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Fabrizio Costanzo / Francesco Pintaudi
In esposizione 40 opere – olii su tela e su tavola, installazioni, tecniche miste, oggetti di legno
Comunicato stampa
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L’arte si occupa della vita. Cosa facciamo nell’arte?
Resuscitiamo la vita”
V. Sklovskij
La sfida della memoria
Tracce. Orizzonti minimi. Intrinsecamente fragili. Il tempo, non dà loro requie. Intrinsecamente forti, capaci di reggere a quel logorio incessante, ed affermare, la loro volontà di permanere. Il risultato di questa lotta titanica è la memoria. E l’arte è la sua spada sguainata, il suo esercito sempre in cammino, il suo baluardo. Il compito tout court dell’artista quello di palesarne lo spessore - per similitudine o per contrasto, recuperando o distruggendo - ripensando nel proprio linguaggio, le esperienze del sé e di mille altri sé. Un ruolo che, rispondendo ad una pulsione senza nome, non si dà consapevolmente - scrive Baziotes “Ogni dipinto ha il suo proprio particolare modo di evolvere. Solo quando è finito il soggetto svela se stesso”- e finisce per assumere e riassumere in sé. La sfida della memoria, tuttavia - il suo richiamo ad essere “responsabilmente al mondo”- è rivolta ad ogni singolo individuo: non c’è esperienza umana, forma di società, epoca, che possa esimersi dal raccoglierla. La nostra in particolare, grazie anche alla tecnologia, all’ausilio di “memorie artificiali”- prive di materia vibrante, di tenerezza, d’audacia, di dolore, capaci di contenere in un pugno di megabyte tutte le conoscenze e le esperienze accumulate fino ad oggi - sembrerebbe privilegiata, rispetto al passato, vincente in questa “sfida”. Ma ahimé - e qui ci tocca scomodare la retorica - siamo costretti a riconoscere la tragica smemoratezza di noi contemporanei, la nostra “coazione a ripetere” molti degli errori e delle nefandezze che il passato, neppure tanto remoto, ci ha consegnato.
Scrive Delacroix “Ciò che muove gli uomini d’ingegno, o meglio ciò che ispira il loro lavoro, non sono le idee nuove ma l’ossessione che quello che è già stato detto non è ancora abbastanza” .
Sembra essere questo, il credo che accomuna i due pittori, nella diversità delle scelte stilistiche: nelle loro “Tracce” non v’è segnale di estemporaneità nella riflessione o distaccata interazione con il proprio tempo e non perché siano dei tradizionalisti, piuttosto si muovono con coerenza, con lucidità e profondità, senza contraddizioni né sbavature, nel solco della memoria.
“E chiudo gli occhi per vedere”( Paul Gauguin): Francesco Pintaudi
Classe 1955. Cerca la vita Pintaudi e la ritrova sempre: la raccoglie, la svela, la custodisce. È un cultore della memoria. Ha costruito una lunga parabola artistica, che mescola passato e presente, dialogando ora con la pensosa bellezza degli eroi ellenici, ora con il travaglio e lo splendore della sua Palermo, mostrandocene ogni angolo significativo. Ed ora, al culmine della sua esperienza, concentra il suo sguardo su quanto vi sia di più impermanente e sfuggente, su “memorie minime” nascoste nella trama complessa di tracce lasciate sull’asfalto: involontarie, inconsapevoli, segni di un passaggio di uomini, un residuo, uno scarto delle loro occupazioni. Cerca di dare loro un significato, un senso. Se è vero che nascono da un puro caso, nella mente dell’artista il caso è sempre epifania, incipit, rebus che attende d’essere risolto.
