C, (Napoli)
Orario di apertura
giovedì e venerdì, dalle ore 17.30 alle 19.30, martedì e sabato dalle ore 10.30 alle 12.30 e dalle 17.30 alle ore 19.30.
Vernissage
9 Marzo 2010, ore 18
Sito web
www.fabiorocca.eu
Autore