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Fabrizio De André. La mostra
Una settimana dopo il 70° anniversario della nascita di Fabrizio De André arriva a Roma l’esposizione multimediale e interattiva ideata da Studio Azzurro che racconta la vita, la musica, le esperienze, le passioni che hanno reso “Faber” unico e universale
Comunicato stampa
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Anche Roma, dopo Genova e Nuoro, rende omaggio a Fabrizio De André ospitando negli spazi espositivi del Museo dell’Ara Pacis, dal 24 febbraio al 30 maggio 2010 (una sola settimana dopo il 70° anniversario della sua nascita, il 18 febbraio) “Fabrizio De André. La mostra” il percorso multimediale di Studio Azzurro - uno dei più importanti gruppi internazionali di videoarte - che ne racconta la vita, la musica, le passioni che lo hanno reso unico e universale, interprete e in alcuni casi anticipatore, dei mutamenti e delle trasformazioni della contemporaneità.
“Fabrizio De André. La mostra”, a cura di Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica e Pepi Morgia, ideata da Studio Azzurro, è promossa da Comune di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, Sovraintendenza ai Beni Culturali, Fondazione Fabrizio De André onlus, Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Zètema Progetto Cultura, main sponsor ERG, in collaborazione con Banche Tesoriere del Comune di Roma: BNL – BNP Paribas, UniCredit Banca di Roma, Monte dei Paschi di Siena, il Gioco del Lotto, Atac, Vodafone, catalogo edito da Silvana Editoriale.
Attraverso la narrazione virtuale, multimediale e interattiva viene proposta al pubblico un’esperienza emozionale, attraverso cui ognuno potrà mettersi in relazione con l’universo di “Faber”. Il racconto e la rappresentazione visiva, testuale e musicale si offrono dense di suggestioni ed emozioni e il pubblico, potrà di volta in volta scegliere quale immagine di “Faber” sviluppare per sé, in relazione con il proprio vissuto.
La mostra affronta i grandi temi della poetica di De Andrè: la società del benessere e il boom economico degli anni ’60, gli emarginati e i vinti, la libertà, l’anarchia e l’etica, gli scrittori e gli chansonniers, le donne e l’amore, la ricerca musicale e linguistica, l’attualità nella cronaca, i luoghi rappresentativi della sua vita; tutto ci trasmette la sua capacità di parlare al singolo ma di essere nel contempo universale, riconosciuto e amato dalle persone di ogni genere e età.
Il percorso della mostra
Primo ambiente - La poetica
Accolgono il visitatore sei schermi trasparenti allineati in prospettiva ottica (100x200cm ciascuno) che raccontano altrettanti temi: Genova, l'amore, la guerra, la morte, l'anarchia, gli ultimi. Il visitatore può approfondirli seguendo i manoscritti di alcune canzoni, illustrati da filmati d’attualità, fotografie e videointerviste a Fabrizio.
Sulle pareti si potrà esplorare il mondo di “Faber” attraverso le stesure - provvisorie e no - di alcune canzoni, dalla “Canzone del Maggio” a “Creuza de ma”, al work in progress de “La domenica delle salme”, fino ad appunti di lavorazione inediti per il disco, mai realizzato, dei “Notturni” che avrebbe dovuto far seguito ad “Anime salve”.
Secondo ambiente - La musica
Un percorso interattivo racconta la produzione discografica di Fabrizio. Una serie di piccoli pannelli, che riproducono le copertine dei principali dischi di studio, possono essere scelti e posizionati su appositi tavoli multimediali, attivando una serie di proiezioni. Il visitatore potrà così “incontrare” Fabrizio, i suoi amici e collaboratori, il critico Riccardo Bertoncelli che, con i loro contributi, inquadreranno il periodo storico e il clima sociale in cui quel disco è stato prodotto, i meccanismi della scrittura e della registrazione, etc. Tutto completato da contributi video tratti da apparizioni televisive e concerti.
Alcune bacheche raccolgono tutta la sua discografia ufficiale fin dal primo 45giri “Nuvole barocche”, accompagnata da svariate chicche, tra cui le matrici originali dei primi dischi Karim, locandine ormai introvabili, elementi grafici e provini fotografici delle “session” da cui sono state ricavate le copertine dei dischi più famosi. E ancora alcuni pregevoli “sguardi d’autore”, una sorta di piccola galleria di immagini realizzate dai fotografi che hanno seguito più da vicino Fabrizio durante la sua vita, tra cui Mimmo Dabbrescia, Luca Greguoli, Guido Harari, Reinhold Kohl, Francesco Leoni e Cesare Monti.
Terzo ambiente - I personaggi/I tarocchi
Qui il visitatore “incontra” i personaggi delle canzoni di Fabrizio. Vicino ai tarocchi originali, creati da Pepi Morgia per la scenografia della tournée de “Le nuvole”, sono posizionati tre schermi della stessa forma e dimensione. Sono tarocchi virtuali dentro cui appaiono trentuno personaggi: il Miché, Nina, il matto, Geordie, Piero, Marinella, Teresa, Bocca di rosa, l’ottico, il bombarolo, Angiolina, Sally, Carlo Martello, Andrea, Prinçesa, il gorilla, il giudice, il suonatore Jones, Jamina, i rom di “Khorakhané”, il pescatore, Franziska, Suzanne, Maddalena, Tito, Nancy, Sinan Capudan Pascià, il fannullone, le prostitute di “A dumenega” e la Morte.
Su una lavagna touch-screen si potrà scegliere il proprio personaggio preferito e creare un tarocco personalizzato optando tra una gamma di immagini e di segni grafici e anche aggiungendo un testo. Collegandosi poi al sito della mostra (www.fabriziodeandrelamostra.com) si potrà personalizzare ancora di più il proprio tarocco. Questi tarocchi personalizzati verranno poi proiettati in loop su un’altra lavagna.
In uno spazio attiguo campeggerà il pianoforte di Fabrizio, proprio quello che faceva bella mostra di sé nel grande salone di Villa Paradiso e con cui il cantautore appare ritratto in molte sue foto giovanili.
Fa parte di questo terzo ambiente anche una Sala Cinema - Fabrizio in video. Sullo schermo scorrerà senza soluzione di continuità un “rullo” di oltre 5 ore, con tutti i contributi video presenti nell’archivio della Rai, presentati per la prima volta in versione integrale e con molti inediti: apparizioni televisive, interviste, concerti, momenti di intimità, tutti raccolti in un corposo affresco da Vincenzo Mollica.
Quarto ambiente - La vita
Una dettagliata cronologia e nuovi “sguardi d’autore”, con stampe fotografiche di grande formato. Il visitatore potrà scegliere tra 25 immagini riprodotte su altrettante lastre di plexiglas che potranno essere inserite in apposite cornici su cavalletti, che ricordano in maniera stilizzata i vecchi banchi ottici. Una volta posizionate, le lastre attiveranno una serie di proiezioni di immagini, filmati, videointerviste e altro ancora, legati a un determinato periodo della vita di Fabrizio.
Nicchia sotto il monumento dell’Ara Pacis – Tracce di una vita
Quattro teche raccolgono una selezione di significative tracce di una vita: dai primi bigliettini scritti alla madre Luisa, in cui Fabrizio cerca di giustificare e di invocare perdono per le sue mancanze scolastiche, a una biografia di Fabrizio stilata a mano dalla madre per i giornalisti, alcuni libri e agende disseminati di appunti di lavoro e di citazioni annotate, una sua lettera al poeta Mario Luzi, un’altra lettera, stavolta drammatica, di Fabrizio al padre Giuseppe scritta durante la prigionia sul Supramonte e controfirmata da Dori, fino al volume annotato delle “Effemeridi” da cui, da vero appassionato di astrologia, non si separava mai.
Nel punto più centrale e riposto della Nicchia, le stesure “in progress” di “Smisurata preghiera”, il testamento spirituale di Fabrizio, compresa la versione spagnola (“Desmedida plegaria” nella preziosa traduzione del poeta colombiano Alvaro Mutis) interpretata da De André per il film “Ilona viene con la pioggia”, mai pubblicata su disco.
La Nicchia ospita anche una serie di preziose xilografie dell’artista americano Stephen Alcorn, da sempre estimatore dell’opera di De André.
Una mostra che invita il visitatore ad essere attivo scegliendo quale immagine di “Faber” sviluppare per sé, in relazione con il proprio vissuto, a personalizzare il proprio percorso, non suddiviso rigidamente per aree tematiche e cronologiche, ma organizzato in modo da rendere il racconto e la rappresentazione visiva, testuale e musicale, densi di suggestioni ed emozioni.
La dolce anarchia di Fabrizio
Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica, Pepi Morgia
A dieci anni dalla sua scomparsa Fabrizio è più vivo che mai: nei tanti concerti che lo ricordano, nei convegni che si susseguono, nei libri che segnano la sua memoria. Difficile immaginare che oggi qualcuno, perfino un adolescente, non conosca il nome di Fabrizio.
Proprio per questo non è una computazione enciclopedica ciò che questa mostra vuole offrire. Semmai si è scelto di tracciare il percorso di una vita e di una poesia-canzone nella sua molteplicità, nelle contraddizioni, nelle pieghe intime, spesso contraddittorie, di colpi di genio, di abbagli e anche di zone d’ombra.
Grazie a moderne tecnologie il visitatore può guidare il gioco e farlo suo, può scoprire o riscoprire passaggi di tempo e di pensiero, grazie anche agli innumerevoli contributi in video di amici e collaboratori di Fabrizio, alle testimonianze sentite di Dori e di Cristiano, e alle interviste realizzate con Fabrizio stesso dalla Rai. A queste suggestioni interattive si accompagnano oggetti, ricordi materiali, come manoscritti, libri annotati, dischi, matrici fonografiche, locandine, fotografie, strumenti musicali ed elementi scenografici. Risultano tutt’altro che scaglie mute del passato, ma voce viva, materia in movimento, cibo per il cuore e per la mente, per chi ama da sempre Fabrizio e per chi, anagraficamente sfortunato, non ha neppure fatto in tempo a vederlo in concerto.
Fabrizio aveva fatto sua la massima di Leonardo Sciascia, secondo cui un uomo di cultura ha il dovere di esprimersi in maniera popolare.
La sua intelligenza aveva trovato fiato nella forma canzone. Attraverso questa ha sempre cercato di risvegliarci dal sonno della coscienza, dall’appiattimento programmato di un pensiero sbrigativo e di comportamenti asserviti. Con rabbia, con satira feroce, con semplice genialità, con quella sua dolce anarchia che voleva ricordarci, in ogni modo, di pensare con la nostra testa.