La strada riflette l’uomo e il suo moto perpetuo: è la lastra fotografica dell’artista, sensibilissima, attraverso cui ci restituisce delle istantanee di lunghe ore di giochi infantili, di passeggiate in bicicletta, con il loro andamento giocoso e meditativo - un esercitare lo sguardo senza fretta, abbracciando il paesaggio per assaporare il mondo, allungare, indefinita- mente, il proprio tempo interiore (Marciapiede, Pista ciclabile). E poi, al polo opposto c’è l’andamento convulso di folli corse di macchine e delle loro brusche sterzate, presagio di una tragedia sfiorata, (L’ultima trincea, Scontro sulla A 29), o piuttosto di una tragedia troppo presto dimenticata ( A 29, andata e ritorno) – barbarie d’indifferenza, negazione dello sguardo, un andare senza meta, rabbioso. Ci narra di mille passi, che si stratificano, si sommano gli uni agli altri. Procedendo per accumulo, senza distillare. All’asfalto tuttavia sa togliere ogni asprezza, regalandogli una tavolozza intensa, che tocca le sfumature delle stagioni e il riverbero di tutte le ore del giorno. Gli sottrae orizzontalità ( 165/70R15GT3) e lo fa inerpicare fino a diventare muro, muraglia, argine, siepe, bosco. C’è concitazione e calma, cinestesia dell’andare e tornare sui propri passi. C’è fuga, silenzio, un richiamo amoroso, c’è un ripensamento, un chinarsi in terra, uno scalpiccio, come di danza. “L’arte - scrisse Paul Klee - non riproduce il visibile; piuttosto crea il visibile”. E Pintaudi riesce a mostrarci come riconoscere, in ogni segno impresso sul mondo, pulsioni, gioie e paure, lasciandoci testimonianza della sua unica, umanissima, “traccia”, lanciata dinamica- mente verso il futuro.
“Il migliore dei mondi possibili”: Fabrizio Costanzo
Classe 1961. Le sue “tracce” sembrano scaturire da un tempo insolito per la mente: un tempo assorto, generatore di gesti sapientemente ricercati, privi di qualsivoglia nevrosi compositiva. Hanno piuttosto l’andamento di un “Pianissimo”, tra le case dei suoi borghi (Borgo Macina, Terra antica del Buon Governo, Oltre l’orizzonte, Borgo Sapienza, Litosfera), si dipanano con la lentezza di chi pizzica uno strumento, alla ricerca di un accordo: sono esse stesse pentagramma, su cui le sue ”matite pensanti”- metafora di una multiforme operosità - scrivono le note di una rapsodia. Costanzo muove sinergicamente tutti i sensi dell’anima, senza mai indugiare in un puro esercizio di stile, senza adagiarsi nel compiacimento della propria misura cromatica: rivela i tumulti dell’anima, disseminati dovunque nella fragilità intrinseca delle sue laboriose architetture. Nella loro trama, complessa e densa, nella fioritura compulsiva di segni e simboli - sia che abitino assolate regioni terrestri (Isola Sole, Sotto il cielo di Gerusalemme), o che siano proiettate al limitare di cieli “impossibili” ( L’isola di Vincent) - riflettono tutte l’attesa spasmodica di un nuovo patto d’armonia, di un armistizio.
Attraversando questo microcosmo ci s’imbatte in notturni assolati (La fonte del cielo) in commiati e dolorose assenze ( L’attenzione), in gioie purissime (La felicità) in memorie e versi – secretati in preziosi rotoli (Ricordi, Quando sarò grande), vivificati dalla linfa dei suoi prodigi vegetali ( L’albero delle idee). E dietro a tutto ciò, si respira la malinconia di non poter affidare ai propri contemporanei “le chiavi delle sue città”, di non poter aprire le porte e le finestre ad una umanità che sappia abitarvi, senza condurla alla rovina. Ma la luce stempera ogni cosa: rende possibile al cielo e al mare di riflettere il verde dei prati - il colore della speranza, rafforza la sacralità della terra, conferendo al tutto un moto irresistibilmente ascen- dente, verticale indissolubile, tensione spirituale squisitamente laica ed ironica, che restituisce autorevolezza all’arte e rende preponderante il ruolo dell’artista, ridefinendone la progettualità di un mondo che possa essere “il migliore possibile”. Se è vero – come scrive Luigi Zoja- che “il brutto è immorale (…) una ferita inferta all’anima”, si avverte perfettamente, nel lavoro di Costanzo, l’imperativo di dovere restituire al nostro tempo - ed alla sua “bruttezza” imperante - il risarcimento “etico” della bellezza.