La rivoluzione comincia dentro ciascuno di noi.
Per non farsi sfuggire il suo sguardo
Studio Azzurro
“Non chiedete a uno scrittore di canzoni
che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera:
è proprio per non volerverlo dire
che si è messo a scrivere.
La risposta è nell’opera.”
Fabrizio De André
Non si tratta solo di fare un tributo, ma di ricomporre i frammenti di un pensiero complesso, di rimappare un territorio creativo senza cedere a una facile celebrazione. Si tratta di conservare uno sguardo che si è dimostrato attento, lucido e dissacratorio per continuare a farlo dilagare nei nostri mondi, nei nostri scenari sociali, per far sì che continui a contaminare il nostro immaginario.
Non basta conservare la memoria dell’uomo o distrarsi nei feticci e nelle reliquie da collezione, è necessario mantenere la forza della sua analisi, la potenza disvelante della sua poesia.
È difficile immaginare di mettere in mostra De André, ma è interessante immaginare un percorso che si confronta con il suo pensiero, ricreare la costellazione delle sue tematiche, dei suoi personaggi prediletti e delle sue intuizioni per articolarla in una maglia aperta in cui i visitatori possano inserire nuovi significati e nuove associazioni.
Si è sviluppata, con questi presupposti, una narrazione multimediale che si inoltra nella fitta trama delle parole del cantautore – rintracciate nelle poche interviste televisive, nelle molte canzoni e tra gli infiniti appunti – e va incontro ai visitatori per reagire ai loro gesti e alle loro scelte. Questo ipertesto, composto da suggestioni visive e sonore, si propaga nello spazio della mostra, senza cedere alla spettacolarizzazione, senza tradire il potenziale di reale interazione e partecipazione che le tecnologie che utilizziamo portano con sé.
Diviene l’occasione per avviare dei processi, dei metodi di lettura, più che offrire dei racconti finiti e definitivi.
Si può parlare di Genova, dell’Amore e delle Donne, dell’Anarchia e della Libertà, degli Ultimi, persino della Morte e della Guerra attraverso le canzoni di De André, si può far esplodere il mondo di queste canzoni e cercarne le tracce nella nostra contemporaneità, addirittura nella nostra cronaca.
Khorakhanè può diventare il paesaggio sonoro delle immagini televisive di un campo Rom a cui è stato dato fuoco, Il testamento di Tito e il comandamento di non uccidere può scandire le sequenze video delle esecuzioni capitali praticate anche in paesi che si dichiarano democratici, Amico fragile può vivere per contrasto con le risate anestetizzanti che risuonano nel vuoto di molti
programmi televisivi, La domenica delle salme può riverberare sui volti dei politici in ferie dalle loro responsabilità. Questo è il ritmo visivo che invade la prima area della mostra e che prosegue per evocazioni e libere associazioni.
La poetica e le parole di De André si intrecciano con le sequenze video estrapolate dal flusso mediatico che circonda i nostri quotidiani e, senza esprimere giudizi definitivi, sembrano suggerire qualcosa che forse era sfuggito, sembrano incoraggiare a mantenere uno sguardo più attento.
A questa cadenza, scandita dalle riflessioni del cantautore, si accosta, in un area successiva, quella ricreata dall’alternarsi dei personaggi da lui inventati.
Entrando in questa sala il visitatore si trova letteralmente invaso dai protagonisti delle canzoni di De André, rivisitati come figure appartenenti all’universo dei tarocchi, un mondo che il cantautore aveva scelto come scenografia per la sua ultima tournée. In un grande trittico video si susseguono dei personaggi simbolo, atemporali, ma allo stesso tempo molto umani: Piero, immaginato come un soldato burattino, Marinella, una ballerina intrappolata in un carillon, Geordie, che fugge tenendo in mano una testa di cervo, Nancy, in equilibrio precario su una fune. Ci ricordano i protagonisti del Castello dei destini incrociati di Calvino, che rimasti senza parole usano i tarocchi per continuare a raccontare la propria storia.
Il gioco immaginativo anche in questa sala viene allargato ai visitatori che, in mostra o in rete, attraverso un’interfaccia progettata ad hoc, possono assemblare foto, video, grafiche e ricreare un montaggio-collage di questi personaggi, utilizzando materiali già predisposti o inserendone di nuovi. Che occhi e che lineamenti hanno gli eroi sconfitti di De André, le puttane, i carcerati, gli ubriaconi, i fannulloni? È bello poterlo chiedere a chiunque voglia e possa immaginarlo e le tecnologie partecipative hanno questo potenziale.
Il percorso per immagini e suoni si concede anche delle pause più riflessive, in qualche modo più didascaliche, nelle sale dedicate alla discografia e alla vita.
La voce di Fabrizio si confronta con quella dei collaboratori e di chi gli è stato accanto nella vita, si tratta di una grande quantità di interviste, molte realizzate per l’occasione, che a volte sembrano discordanti o di difficile assonanza, ma che il visitatore ricostruisce attraverso la propria percezione.
Fac-simili dei dischi originali e lastre fotografiche delle foto più rappresentative della vita del cantautore, affollano le sale per essere scelte, spostate e appoggiate su tavoli sensibili o cavalletti fotografici capaci di rivelare la loro porzione di memoria. Sono supporti fisici che conservano virtualmente la propria storia, ma che per essere attivati devono essere scelti e interrogati dal visitatore, riordinati per comporre una propria e personale idea sulla vita di Fabrizio De André.
I miei personaggi
Fabrizio De André
Carlo Martello
Con Paolo Villaggio scrivemmo la mia canzone “sconcia” più famosa, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Eravamo un po’ goliardi, un po’ intellettuali, un po’ sporcaccioni. Mettevamo la parola “puttana” in una canzone, il tutto lasciando intendere di conoscere la musica antica e la storia. Con questa canzone ho voluto demitizzare quel certo alone che siamo abituati a porre intorno ai personaggi storici. Tendiamo a divinizzarli dimenticando che furono uomini come noi, con voglie e difetti umani. La mia, dunque, non è oscenità, ma lotta alla retorica che, nonostante il cosiddetto progresso, continua a condizionarci. Il guaio è che la gente è innamorata dei suoi miti, e non sempre gradisce vederseli demolire.
Marinella
Marinella nacque dalla storia vera di una ragazza, figlia di contadini, che a sedici anni rimase orfana e senza casa, sottrattale da parenti predoni. Fu quindi costretta al marciapiede. Due anni dopo un cliente la scippò, la uccise e la gettò nel Tanaro. Quando lessi questa storia su un giornale locale, credo “La Provincia” di Asti, ebbi l’impulso di fare qualcosa per lei nell’unico modo che potevo: con una canzone. Visto che non potevo più cambiarle la vita, decisi di cambiarle la morte, e scrissi questo testo come una sorta di riscatto, come una fiaba. Ma che musica poteva esserci per una storia così?
Piero
La guerra ha influito su di me in modo più indiretto, anche se emotivamente molto forte. Furono soprattutto i racconti di mio zio Francesco, fratello di mia madre, a imprimermi ricordi incancellabili. Dopo l’ultimo conflitto mondiale tornò dal campo di concentramento in Germania come stralunato, e quei piccoli ricordi che mio fratello e io riuscivamo a strappargli di bocca, erano evocativi di scene oggi inimmaginabili. Nel 1962 avrei scritto La guerra di Piero ripensando a quei suoi racconti.
Bocca di rosa
La ragazza che mi ispirò Bocca di rosa entrò in casa mia un pomeriggio in cui ebbi la fortuna di avere i parenti altrove. Bocca di rosa è immortale, perché non si mette contro il suo destino. A lei interessa la conquista. Non è una puttana, è una che ama e si fa amare. E sa che l’amore migliore è quello che non ha futuro.
Il suonatore Jones
Scrissi Il suonatore Jones una mattina molto presto, di getto. Nacque da un testo toccante che parla d’un tale che vive dando la sua musica agli altri. Anch’io sognavo di passare la mia vita dando musica agli altri, così mi rispecchiai in quei versi. Io credo sempre nell’uomo e nelle sue risorse. Il suonatore Jones fa da contrappeso agli altri personaggi dell’antologia di Spoon River; è lui a indicare la vera via alla felicità. Vive in campagna, lontano da tutto e da tutti, assaporando la meravigliosa musicalità che gli arriva dalla natura. Per lui la musica non è un mestiere, è un’alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dire se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio. La morale del “mio” Spoon River è quindi “contentarsi di poco per vivere felici”.
Il bombarolo
Quando è uscito Storia di un impiegato, scritto in un anno e mezzo tormentatissimo, avrei voluto bruciarlo. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile. Ecco il soggetto. Un impiegato, un colletto bianco che non appartiene a nessuna classe sociale, ispirato dal maggio francese, cerca il riscatto con un gesto da anarchico individualista: una bomba. Finisce in prigione e qui capisce, finalmente, molte cose: soprattutto che la rivolta individuale è solo un fatto estetico, che è necessaria un’azione collettiva per cercare di cambiare le cose. L’idea del disco era affascinante: dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico. Un artista non dovrebbe mai rinunciare alla sua percentuale di diritto al mistero, e invece ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi.
Nancy
Nancy è la storia di una donna che si prostituisce non per sua vocazione. Ce l’ha costretta la fallocrazia: una parola composita che deriva dal greco (crazia, cioè governo) e dal latino (fallo, cioè c***o): quindi fallocrazia vuol dire “governo del c***o”! Nancy è stata costretta a essere una femminista ante litteram, per crearsi il proprio spazio di potere personale, la propria possibilità di vivere, al di fuori delle regole fallocratiche. Ho tradotto alla lettera questa canzone dal repertorio di un cantautore canadese, Leonard Cohen, che l’ha tratta da un fatto realmente avvenuto a una sua amica. Il che vuol dire che, anche in questo Svizzerone del Nord America che è il Canada, succedono le stesse cose che succedono da noi.
Andrea
Di Andrea è proprio la dinamica della canzone che non consente di captarne il significato. Per esempio, Andrea nei paesi di lingua tedesca è un nome femminile. Bubola e io abbiamo scritto in maniera talmente tranquilla dei “riccioli neri” e del “fondo del pozzo”, che sembrava una storia d’amore normale. Solo che si trattava di un lui che parlava a un altro lui. Forse non l’abbiamo resa più esplicita perché non volevamo, per delle pruderie ridicole, che qualcuno pensasse che fossimo omosessuali.
Teresa
Rimini ha come protagonista la piccola borghesia e come centro storico la città dei “vitelloni” di Fellini. Parla dei sogni di una ragazza piccolo borghese, figlia di un droghiere, vittima del pettegolezzo di un aborto. Sognatrice come i piccoli borghesi, fa credere che il suo fidanzato sia stato ucciso a New York durante la “caccia alle streghe”, sogna di incontrare Colombo e di mettergli le manette. È seduta all’Harry’s Bar, illudendosi di essere quella che non è. Il disco è il tentativo di riconoscere la crisi della piccola borghesia italiana, che è di non prendere mai posizione e di rassomigliare il più possibile alla borghesia vera, quella che ha dettato le regole del modo di vivere degli ultimi quarant’anni e forse più.
’Â duménega
’Â duménega racconta delle puttane che nella vecchia Genova erano relegate in un quartiere, ma, tra i diritti che erano loro riconosciuti, c’era quello della passeggiata domenicale. Questo Eros Center dell’epoca veniva dato in appalto dal Comune e, attraverso i relativi guadagni, pare che Genova riuscisse a coprire quasi totalmente le spese dei lavori portuali. Naturalmente fuori dal quartiere erano disprezzate da tutti e alla domenica ricevevano insulti dovunque andassero: “A Ciamberlin sussa belin” (“Pianderlino succhiacazzi”), “A Fuxe cheusce de sciaccanux” (“Alla Foce cosce da schiaccianoci”), “In Caignan musse de tersa man” (“A Craignano fiche di terza mano”) e “In Puntexellu che mustran l’oxellu” (“E a Ponticello gli mostrano l’uccello”).
Jamin-à
Quando pensa al sesso, il marinaio ricorda Jamin-à, il coitus interruptus della sosta in porto. Non certo la moglie onesta che l’aspetta a casa. Mio nonno avrebbe potuto dire, prima di morire, come il Gattopardo: “Non ho mai visto l’ombelico di mia moglie”.
Sinàn Capudàn Pascià
Sinàn Capudàn Pascià l’ho ricavata da una notizia letta in un volumone del 1944 sottratto alla biblioteca di mio padre e intitolato Mediterraneo. Verso la fine del Cinquecento viveva il Cicala, un marinaio della repubblica genovese, che fu catturato dai turchi durante una battaglia a Jerba. Con il suo comportamento, che qualcuno potrà definire equivoco e opportunistico, riuscì a diventare da prigioniero a serraschiere del Gran Visir con il nome di Sinàn Capudàn Pascià. Il fatto storico esiste, ma il resto della canzone è immaginato. Cosa avrei fatto io al posto suo? Me la sarei cavata prima di tutto non tirando fuori la spada e cercando di leccare un culo a destra e uno a sinistra, facendomi la mia carriera.
Tito
Il testamento di Tito è, insieme ad Amico fragile, la mia miglior canzone. Dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha. È un altro di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici, che riesco a cantare ancora oggi, senza stancarmene. Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo. Inteso come fondazione della Chiesa, il cattolicesimo ha rovinato tutto. I vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica.
Amico fragile
La canzone più importante che abbia mai scritto è forse Amico fragile, ed è sicuramente quella che più mi appartiene. È un pezzo della mia vita con cui sono riuscito a vincere la strana entità che mi aggredisce per portarsi via una canzone. L’ho scritta in una notte dopo essere andato a una festa in una di quelle ville nel parco residenziale di Portobello di Gallura. Era un momento di oscurantismo in cui Paolo VI aveva tirato fuori certe storie sugli esorcismi. Ai medici, avvocati, gente di un certo livello culturale, presenti alla festa, volevo parlare per sentire il loro parere al riguardo, e invece anche quella sera, come tutte le sere, finii con la chitarra in mano. Cantai delle canzoni, poi riprovai a parlare con loro; niente, cercarono di rimettermi la chitarra in mano. Allora mandai tutti a quel paese, mi ubriacai sconciamente e mi rifugiai nel mio garage. Quando, alle otto del mattino dopo, mia moglie Puny mi ritrovò, avevo già scritto le parole e la musica di Amico fragile. Il racconto di un artista che sa di essere utile agli altri, eppure fallisce il suo compito quando la gente non si rende più conto di avere bisogno degli artisti.
Bi e Bo
Dori Ghezzi
Il primo incontro
Ammiravo Fabrizio come tutti, ma non ero una particolare fan. Non avevo mai approfondito quello che raccontava, eppure lo trovavo interessante e affascinante.
Lo incontrai la prima volta nel 1969, in occasione di un premio, la Caravella d’Oro, dove io fui premiata (e mi viene da ridere) per il Casatchok, mentre lui per un lavoro di ben altro spessore, Tutti morimmo a stento. Era lì con sua moglie Puny, che in seguito ebbi modo di conoscere e diventammo anche amiche, e mi sorpresero i suoi sguardi insistenti. Mi dissi che, se mi accorgevo dei suoi sguardi, forse anch’io ero interessata a lui, ma tutto finì lì perché nessuno ci presentò.
Ci furono altri incontri casuali, magari in qualche ristorante, con gli stessi sguardi furtivi della prima volta, finché nel marzo ’74 lo ritrovai negli studi di registrazione Fonorama, poi Ricordi. Era un multisala: io lavoravo in una, lui in un’altra, e ci incontrammo al bar per un caffè. Con noi c’era un amico comune, l’autore che in quel momento stava lavorando con me, Cristiano Malgioglio.
Cristiano viveva a Genova, conosceva Fabrizio e ci presentò. Fabrizio fu gentilissimo, ci invitò nel suo studio per ascoltare quello che stava registrando, una canzone che s’intitolava Valzer per un amore. Col senno di poi, mi sono accorta che in qualche modo la cosa già mi riguardava: “Quando carica d’anni e di castità / tra i ricordi e le illusioni / del bel tempo che non ritornerà / troverai le mie canzoni”, in qualche modo già me la stava dedicando. Ci scambiammo i numeri di telefono, con la promessa di risentirci, e il giorno dopo mi chiamò. Cominciò così la nostra bella favola.
Un nuovo approdo
Fabrizio era una persona molto aperta. Quando lo conobbi, sentivo in lui la necessità di raccontarsi agli altri. Era un periodo difficile, stava probabilmente cercando un approdo. Era insoddisfatto di come procedeva la sua attività di artista e, anche nell’ambito familiare, qualcosa già non funzionava più.
Ebbi la sensazione netta che cercasse il conforto di qualcuno con cui poter condividere il suo futuro, che potesse comprendere le sue esigenze, anche la necessità di scelte difficili a una certa età, come la decisione di lasciare una città come Genova per andare a vivere in un posto sperduto tra le montagne della Sardegna. Tutto questo affiorò qualche tempo dopo, ma non rappresentò una difficoltà per me, che ero già molto presa e innamorata di lui.
Non fu difficile innamorarsi di Fabrizio: era una persona veramente affascinante, magnetica, che sapeva mettere a proprio agio. Era convintissimo di avere molto da imparare dagli altri: ascoltava e assimilava cose per lui interessanti e, addirittura, riusciva a far capire a ogni persona cosa avesse di buono dentro senza saperlo. Riusciva a tirare fuori sempre il meglio di tutti.
E questa forse è stata la molla più importante, quella che in fondo mi ha fatto crescere e pensare che, tutto sommato, era possibile convivere con una persona come lui, con questo cosiddetto mostro sacro, che mostro sacro non voleva essere.
Avendo anch’io fatto la cantante (cantavo o credevo di cantare), ero abituata, come lui, a fare le ore piccole. Ma di piccolo avevamo anche una figlia, Luvi, e cercavo di conciliare le due cose. Di notte, stancamente, condividevo la vita comune e artistica di Fabrizio: amava consultarsi e capire se stava andando nel verso giusto, se quella frase o quel testo mi piacevano. Mi coinvolgeva e, se anche già dormivo, spesso mi svegliava per farmi partecipare ai suoi interessi.
Da una parte ovviamente mi faceva piacere, dall’altra a volte mi svegliavo con la tachicardia. Non è stato difficile vivere con Fabrizio. È stato solo faticoso sotto questo profilo, perché la nostra vita era veramente intensissima e, proprio perché era interessante dedicarcisi il più possibile, bisognava dare quasi totalmente se stessi.
La famiglia De André
Cominciai a frequentare la sua famiglia in un periodo in cui il rapporto fra Fabrizio e suo padre Giuseppe era fra uomini maturi, e non più fra padre e figlio. Ho quindi saputo, attraverso dei racconti, della giovinezza di Fabrizio che era ritenuto un po’ la pecora nera della famiglia. Spesso aveva messo in difficoltà il padre come quando si fece sorprendere ad amoreggiare con una amichetta in chiesa e Giuseppe dovette darsi un gran da fare per risolvere la grana sorta col prete.
Giuseppe, che nella sua professione era considerato una persona che metteva soggezione, molto severo, molto esigente, mi è apparso come un uomo molto simpatico, che amava ascoltare e raccontare barzellette, se le appuntava addirittura per non dimenticarsele. L’uomo che ho conosciuto non era affatto “burbero” come invece era risultato a Fabrizio fin da piccolo, forse perché l’ho conosciuto già da tenerissimo nonno.
Con la madre Luisa, invece, c’era un rapporto di assoluta dolcezza: era una donna con certi limiti, nel senso che non era aperta al mondo, ma la sua famiglia era tutto per lei. Se la famiglia De André è stata così unita, lo dobbiamo proprio a lei. Infatti, Fabrizio la definiva il collante della famiglia.
Cantautore
È noto quanto la famiglia non sia stata mai d’accordo sulla scelta di Fabrizio di fare il cantante, perché allora la definizione di cantautore neanche esisteva, e la sua sembrava un’attività poco seria, da cialtroni. Eppure furono proprio loro involontariamente a spingerlo in quella direzione: non solo la mamma, che gli regalò la chitarra e gli fece studiare il violino, ma anche il padre e il fratello, che a loro volta erano dei musicisti, anche se per diletto. In casa De André campeggiava un bel pianoforte e c’era tanta musica. Una volta, di ritorno da un viaggio in Francia, il padre portò a Fabrizio dei dischi di Georges Brassens che furono per lui una scoperta totale. Ascoltavano insieme jazz e musica classica. Spesso si mettevano chi al pianoforte, chi alla chitarra, e cantavano insieme nelle serate con gli amici.