Andrea Greco
Resuscitiamo la vita”
V. Sklovskij
La sfida della memoria
Tracce. Orizzonti minimi. Intrinsecamente fragili. Il tempo, non dà loro requie. Intrinsecamente forti, capaci di reggere a quel logorio incessante, ed affermare, la loro volontà di permanere. Il risultato di questa lotta titanica è la memoria. E l’arte è la sua spada sguainata, il suo esercito sempre in cammino, il suo baluardo. Il compito tout court dell’artista quello di palesarne lo spessore - per similitudine o per contrasto, recuperando o distruggendo - ripensando nel proprio linguaggio, le esperienze del sé e di mille altri sé. Un ruolo che, rispondendo ad una pulsione senza nome, non si dà consapevolmente - scrive Baziotes “Ogni dipinto ha il suo proprio particolare modo di evolvere. Solo quando è finito il soggetto svela se stesso”- e finisce per assumere e riassumere in sé. La sfida della memoria, tuttavia - il suo richiamo ad essere “responsabilmente al mondo”- è rivolta ad ogni singolo individuo: non c’è esperienza umana, forma di società, epoca, che possa esimersi dal raccoglierla. La nostra in particolare, grazie anche alla tecnologia, all’ausilio di “memorie artificiali”- prive di materia vibrante, di tenerezza, d’audacia, di dolore, capaci di contenere in un pugno di megabyte tutte le conoscenze e le esperienze accumulate fino ad oggi - sembrerebbe privilegiata, rispetto al passato, vincente in questa “sfida”. Ma ahimé - e qui ci tocca scomodare la retorica - siamo costretti a riconoscere la tragica smemoratezza di noi contemporanei, la nostra “coazione a ripetere” molti degli errori e delle nefandezze che il passato, neppure tanto remoto, ci ha consegnato.
Scrive Delacroix “Ciò che muove gli uomini d’ingegno, o meglio ciò che ispira il loro lavoro, non sono le idee nuove ma l’ossessione che quello che è già stato detto non è ancora abbastanza” .
Sembra essere questo, il credo che accomuna i due pittori, nella diversità delle scelte stilistiche: nelle loro “Tracce” non v’è segnale di estemporaneità nella riflessione o distaccata interazione con il proprio tempo e non perché siano dei tradizionalisti, piuttosto si muovono con coerenza, con lucidità e profondità, senza contraddizioni né sbavature, nel solco della memoria.
“E chiudo gli occhi per vedere”( Paul Gauguin): Francesco Pintaudi
Classe 1955. Cerca la vita Pintaudi e la ritrova sempre: la raccoglie, la svela, la custodisce. È un cultore della memoria. Ha costruito una lunga parabola artistica, che mescola passato e presente, dialogando ora con la pensosa bellezza degli eroi ellenici, ora con il travaglio e lo splendore della sua Palermo, mostrandocene ogni angolo significativo. Ed ora, al culmine della sua esperienza, concentra il suo sguardo su quanto vi sia di più impermanente e sfuggente, su “memorie minime” nascoste nella trama complessa di tracce lasciate sull’asfalto: involontarie, inconsapevoli, segni di un passaggio di uomini, un residuo, uno scarto delle loro occupazioni. Cerca di dare loro un significato, un senso. Se è vero che nascono da un puro caso, nella mente dell’artista il caso è sempre epifania, incipit, rebus che attende d’essere risolto.