È innegabile però che, in un primo momento, Fabrizio fu costretto a non utilizzare il suo cognome sulle copertine dei suoi primi dischi, proprio per non coinvolgere la famiglia in una scelta non condivisa. Poi, nel tempo, si prese delle grandi rivincite perché, se in un primo momento qualcuno diceva “Ah, ma Fabrizio, il figlio discolo del professor De André e il fratello dell’avvocato Mauro De André?”, più avanti furono Giuseppe e Mauro a sentirsi chiamare “il papà di Fabrizio De André, il fratello di Fabrizio De André”.
Le letture
Fabrizio era onnivoro in fatto di letture, i suoi interessi erano veramente molteplici.
Quando l’ho conosciuto aveva già letto tutti i grandi classici, dai francesi ai greci, ai romani come Seneca. Credo veramente che non si sia fatto mancare nulla. Aveva una cultura veramente notevole. Era innamorato dell’astrologia, una scienza diversa. Amava approfondirne lo studio al punto da riuscire a fare da solo un quadro astrale o un oroscopo personale, attraverso calcoli difficilissimi.
Quando decise di fare l’allevatore e l’agricoltore, si riempì la casa di libri di ogni tipo, dall’allevamento dei bovini a quello dei tacchini, anche su aspetti di quel lavoro che poi non ha mai affrontato. Fabrizio era così: appassionato.
Per lui non esisteva un metodo codificato per far nascere una canzone. Di volta in volta, era sempre diverso. Fabrizio, leggendo un libro, vedendo un film, o leggendo un giornale, trovava uno spunto che annotava immediatamente, perché magari si connetteva a un progetto che aveva in testa oppure era semplicemente un aforisma che sarebbe poi rimasto isolato senza nessuna conseguenza.
Quando decideva di fare un disco, aveva già in testa ben preciso cosa voleva, l’argomento da approfondire, perché raramente era un disco di semplici canzoni, ma c’era sempre un filo conduttore che le legava tutte. Ho sempre avuto la sensazione che con i suoi collaboratori ne parlasse tantissimo, prima di riuscire a cominciare a comporre. Spesso poi succedeva che componessero anche per conto proprio o insieme o che, come raccontò Francesco De Gregori, ognuno aggiungesse una sua frase e poi l’altro da lì proseguisse.
Erano metodi veramente diversi di scrittura. Con Bubola il tutto era più collegiale, nel vero senso della parola: lavorarono più gomito a gomito, confrontandosi simultaneamente sulla frase da scegliere, su questa o quella parola.
Francesco
Ho conosciuto diversi collaboratori di Fabrizio. Il primo in assoluto è stato Francesco De Gregori, proprio perché all’inizio del nostro rapporto, esattamente il 4 aprile 1974, Fabrizio partiva da Milano, passando per Roma, dove avrebbe incontrato Francesco De Gregori, che poi sarebbe venuto con noi in Sardegna, a Portobello di Gallura, per lavorare su Volume 8.
Francesco, non lo conoscevo per nulla. Era un ragazzo che stava iniziando e aveva all’attivo un solo disco. Ne avevo soltanto sentito parlare, ma non avevo mai ascoltato nulla di suo. Fabrizio lo vide al Folk Studio di Roma (gli fu presentato dal fratello Luigi, anche lui cantautore) e ritenne che potesse essere un valido collaboratore. Intelligentemente, Fabrizio cercava collaborazioni perché in coppia non avrebbe corso il rischio – come sovente succede – di, come si suol dire, cantare sempre la stessa canzone. Aveva bisogno di divertirsi, facendo ricerca e rinnovandosi in continuazione e questa esigenza la sentiva appagata soprattutto attraverso confronti con linfe nuove e giovani.
Ricordo che Francesco aveva un concerto nel sud della Sardegna e andammo da Portobello con una Tre Cavalli o Quattro Cavalli, non ricordo. Facemmo su questa macchina il viaggio andata e ritorno, rientrando all’alba, in una località sperduta nel Campidanese. Fabrizio mi disse: “Ascoltalo e dimmi cosa ne pensi” e fin da allora mi resi conto di aver di fronte un artista non comune. Risposi infatti “A me sembra Gesù Cristo”, ma non solo perché portava i capelli lunghi e rossi, ma perché ebbi l’impressione di trovarmi davanti a una persona veramente straordinaria.
La collaborazione continuò. Io stavo loro vicino ma raramente ci trovavamo in tre: o stavo con Fabrizio, o stavo con Francesco, perché i loro tempi difficilmente coincidevano. Ci si trovava a commentare il lavoro che aveva fatto l’uno o l’altro, ma dormivo veramente poco in quel periodo, perché Fabrizio lavorava di notte, mentre Francesco prevalentemente di giorno.
Ogni volta, all’idea della realizzazione di un nuovo disco, Fabrizio si sentiva inchiodato a una forse eccessiva responsabilità, consapevole dell’attesa e delle aspettative del suo pubblico. Al tempo stesso, però, dal suo lavoro cercava di trovare sempre quell’entusiasmo e quella passione che non avrebbero tradito l’ascoltatore. Ecco perché ogni disco di Fabrizio si distingue dall’altro.
Era una continua scommessa, che dava risultati sorprendenti.
Nanda
Il mio grande rammarico è non aver conosciuto Fabrizio qualche anno prima, per tanti motivi, ma anche perché mi sarebbe piaciuto vivere da vicino la lavorazione di Non al denaro non all’amore né al cielo, in cui furono coinvolti, oltre a Nicola Piovani che ne curò gli arrangiamenti, Giuseppe Bentivoglio che è una persona straordinaria che frequento tuttora, anche se molto schivo, e poi Fernanda Pivano, uno di quegli esseri speciali che il Padreterno manda sulla terra così centellinati. Finita la lavorazione di Non al denaro, Fabrizio la perse un po’ di vista finché l’abbiamo ritrovata insieme più avanti, dopo qualche anno che vivevo con Fabrizio, e da allora finalmente non ci siamo più lasciati. Fernanda per noi è stata la famiglia, e anche noi per lei. Da sempre l’ho conosciuta come una donna piena di esperienze e di amicizie e aveva individuato in poche persone quelle che, secondo lei, rappresentano tuttora la sua famiglia. È una delle persone a cui voglio veramente più bene al mondo. C’è una speciale sintonia che ci lega e lei si comporta con me come se fosse veramente la mamma, la figlia, la sorella: è piena di attenzioni e di premure e di paure per il mio futuro.
Spesso mi dice che non devo fare la sua stessa fine, e io in fondo non capisco cosa intenda poiché per me rappresenta un esempio da seguire. E forse non è consapevole di quanto sia speciale per tutti noi. Viva Fernanda!
Concerti e pubblico
Fabrizio era da sempre riluttante a esibirsi in pubblico. Mi seguì più di una volta nei miei concerti, quando mi esibivo in discoteca e soprattutto nelle feste di piazza. Lo affascinava capire l’alchimia del contatto con il pubblico, e forse fu allora che scaturì il desiderio di conoscerlo finalmente da vicino. Forse, solo così avrebbe potuto continuare meglio a raccontare nuove storie, a conoscere e approfondire situazioni e mondi diversi che non gli appartenevano ancora.
Fabrizio fino a quel punto si era limitato a raccontare il suo vissuto in una Genova borghese e in quella poi trovata negli angiporti, cercata disperatamente anche contro la volontà della famiglia. E poi le sue infinite letture. Ma le esperienze vissute sulla sua pelle erano molto limitate per poter continuare a scrivere e a esprimere quello che aveva dentro. Capì quindi di aver bisogno del contatto col pubblico, un contatto meraviglioso perché, alla fine di ogni concerto, Fabrizio non se ne andava mai via prima di aver incontrato anche l’ultimo suo amico – non li chiamerei fan, perché non erano solo fan –, l’ultimo componente della sua infinita famiglia.
La bussola e l’alcol
Non mi sono spiegata perché Fabrizio, una volta presa la decisione di affrontare il pubblico, scelse di fare il primo concerto alla Bussola. È vero che all’epoca non c’era ancora la consuetudine di fare grandi concerti nei palasport come adesso: ci si esibiva nei locali e, quindi, per Fabrizio la cosa non
avrebbe fatto alcuna differenza. Il patron della Bussola, Sergio Bernardini, intuì che, dopo aver chiesto inutilmente per anni a Fabrizio di cantare nel suo locale, forse i tempi erano cambiati e si fece avanti con una proposta che era impossibile rifiutare. La serata alla Bussola fu contestatissima dai suoi ammiratori, al punto che Fabrizio ritenne suo dovere riparare alla “malefatta” facendo un concerto gratuito al Giardino Scotto di Pisa, organizzato da Lotta Continua e dagli anarchici.
Per lui non fu facile. Purtroppo Fabrizio aveva già il problema dell’alcol e, se da una parte lavorare di fronte a un pubblico era una necessità che non riusciva più a reprimere, dall’altra però il fatto di salire in scena, di dover vincere la paura del palcoscenico, lo costringeva sempre più a eccedere in questa sua cattiva abitudine. Per fortuna un giorno il padre di Fabrizio, in punto di morte, si fece promettere da lui che non avrebbe mai più bevuto, e così fu. Fabrizio dimostrò in quell’occasione di essere cresciuto e io lo ammirai molto in quella circostanza. Aveva fatto tanti tentativi non riusciti, ma finalmente si rese conto che lo doveva alla promessa del padre, alla famiglia, a se stesso soprattutto.
Rimini
In vista di un nuovo lavoro con Fabrizio, il produttore Roberto Dané se ne arrivò con Nastro giallo, il disco di un giovane cantautore, Massimo Bubola.
Anche lui registrava per la Produttori Associati, per cui Dané ritenne opportuna questa collaborazione tra i due. Fabrizio lo trovò interessante e cominciarono a lavorare su un nuovo progetto che poi divenne l’album Rimini.
Lavorarono spesso in Sardegna, in un primo tempo in una casa in affitto a Tempio Pausania, in attesa di trasferirci all’Agnata dove stavano proseguendo i lavori di ristrutturazione, e poi anche a Milano. Fu un lavoro piuttosto lungo, perché Fabrizio ha sempre avuto bisogno di tempi dilatati, per poter riflettere bene su progetti che a volte non avevano il respiro di un album.
Con Massimo si trovò molto a suo agio perché all’epoca, come tutti i giovani, era un ragazzo di grande propulsione, con un gran desiderio di sfondare, e quindi ha trascinato molto Fabrizio in una certa direzione, anche abbastanza inesplorata da lui. Bubola amava molto la canzone cantautorale americana, come del resto anche De Gregori. Fabrizio, soprattutto negli ultimi anni, non ascoltava quasi più musica. Era ormai impegnato a fare l’agricoltore e l’allevatore.
Non ci si comprava più dischi, non avevamo il giradischi e neppure la televisione: eravamo completamente isolati, per cui questa collaborazione era preziosa anche in questo senso, soprattutto sul piano musicale.
La Sardegna
Non mi è stato difficile sposare la scelta di ritirarci in campagna, anche perché, contrariamente a quanto si possa immaginare, da parecchi anni non amavo più il mio lavoro, un lavoro che, malgrado tutto, ho continuato ancora a fare per ben venticinque anni. Non ho mai amato la professione – non quella di cantante, a me piace cantare –, ma la “professione della cantante”. Anch’io amavo la campagna e Fabrizio sentiva questo grande desiderio di ritornarci, fin dagli anni in cui, ancora bambino, era stato sfollato alla Cascina dell’Orto, a Revignano d’Asti. Probabilmente ha trovato in me la compagna che ha capito e “accolto questa istanza”. Infatti, sarà per il comune amore per la natura, sarà perché per l’uomo che ami faresti qualunque cosa, ho accettato di andarci. Però, contrariamente a quanto lui pensava in quel momento, e cioè che avrebbe fatto il contadino, l’allevatore smettendo di fare il cantautore perché riteneva di aver già detto tutto e, anzi, di aver fallito, di non aver detto le cose come andavano dette, io pensai che invece, proprio andando a isolarsi in Sardegna, Fabrizio avrebbe continuato a fare il cantautore, anche meglio di prima.
Negli anni a seguire, attraverso i concerti e il conseguente guadagno, Fabrizio capì di potere realizzare il suo sogno di vivere in campagna.
In un primo momento si pensò di cercare del terreno, perché voleva ettari da coltivare e un allevamento, non solo un giardino e un praticello all’inglese, in una zona strategicamente vicina alla Liguria, a Genova e a Milano, ma ci si rese conto che il costo sarebbe stato proibitivo. Fabrizio aveva già la casa di Portobello di Gallura, dove passava le vacanze estive. Fu un autista di Tempio Pausania, Giovanni Mureddu, che lo andò a prendere all’aeroporto, a dirgli che stavano vendendo proprio ai piedi del Limbara, un’intera vallata, che si chiama Baldu, di 800 ettari, forse più. Interessato, Fabrizio mi chiamò e andammo insieme a vedere. Scegliemmo tre appezzamenti: uno era L’Agnata, l’altro Donna Maria, dove c’erano – e ci sono tuttora – delle rocce meravigliose di granito, e Tanca Longa, con una bellissima sughereta. Di conseguenza, ritenne opportuno impegnarsi nei concerti anche per poter affrontare le spese, non tanto per l’acquisto del terreno, quanto per i lavori successivi che costituivano un impegno notevole, anche economico. E questo fu l’alibi forse, non so come definirlo, per continuare a fare concerti.
All’hotel Supramonte
Durante i quattro mesi del sequestro, ci furono momenti di sconforto, di tristezza continua, ma anche di speranza: eravamo convinti che in ogni caso i nostri carcerieri non ci avrebbero soppresso. Anche laddove fosse arrivato l’ordine di farlo, le persone che avevano vissuto con noi per quattro mesi avrebbero fatto di tutto per risparmiarci, anche se eravamo pronti a fuggire, e loro non lo sapevano, perché avevamo allentato un anello della catena e aspettavamo solo il momento giusto.
Ecco allora, come possono crearsi delle alchimie strane e dei rapporti veri, come in qualunque situazione l’umanità emerge sempre in ognuno di noi.
Sono cose che non vanno assolutamente sottovalutate. Forse sono cose di cui ti convinci perché la vita non ti appaia come una sconfitta definitiva, e in fondo c’è sempre uno spiraglio, puoi sempre contare sulla generosità e sull’umanità delle persone. Considerammo i due carcerieri un po’ alla nostra stregua: parlando con loro, ci rendemmo conto che, a loro volta, erano due persone non libere, costrette, magari per motivi abbastanza futili, a stare lontano da casa, latitanti, privati della loro libertà e costretti a prendere in ostaggio delle persone per pura sopravvivenza. Sono certa che il giorno del nostro arrivo, quando si accorsero che si trattava di noi, il loro disappunto fu enorme. Non sono stati contenti di vederci arrivare. Forse avrebbero preferito vedere Guccini, di cui soprattutto uno di loro era grande ammiratore.
Fado
Dopo il sequestro, non è che io ne sentissi la necessità, però sembrava quasi ovvio che, in qualche modo, potessi anch’io riprendere a cantare. Ormai ero libera da contratti e Fabrizio era impegnato con l’album L’indiano. Pensammo di creare un’etichetta tutta nostra, che poi venne chiamata Fado dai due nomi Fabrizio e Dori. L’idea era che ci avrebbe permesso, soprattutto a me, di fare quello che magari, fino ad allora, non mi era stato concesso, in materia di repertorio e di manifestazioni a cui andare o non andare. Fabrizio era consapevole delle mie insofferenze e nel frattempo Cristiano aveva creato un nuovo gruppo, i Tempi duri.
Fu un’esperienza molto bella. Abbiamo pubblicato dei dischi senza dubbio interessanti, compreso Tre rose, il primo album su etichetta Fado di Bubola, che a mio avviso rimane un disco delizioso che mi capita tuttora di riascoltare.
Eravamo una specie di factory, non so come definirla altrimenti, dove si fa tutto in famiglia. E quindi si suonava, si cantava, si facevano i cori, tutto fra di noi. Non c’erano estranei che si sovrapponevano ed era tutto molto divertente: un sistema forse non nuovo, ma per l’Italia abbastanza innovativo.
La cosa non è durata a lungo perché, ahimè, a volte, quando si trattava di dover promuovere un prodotto Fado, immancabilmente veniva ricattato anche Fabrizio che doveva sempre essere presente. A lungo andare la situazione divenne insostenibile.
Crêuza de mä
All’inizio degli anni ottanta Fabrizio pensò di realizzare un disco diverso, diversissimo, che lo portasse in altri mondi, con altri sapori musicali. All’epoca ancora non si parlava di world music e lui, per primo, concepì un disco “etnico”, cantato addirittura in genovese arcaico, il genovese dell’epoca in cui si svolgevano le vicende di Sinàn Capudàn Pascià e di ’A Pittima. Anche in quell’occasione dovette scegliersi un collaboratore ideale e anche quella volta non si sbagliò. Era la sua grande forza, quella di capire chi potesse essere all’altezza della situazione nel momento in cui aveva individuato l’idea giusta.
Trovando in Mauro Pagani un cultore della musica, uno sperimentatore e ricercatore di musiche etniche, pensò bene di coinvolgerlo e lui capì al volo l’esigenza di Fabrizio. Insieme riuscirono a realizzare quello che, a detta di molti e non solo italiani, risultò il disco più apprezzato di Fabrizio in tutto il mondo, il più innovativo, il più coraggioso in assoluto, con delle sonorità mai riscontrare fino ad allora nella musica contemporanea.
Il dialetto genovese, come anche quello sardo, gli permetteva di prendersi la libertà di dire delle cose certo impensabili in italiano. Alcuni testi sono magari passati in radio, senza che ci si rendesse conto che, se fossero stati in italiano, la censura non avrebbe dato il permesso di mandarli in onda. Vedi Jamin-à e ’Â duménega, testi decisamente forti, e forse lì Fabrizio si è liberato, cogliendo l’occasione di esprimersi in un modo che altrimenti non sarebbe stato possibile.
Dopo il successo di Crêuza de mä, ci fu un grande interrogativo: come proseguire?
Portare avanti l’esperienza etnica, l’esplorazione di Mediterraneo e Oriente, per spingersi fino alle terre dei Mongoli? In un primo tempo, si parlò di un progetto che doveva coinvolgere anche Ivano Fossati e altri, addirittura Vasco Rossi, ma poi venne archiviato: probabilmente Fabrizio capì, insieme a Pagani, che era tempo di concentrarsi su problematiche più vicine a noi, e di tornare a un maggiore impegno politico. Con La domenica delle salme, un brano che ritengo di grandissima attualità, (purtroppo, ahimè), Fabrizio colse con qualche anno di anticipo l’avvento del nuovo imperialismo, che tuttora stiamo vivendo.
Ivano Fossati
La collaborazione con Ivano Fossati era nell’aria da diverso tempo. A ogni incontro, si ripromettevano addirittura di fare una tournée insieme, finché finalmente il momento arrivò con Anime salve. Avrebbero dovuto registrare e cantare insieme tutto il disco, poi il progetto prese una piega diversa per motivi che non si sono mai ben capiti. Forse nel prodotto si è identificato più Fabrizio, forse si sono resi conto che non reggeva il continuo ping-pong vocale fra loro. Ma io di questo non sono convinta: conservo alcune registrazioni di prova davvero notevoli, realizzate insieme. Finirono per limitarsi alla stesura dei brani e a un pre-arrangiamento, che fu poi completato da Piero Milesi.
Forse in un primo tempo può esserci stato qualche problema di ordine caratteriale, da genovesi un po’ chiusi sotto certi aspetti. Ivano poi preferì dedicarsi al suo album Macramè, un disco bellissimo, che uscì in contemporanea con Anime salve. Finirono per cantare insieme solo Anime salve e ’A Cùmba, ma mi manca Ho visto Nina volare cantata insieme, come pure Dolcenera e, soprattutto, Smisurata preghiera. Peccato!
Smisurata preghiera e Álvaro Mutis
Fra le letture che hanno colpito maggiormente Fabrizio c’è stato un autore sudamericano che veramente lo ha folgorato, Álvaro Mutis, che fra l’altro Fabrizio ha avuto la fortuna di incontrare e conoscere. Mutis ha ispirato a Fabrizio una delle canzoni che più rappresentano il suo testamento spirituale, la summa di tutte le tematiche affrontate durante il suo percorso di cantautore.
Ha attinto molto dal libro Maqroll il gabbiere, come ad esempio espressioni quali “una goccia di splendore”.