La strada riflette l’uomo e il suo moto perpetuo: è la lastra fotografica dell’artista, sensibilissima, attraverso cui ci restituisce delle istantanee di lunghe ore di giochi infantili, di passeggiate in bicicletta, con il loro andamento giocoso e meditativo - un esercitare lo sguardo senza fretta, abbracciando il paesaggio per assaporare il mondo, allungare, indefinita- mente, il proprio tempo interiore (Marciapiede, Pista ciclabile). E poi, al polo opposto c’è l’andamento convulso di folli corse di macchine e delle loro brusche sterzate, presagio di una tragedia sfiorata, (L’ultima trincea, Scontro sulla A 29), o piuttosto di una tragedia troppo presto dimenticata ( A 29, andata e ritorno) – barbarie d’indifferenza, negazione dello sguardo, un andare senza meta, rabbioso. Ci narra di mille passi, che si stratificano, si sommano gli uni agli altri. Procedendo per accumulo, senza distillare. All’asfalto tuttavia sa togliere ogni asprezza, regalandogli una tavolozza intensa, che tocca le sfumature delle stagioni e il riverbero di tutte le ore del giorno. Gli sottrae orizzontalità ( 165/70R15GT3) e lo fa inerpicare fino a diventare muro, muraglia, argine, siepe, bosco. C’è concitazione e calma, cinestesia dell’andare e tornare sui propri passi. C’è fuga, silenzio, un richiamo amoroso, c’è un ripensamento, un chinarsi in terra, uno scalpiccio, come di danza. “L’arte - scrisse Paul Klee - non riproduce il visibile; piuttosto crea il visibile”. E Pintaudi riesce a mostrarci come riconoscere, in ogni segno impresso sul mondo, pulsioni, gioie e paure, lasciandoci testimonianza della sua unica, umanissima, “traccia”, lanciata dinamica- mente verso il futuro.
“Il migliore dei mondi possibili”: Fabrizio Costanzo
Classe 1961. Le sue “tracce” sembrano scaturire da un tempo insolito per la mente: un tempo assorto, generatore di gesti sapientemente ricercati, privi di qualsivoglia nevrosi compositiva. Hanno piuttosto l’andamento di un “Pianissimo”, tra le case dei suoi borghi (Borgo Macina, Terra antica del Buon Governo, Oltre l’orizzonte, Borgo Sapienza, Litosfera), si dipanano con la lentezza di chi pizzica uno strumento, alla ricerca di un accordo: sono esse stesse pentagramma, su cui le sue ”matite pensanti”- metafora di una multiforme operosità - scrivono le note di una rapsodia. Costanzo muove sinergicamente tutti i sensi dell’anima, senza mai indugiare in un puro esercizio di stile, senza adagiarsi nel compiacimento della propria misura cromatica: rivela i tumulti dell’anima, disseminati dovunque nella fragilità intrinseca delle sue laboriose architetture. Nella loro trama, complessa e densa, nella fioritura compulsiva di segni e simboli - sia che abitino assolate regioni terrestri (Isola Sole, Sotto il cielo di Gerusalemme), o che siano proiettate al limitare di cieli “impossibili” ( L’isola di Vincent) - riflettono tutte l’attesa spasmodica di un nuovo patto d’armonia, di un armistizio.
Attraversando questo microcosmo ci s’imbatte in notturni assolati (La fonte del cielo) in commiati e dolorose assenze ( L’attenzione), in gioie purissime (La felicità) in memorie e versi – secretati in preziosi rotoli (Ricordi, Quando sarò grande), vivificati dalla linfa dei suoi prodigi vegetali ( L’albero delle idee). E dietro a tutto ciò, si respira la malinconia di non poter affidare ai propri contemporanei “le chiavi delle sue città”, di non poter aprire le porte e le finestre ad una umanità che sappia abitarvi, senza condurla alla rovina. Ma la luce stempera ogni cosa: rende possibile al cielo e al mare di riflettere il verde dei prati - il colore della speranza, rafforza la sacralità della terra, conferendo al tutto un moto irresistibilmente ascen- dente, verticale indissolubile, tensione spirituale squisitamente laica ed ironica, che restituisce autorevolezza all’arte e rende preponderante il ruolo dell’artista, ridefinendone la progettualità di un mondo che possa essere “il migliore possibile”. Se è vero – come scrive Luigi Zoja- che “il brutto è immorale (…) una ferita inferta all’anima”, si avverte perfettamente, nel lavoro di Costanzo, l’imperativo di dovere restituire al nostro tempo - ed alla sua “bruttezza” imperante - il risarcimento “etico” della bellezza.
Andrea Greco
15
dicembre 2007
Fabrizio Costanzo / Francesco Pintaudi
Dal 15 dicembre 2007 al 30 giugno 2008
arte contemporanea
Location
SANPAOLO PALACE HOTEL
Palermo, Via Messina Marine, 91, (Palermo)
Palermo, Via Messina Marine, 91, (Palermo)
Autore
Curatore