Quando si trattò di fare la versione spagnola della canzone Smisurata preghiera (Desmedida plegaria), ispirata appunto dagli scritti di Álvaro Mutis, Fabrizio era preoccupato più che altro della sua incapacità di cantarla nel modo corretto, di avere la dizione giusta. Invece, quando Mutis la ascoltò, gli disse che lui stesso non avrebbe potuto farla meglio. In effetti Fabrizio, sebbene non abbia mai imparato altre lingue a parte il francese, aveva una duttilità, una predisposizione, e quindi gli era poi facile cantare nel modo corretto. Questa canzone venne inserita nella colonna sonora del film colombiano “Ilona llega con la lluvia”, tratto da un libro di Mutis, che in quell’occasione incontrammo a Venezia. In una cena a Portofino mi parlò a lungo della nostalgia per i suoi gatti e la sua più grande preoccupazione era tornare a casa per loro, che lo stavano sicuramente aspettando. È veramente straordinario. Ecco, io già amavo i gatti, ma, da quando ho conosciuto Mutis, li ho amati ancora di più.
Il disco più amato: Storia di un impiegato
Non so definire se Fabrizio abbia amato un disco sopra ogni altro. So che Storia di un impiegato è il disco che più ha sofferto, forse proprio perché è coinciso con un momento di sua particolare insoddisfazione legato a problematiche anche personali, le stesse che gli fecero preferire il lavoro di contadino a quello di cantautore. Ma è una distorsione: per questo si è spesso pensato che fosse un disco fuori tempo, datato, e quindi, mentre Fabrizio trovava tutti gli altri suoi dischi universali e sempre attuali, riteneva Storia di un impiegato un argomento politico ormai superato. Non so quanto avesse ragione: forse no, forse si è sbagliato.
Pietas
Una delle grandi qualità di Fabrizio è che non è mai stato moralista, non ha mai apprezzato il perbenismo e ha sempre cercato di capire le debolezze umane. Dopo l’esperienza del sequestro ha avuto un atteggiamento di grande comprensione nei confronti di chi ci aveva privati della nostra libertà per ottenere un riscatto. In qualche modo era convinto che se una persona si riduce a comportarsi in una certa maniera, un motivo dev’esserci e, a vedere bene, non sempre è dettato dalla volontà, dalla cattiveria, da cromosomi malati, ma dalla necessità. Questa era la grande forza di Fabrizio: la pietas umana, che era per lui un elemento essenziale per conoscere il prossimo, e che è sempre stata al centro della sua poetica. Fabrizio è anche stato sempre molto coerente, non ha mai detto una cosa in cui non credesse veramente.
CRONOLOGIA
1966
Tutto Fabrizio De Andrè
Gli LP nel vecchio mondo discografico erano una rarità. Costavano tanto ed erano impegnativi, era ben mezz’ora di musica; la gente preferiva i 45 giri. Fabrizio De Andrè non era un tipo da 45 ma cominciò così, e continuò per anni; e quando nel 1966 le sue canzoni uscirono per la prima volta su un padellone a 33 giri, si trattava semplicemente di una raccolta di singoli già usciti. Però era una raccolta fantastica, con brani che De Andrè si sarebbe portato dietro per tutta la carriera, e il pubblico con lui.
Siamo a due anni dal ‘68 ma l’Italia sullo sfondo è ancora vecchia, legata agli anni ‘50. La società è chiusa, classista, provinciale. Studenti e professori sono lontani gli uni dagli altri, come genitori e figli. Il mondo musicale è piccolo e limitato mentre il cinema vive una stagione favolosa. La RAI è l’unica realtà mediatica, legata a musiche di disimpegno o di cultura classica, e con regole ferree. Per passare in radio o in TV i musicisti devono superare l’esame di una commissione e le maglie della censura. De Andrè in RAI non passa mai, eppure incredibilmente trova un suo pubblico. Lo trova negli studenti più acculturati che cominciano a contestare i modelli didattici e di lì a poco occuperanno le università; ma sono anche idealisti, generosi, e quando un’alluvione devasta Firenze, novembre 1966, sono i primi a offrirsi come volontari. Quello è il pubblico di De André, assieme ai cultori della canzone d’autore, anche se ancora non va di moda quella parola – gli appassionati che amano Lauzi, Paoli e quel timido introverso amico di Fabrizio che è Luigi Tenco.
1967
Volume 1°
Il 1967 è l’anno del Sgt. Pepper, dei fiori nei capelli di San Francisco, delle prime accese contestazioni studentesche. E’ un anno di potente svecchiamento della società italiana, di contrasto forte tra la generazione dei genitori e quella dei figli. Fabrizio ancora una volta non segue i modelli rampanti, ma prende una sua strada particolare, ed è un testimone influente del tempo.
A gennaio è morto Luigi Tenco, un amico oltre che un personaggio pubblico. De André gli regala una canzone di straordinaria profondità come Preghiera in gennaio, dove rivela la sua tensione verso i grandi temi dello spirito – la fede, l’aldilà, la fragilità umana, gli insegnamenti della religione. Nell’album ci sono almeno due altre canzoni che alludono a quello, Spiritual e Si chiamava Gesù; e sono la chiave per introdurre la figura di Fabrizio nel mondo cattolico che in quegli anni è in fermento. E’ finito da poco il Concilio, con tutta la sua ventata di novità. La Messa non è più in latino, la comunità dei fedeli partecipa; e il Dio celebrato non è il giudice severo del Vecchio Testamento ma il Gesù dei Vangeli, uomo fra gli uomini. Il 1967 è l’anno di Dio è morto, la canzone di Guccini, portata al successo dai Nomadi, che viene scambiata per una bestemmia quando vuol essere una denuncia e un urlo di speranza. Il 1967 è anche l’anno di Lettera a una professoressa, lo straordinario libro compilato da un parroco toscano, Don Lorenzo Milani, con i suoi allievi figli di poveri contadini del Mugello. Un libro uscito in sordina che fa scandalo e discussione, che accusa il classismo ancora radicato, che punta il dito contro le ingiustizie della società italiana. De André non è uomo di fede ma un ricercatore appassionato e istintivamente sta dalla parte di Don Milani, delle nuove istanze conciliari, di tutti coloro che testimoniano la giustizia. Questo colgono molti ragazzi cattolici nelle sue canzoni, e diventano i suoi primi ammiratori.
1968
Tutti morimmo a stento
Il 1968 è un anno simbolo che ricordiamo ancora. In realtà molte cose che oggi chiamiamo “Sessantotto” non avvengono in quell’anno ma dopo, anche parecchio tempo dopo. L’idea è comunque quella di un vecchio mondo conservatore che va a cadere e di uno più moderno che si apre: e oltre che moderno più generoso, libertario, antiautoritario, pacifista. Calendario alla mano, il 1968 è l’anno delle grandi manifestazioni studentesche e dei contrasti anche drammatici tra giovani e forze dell’ordine: in Italia avviene nelle università occupate e soprattutto a Roma, a Valle Giulia, in Francia la capitale è teatro di proteste per un mese intero, il famoso “maggio francese”. E lo stesso a Berlino, a Londra, per non parlare degli USA, dove la guerra in Vietnam innesca una violentissima protesta studentesca che culmina in agosto con i disordini alla convenzione democratica di Chicago. A ottobre si tengono le Olimpiadi a Città del Messico e le guerre non si fermano, come accadeva nell’antichità. Anzi: a Piazza delle Tre Culture la polizia spara sugli universitari che manifestano e i Giochi sono macchiati dalla morte di centinaia di dimostranti.
Non è un caso che in quell’anno turbolento De André prepari un album speciale: una “cantata”, così la definisce recuperando un termine della musica classica, dove le canzoni sono legate in un discorso unitario – che è quello della pietà, dell’amore che solo può guarire il male. De André si è innamorato dei larghi spazi degli LP, e non è l’unico a voler evadere dalle vecchie limitazioni. Dopo il Sgt Pepper si è scatenata la moda dei “concept album” come si dice in gergo, e in Italia ha avuto successo un disco del genere, Days Of Future Passed, con i Moody Blues e un’orchestra sinfonica. Quello di Fabrizio non è un disco rock ma risente comunque di quelle influenze e del fascino della musica colta. La lettura migliore del 1968 è proprio quella di non uccidere il passato ma di trasformarlo, di piegarlo a nuovi usi.
1970
La buona novella
Gli anni 70 sono molto diversi dal decennio precedente. Sono anni più difficili, problematici, anche pesanti. La società occidentale è inquieta e ha perso l’ottimismo. Molte utopie che avevano caratterizzato i 60 si rivelano appunto sogni, velleità, a questo punto imbarazzanti; l’amore non conquisterà il mondo mentre la guerra sì, lo devasterà, e non solo la guerra ma anche la violenza strisciante del terrorismo. Quella violenza che per esempio in Italia ha colpito in maniera traumatica il 12 dicembre 1969 a Milano, con l’attentato alla banca dell’Agricoltura di piazza Fontana. Quella strage e le contestate indagini della polizia che hanno fatto seguito, con la morte nei locali della questura dell’anarchico Giuseppe Pinelli, scavano un solco nella società italiana e instaurano un clima sociale teso, che durerà per tutto il decennio.
Il De André del 1970 annusa quel vento, ma non vuole farsene sballottare. Sceglie quindi un discorso più generale, più alto, parlando dell’uomo e della speranza – parlando di Gesù, questa figura che lo affascina anche se non la ha mai segnato con il marchio della fede. Gesù che è si figlio di Dio ma uomo tra gli uomini, in una famiglia umile, in una comunità povera come poteva essere la Nazareth di 2000 anni orsono. Anche qui si coglie l’eco del Concilio; e questa figura carismatica non è raccontata con le parole di pietra della Bibbia ma con i più coloriti versi dei vangeli apocrifi, le tante storie dell’uomo di Nazareth raccolte nei primi secoli dopo la morte ed escluse dalla narrazione ufficiale.
Nella Buona Novella suonano i musicisti della Premiata Forneria Marconi che poi accompagneranno Faber in quella sua famosa avventura live. Ancora non si chiamano PFM, sono i Quelli in una fase di transizione. Il fatto è che la scena musicale sta cambiando, si stanno creando incroci fra rock e canzone e, in parole povere, nessuno sta più al suo posto.
1971
Non al denaro non all’amore né al cielo
Il “Sessantotto” non accaduto nel 1968 comincia a delinearsi all’inizio dei ‘70, con un ribollimento forte e a tratti drammatico della società italiana. I lavoratori chiedono nuovi diritti così come gli studenti, in rotta con il vecchio sistema educativo; le nuove generazioni femminili vogliono uscire dalla condizione subalterna delle loro madri e nonne; il mondo politico si spacca e si estremizza. La mediazione sociale della DC sembra cadere a pezzi, nel contrasto duro, anche sanguinoso, tra sinistra e destra, e ai partiti tradizionali si affiancano nuovi gruppi dalle idee estreme che pescano soprattutto nel mondo della protesta giovanile.
Questo paesaggio agitato farà da sfondo al prossimo album di Fabrizio De André, “Storia di un impiegato”. Nel 1971 invece l’idea è ancora quella di non farsi travolgere dall’attualità, ma di provare un discorso più saggio ed elevato – traendo spunto da un meraviglioso libro, la Antologia di Spoon River, con cui Edgar Lee Masters aveva raccontato in maniera paradossale, in forma di epitaffi, gli abitanti di una piccola comunità nelle pieghe profonde d’America. Il libro era stato pubblicato in Italia nel 1943, tradotto da una giovanissima Fernanda Pivano sotto la guida di Cesare Pavese.
Questa scelta è emblematica di come era De André. Da un lato c’è la voglia confermata di raccontare “la gente”, non come massa informe bensì come individui – senza tratti straordinari, nella loro fragile ed emozionante quotidianità. C’è tuttavia anche uno scarto, un guizzo che è molto faberiano. Nel 1971 Fernanda Pivano era un mito soprattutto per la divulgazione della poesia beat che tanto piaceva ai giovani di allora: per “Juke Box all’idrogeno” di Ginsberg, “Bomba” di Gregory Corso, per Kerouac che aveva presentato dal vivo (aveva tentato di presentare in realtà, completamente ubriaco) nella sua unica visita italiana nel 1966. Ecco, De André salta a pie’ pari quel mondo e va più indietro – va all’America non metropolitana, senza tempo, di Lee Masters e a quella prosa asciutta, per niente beat, resa così bene dalla Nanda. Ancora una volta: controcorrente.
1973
Storia di un impiegato
Gli anni ‘70 si fanno sempre più inquieti e confusi. Le manifestazioni di piazza si susseguono, in una situazione di crisi economica che morde soprattutto in Italia, con alta inflazione, disoccupazione e gravi tensioni internazionali. E’ l’anno della guerra del Kippur: l’esercito egiziano spalleggiato da altri Paesi arabi muove all’improvviso contro Israele, ma in pochi giorni è costretto alla resa, come già nel ‘67. Anche per via della guerra, i prezzi del petrolio schizzano alle stelle. Per la prima volta i Paesi produttori escono dall’ombra e impongono le proprie ragioni ai Paesi consumatori; e l’umanità si interroga coscientemente sullo sviluppo del pianeta e sulle risorse a disposizione. Un famoso rapporto del Club di Roma uscito nel 1972 si intitola proprio “i limiti della crescita” e caldeggia la necessità di una limitazione concertata, di uno “sviluppo sostenibile”.
Sono questioni ansiogene, che molti rifiutano per la loro complessità preferendo uno schema più semplicistico. Bianco e nero, Est o Ovest. Sono gli anni più gelidi della Guerra fredda: Breznev in URSS, Richard Nixon negli USA. E in Italia, destra contro sinistra, con connotati sempre più violenti. Nuove formazioni extraparlamentari nascono ogni mese predicando violenza e illegalità. Le cronache riportano uno stillicidio di assalti, ferimenti, risse nel segno della lotta politica. Pistole, coltelli, bombe abitano la cronaca quotidiana. Nel marzo 1972 l’editore Giangiacomo Feltrinelli è saltato in aria mentre innescava un ordigno sotto un traliccio dell’Enel a Segrate, vicino a Milano. Il bombarolo non è un personaggio di fantasia, come quando Stevenson ottant’anni prima aveva scritto “Il dinamitardo”.
Per una volta De André non vola alto ma lascia colare questo umore denso dei tempi nelle sue canzoni. Ne viene un disco controverso. E’ figlio del suo tempo, forse troppo, quindi datato; scritto con due marxisti dichiarati come Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani da un anarchico come Faber che per una volta sente il bisogno di uscire dal guscio, di nuotare forsennatamente nella realtà – una realtà che, anche se siamo solo nel ‘73, somiglia dannatamente al 1984 di Orwell.
1974
Canzoni
I tempi sono sempre più cupi e forse per questo Faber non si sforza più di fotografarli su disco. C’è appena stato in Cile un golpe che ha deposto il presidente socialista Salvador Allende e suscitato sgomento in tutto il mondo. Il Sudamerica è sotto il tallone dei dittatori mentre da noi continua lo stillicidio delle violenze politiche. Il 1974 è l’anno in cui le BR fanno un salto di qualità con il rapimento (e liberazione) del giudice Sossi a Genova. Il leader delle BR, Renato Curcio, viene arrestato per opera di un prete guerrigliero, padre Girotto, che ha scelto di collaborare con i carabinieri del generale Dalla Chiesa; una sanguinosa rivolta nel carcere di Alessandria è stroncata dalle forze dell’ordine con numerosi morti. Continua a essere profondo il distacco non solo fra destra e sinistra ma fra giovani e vecchi, genitori e figli, imprenditori e lavoratori. La società cerca nuove forme di convivenza e un appassionato voto referendario conferma la legge sul divorzio introdotto da poco in Italia. Il 1974 è anche l’anno delle domeniche a piedi, per risparmiare benzina, visti i rincari del petrolio. La RAI chiude ogni sera i programmi prima di mezzanotte, e non ci sono ancora le TV indipendenti. Poche distrazioni, se vogliamo c’è più tempo per ascoltare musica.
De André non ha più il gusto di “Storia di un impiegato” e non a caso il suo nuovo LP si intitola semplicemente, umilmente “Canzoni” – una sorta di personale “Another Side”, ricordando quell’album di Dylan che nel 1964 aveva segnato il suo distacco dalla canzone di protesta per un diario più personale. E Dylan non manca in questa antologia, anche se è quello di dieci anni prima: come non mancano altri maestri preferiti, come Leonard Cohen e Brassens. La scena musicale italiana è molto cambiata rispetto agli esordi di Fabrizio, che non è più una luminosa eccezione, ma il padre putativo, uno dei padri, di tanti giovani che scrivono i testi delle proprie canzoni e li cantano in prima persona. Questi cantautori si dividono in due grandi categorie: i filo americani e i filo francesi. Ecco, in questo confronto tra le diverse scuole, De André tiene un profilo elevato e non si schiera apertamente. Ancora una volta ci tiene a essere svincolato da ogni categoria – innanzitutto e soprattutto se stesso.
1975
Volume 8
“Volume 8” fa il paio con “Canzoni”, ne è il seguito e per certi versi il prolungamento. Un disco asciutto, folk rock, che cerca una sua classicità in tempi esageratamente trendy. Abbiamo detto dei cantautori, ma la grande moda di quegli anni, in tutta Europa e anche in Italia, è quella della musica cosiddetta progressive. Non ci sono più due chitarre un basso e una batteria ad accompagnare la “musica dei giovani” ma complicate tastiere, strumenti esotici o antichi, le prime macchine elettroniche; e i testi attingono volentieri a un immaginario di fantasia anche balzano, che prende a piene mani da Lewis Carroll, da Tolkien, dalla poesia più esagerata e barocca. De André si tiene alla larga da tutto questo. “Canzoni” e “Volume 8” testimoniano il suo gusto di una musica semplice seppure non banale, fondamentalmente chitarristica, lontana dagli eccessi.
Sullo sfondo di quest’album l’Italia e il mondo di quel 1975 – quando finisce la guerra in Vietnam e gli USA hanno appena conosciuto l’onta delle dimissioni del presidente Nixon, implicato nello scandalo del Watergate. Da noi il clima sociale è ancora tossico e si contano a diecine i morti per faide politiche. Sono anche di più purtroppo i ragazzi che cominciano a morire per droga – un fenomeno sottovalutato dalla società dell’epoca. Per fortuna la musica è un amore anche più grande, come testimoniano le vendite dei dischi e i tanti concerti, a cominciare dai mega raduni – quello di Parco Lambro a Milano, organizzato dalla rivista “Re Nudo”, è il più famoso e quell’anno tocca il suo apice. Anche Fabrizio è contagiato da questa passione e per la prima volta in vita sua organizza una lunga e articolata tournèe, vincendo, cercando di vincere, la proverbiale “paura del palcoscenico”.
1978
Rimini
Il 1978 è l’anno dei tre papi, da Paolo VI a Giovani Paolo II, passando per la meteora di Papa Luciani. E’ l’anno anche e soprattutto del rapimento Moro, una tragica vicenda che sconvolge l’Italia e per certi versi chiude un periodo. Gli anni ‘70 diventano improvvisamente il passato e quello che di nuovo appare viene salutato con gioia e sollievo. La società cambia, la musica cambia. Il punk ha ghigliottinato il mondo progressive, denunciandone i limiti; poi, fedele alla propria natura spontanea, si è dissolto. Ora, nel 1978, si parla di new wave – vuol dire tutto e niente, è una sorta di ricostruzione sulle macerie.
De André si era salvato dalle mode e quindi non è costretto a un cambio drastico. Però un mutamento c’è, nella sua musica e nel disco di quell’anno, realizzato con il giovane cantautore Massimo Bubola. C’è più sangue, più rock, c’è l’innesto dei fermenti vivi di un certo folk europeo. In filigrana si colgono questi nuovi umori e si profila l’ombra di giovani artisti che stanno cambiando la canzone d’autore: come Jackson Browne, che giusto in quell’anno pubblica il suo capolavoro, Running On Empty, come Springsteen, nel suo periodo più ispirato, quello di The River, di Darkness On The Edge Of Town. Anche Dylan non è più quello dei ‘60. Ha appena pubblicato un disco che profuma di musica latina, Desire, e Fabrizio ne traduce un brano con gusto e passione.
Rimini è il primo disco di De André a godere di ripetuti passaggi radiofonici. La RAI ha perso il monopolio, dal 1976 spuntano in tutta Italia le cosiddette “radio libere”. Al passaparola che ha sempre segnato la carriera di Faber si aggiunge la programmazione radio di molte emittenti che tra Rimini, Andrea, Sally hanno solo l’imbarazzo della scelta. Era ora.
1979
Fabrizio De Andrè in concerto. Arrangiamenti PFM, Vol. 1 & 2
Il popolo musicale è molto cambiato alla fine degli anni ‘70. Il punk ha fatto da spartiacque anche se in Italia è arrivato poco e male, ed è stato letto soprattutto in chiave folcloristica. Però anche da noi sono scomparse le vecchie formule che erano state valide per anni, quella specie di progressive con vaghi riferimenti classici che ha finito per danneggiare le orecchie di molti. E’ tornato un rock più curioso e più energico. Tira sempre la canzone d’autore. E’ nato il mito della disco, che ha seppellito il vecchio caro rhythm and blues. Si comincia a pasticciare con l’elettronica, che non è più strumento per pochi eletti bensì macchina da ritmo per le nuove ginnastiche da ballo. Alla fine tutto cambia, tutto si rimescola: e può accadere che i rivali di ieri diventino alleati, come appunto nel caso di De André e della PFM. Il loro tour insieme, e il disco che ne viene, fanno scandalo; perché nella guerra per bande che si era combattuta per lunghi anni, o stavi dalla parte dei cantautori o da quella dei rocker. Nessuna mediazione possibile. Faber e la PFM insegnano il contrario, e vincono sul campo le diffidenze degli schieramenti avversi.
E’ il primo tour vero di De André, in un mondo di concerti che non potrebbe essere più diverso. Oggi si va negli stadi e nei teatri a onorare l’artista, a esprimere il proprio amore incondizionato – impensabili i fischi o la contestazione. Nel 1979 siamo invece ancora agli psicodrammi, alle proteste plateali, ai lanci di monetine se non di lattine; ai processi pubblici, anche, com’è toccato a De Gregori. E’ una conseguenza del clima sociale e politico di quei giorni, e il motivo per cui i grandi show dell’epoca non si sono visti in Italia per buona parte dei ‘70 – per godersi la musica dal vivo gli appassionati dovevano sobbarcarsi trasferte in Francia, in Svizzera, in Germania.
Fabrizio e la PFM sfatano molti tabù. Qualcuno ancora lancia invettive dalla platea e rinfaccia a De André quel famoso concerto a Viareggio, alla Bussola “dei borghesi”. Ma sono gli ultimi fuochi. Inizia un’altra epoca, iniziano gli anni ‘80.
1981
Fabrizio De Andrè (L’indiano)
Davanti alle difficoltà anche drammatiche del presente siamo sempre portati a pensare al passato come a un’oasi felice. Il passato è per l’appunto passato, quindi si è sgravato di ogni tensione e preoccupazione. Però a pensarci bene il 1981 in cui esce “l’indiano” è proprio un anno duro anche a distanza, anche solo a ricordarlo. Fabrizio sta ancora curandosi le ferite del rapimento e intorno vede un mondo impazzito dove impera la violenza. Alcuni grandi leader mondiali subiscono attentati che hanno un grande clamore mediatico: Ronald Reagan, da poco presidente degli USA, rimane ferito in un’aggressione a mano armata e lo stesso accade al Papa, Giovanni Paolo II, colpito in piazza San Pietro da due proiettili sparati da un attentatore turco, Ali Agca. La sorte peggiore tocca al presidente egiziano, Sadat, ucciso come in un film durante una parata militare, dai soldati del suo stesso esercito. In Italia il 1981 è l’anno dello scandalo P2, l’anno in cui si scopre che la corruzione agli alti livelli è ancora più estesa e corrosiva di quanto il pessimismo e la diffidenza degli italiani già da tempo immaginavano.
L’aria è sempre plumbea, ma Fabrizio sa volare alto e tracciare un percorso di libertà che passa per le idee e la cultura di popoli nobili e fieri: come il popolo sardo e i nativi americani. Sono argomenti forti e stimolanti anche se, a dire il vero, il gusto del pubblico sta scivolando verso temi più frivoli. Inizia l’epoca dell’ “edonismo reaganiano”, per dirla come una gag famosa di quel programma di Arbore. Un’epoca di estetismo, di vanità – con voglia accanita, anche, di essere nuovi e moderni. Circolano i primi personal computer, quelli che oggi imbarazzano anche i rigattieri, e di lì a un anno la rivista Time, con un gesto paradossale e significativo, nominerà quello strano oggetto “personalità dell’anno”. I dischi però restano i vecchi padelloni in vinile e la musica si registra ancora su macchine a nastro. Per il computer in sala di registrazione ci vorrà tempo.
1984
Creuza de mä
Nel 1984 non si parla ancora di “globalizzazione” ma è vero che c’è un’attenzione diversa per quello che accade fuori dai confini. Le frontiere del mondo non sembrano più così rigide, le notizie rimbalzano con più celerità da una parte del mondo così come le mode, le culture. C’entra la televisione, fondamentalmente, sono le TV che cominciano a rendere piccolo il mondo, iniziando un discorso che i satelliti e Internet completeranno con effetti inimmaginabili.
De Andrè respira quell’aria e con lui Mauro Pagani, il partner scelto per il nuovo disco. Ci si apre al mondo intorno e il primo mondo che si incontra è quello dei Paesi dall’altra parte del Mediterraneo – il Maghreb, l’Egitto, il vicino Oriente, la Grecia con la sua collana di isole e di culture. Quello che ne viene è un mosaico straordinario che fa cadere le coordinate geografiche e anche quelle temporali. Fabrizio e Mauro sono uomini antichi che raccontano storie eterne usando una lingua millenaria come il genovese e moduli musicali che invece sono nuovissimi, una fusion mai ascoltata prima. Con gli strumenti che abbiamo oggi viene più facile, oggi abbiamo la parolina “world music” per spiegare tutto e trovare una comoda etichetta. Nel 1984 però la “world music” ufficialmente non esiste e neanche la cugina diletta, l’etnica. I dischi di musiche locali, quando si trovano, sono isolati negli scaffali dei negozi in un ghetto chiamato “folklore”. Due anni prima di Creuza de ma’ Peter Gabriel ha organizzato in Gran Bretagna un bellissimo festival di musiche del mondo di cui non ha parlato quasi nessuno, “Womad”. Ha avuto un tale insuccesso che, per ripianare i debiti, Gabriel ha dovuto fare l’unica cosa che proprio aborriva: riunirsi in scena con i vecchi compagni Genesis.
Ecco, questo è il clima quando esce Creuza de ma’. E’ bello sentirsi dare del profeta, molto più difficile scommettere una profezia quando nessuno sembra darti retta. La grandezza di quest’album sta proprio nella clamorosa anticipazione dei tempi. Fosse uscito qualche anno dopo, sarebbe stato “a tempo” e avrebbe venduto forse il triplo. Ma come ha detto bene una volta Ivano Fossati, “non sarebbe stato De André se si fosse limitato ad andare ‘a tempo’”.
1990
Le nuvole
Il mondo come lo conosciamo oggi inizia negli anni delle “Nuvole”. Nel 1989 è caduto il muro di Berlino e Gorbaciov, il nuovo leader dell’Unione Sovietica, prende coscienza di essere un traghettatore dal comunismo a un sistema più democratico. Si sgretola il vecchio mondo, viene abbattuta la cortina di ferro tra Est e Ovest e una massa enorme di europei comincia a riversarsi fuori dai confini. Il mondo è sempre più globale, aiutato da una tecnologia che sa essere generosa e non solo minacciosa, come lo scudo spaziale propagandato da un Reagan che ha visto troppe volte “Guerre stellari”. La tecnologia moltiplica le informazioni TV, migliora la sanità rendendoci gli umani più longevi dalla fondazione del pianeta e accelera con ritmo vertiginoso le connessioni tra individui – si diffondono i primi cellulari, sta per aprirsi il sipario su Internet. La guerra, purtroppo, va sempre di moda. Il 1990 è l’anno della sciagurata invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, la madre di tutte le disgrazie che ancora oggi ci affliggono. Tempo pochi mesi e gli Stati Uniti reagiranno con la prima guerra del Golfo.
De Andrè vede un legame tra questo mondo nuovo e un mondo molto vecchio – l’Ottocento, le grandi potenze che si disgregano e si ricompongono, gli ideali libertari che si esprimono nel Risorgimento. Vorrebbe dipingere tutto un album così, come un affresco forte e inquietante, ma si ferma a qualche spunto soltanto e preferisce rimanere in equilibrio tra pessimismo e speranza, tra sguardo caustico alla realtà e il balsamo benefico del ricordo e della fantasia. L’Italia che lo circonda è particolarmente brutta, nell’ultima stagione della Prima Repubblica, quando i parassiti si sono moltiplicati sulla pianta succhiandone la linfa fin quasi alla morte - quando la mafia, la ndrangheta, la camorra spadroneggiano in larga parte del Sud e si propongono sfacciatamente come interlocutori dell’autorità, Stato nello Stato. Il disprezzo, l’indignazione, il disgusto di Fabrizio stanno soprattutto nella Domenica delle salme, con il suo umore caustico, il suo veleno civile. Due anni dopo, in un momento ancora più cupo, Franco Battiato scriverà Povera patria. Sono due facce della stessa moneta: il prima e il dopo, la denuncia sarcastica e il dolente epitaffio.
1996
Anime salve
L’Italia di “Anime Salve” è l’Italia della Seconda Repubblica, come si dice con una ingegnosa menzogna. In realtà poco sembra cambiato rispetto a prima, anche se non ci sono più i vecchi partiti – la DC è sparita, il PCI non si chiama più PCI, così come l’MSI. E’ apparso all’orizzonte Silvio Berlusconi con Forza Italia, il centrosinistra si riorganizza con l’Ulivo. Circolano timide speranze che le cose non saranno più quelle di prima, speranze in fretta frustrate: “La domenica delle salme”, purtroppo, non è una canzone dell’estate – è un evergreen.
Intorno alla nuova/vecchia politica c’è un’Italia che cambia profondamente, in fermento, senza più le contrapposizioni frontali di una volta ma con scosse traversali ancora più inquietanti. E’ l’Italia che sta diventando una società multietnica e ne ha paura, e reagisce arroccandosi e dividendosi su accoglienza e tolleranza. I primi flussi migratori sono quelli da Est, dall’Albania soprattutto, come ha raccontato magistralmente Gianni Amelio in “Lamerica”. Ma presto crolleranno tutte le frontiere, e il mondo dei poveri d’Africa, Sudamerica, Asia non farà sentire solo la sua voce ma imporrà la propria presenza. DeAndrè non schiva l’argomento, sente questo peso ma sente anche che non se ne può uscire con il rifiuto e l’egoismo. Torna un tema che gli è caro fin dagli anni giovani, lo stesso di “Tutti morimmo a stento”; solo l’amore e la solidarietà possono salvare il mondo, perchè, sono parole sue, “è la mancanza di pietà che trasforma la nostra vita in un lungo cammino di morte”.
“Anime salve” diventa così un disco di tormentata speranza, una luce ostinata nelle tenebre. L’ultimo disco. Dopo, resterà sulla carta il progetto di un grande requiem per il Novecento, una marcia funebre per dove forse l’equilibrio a fatica raggiunto in “Anime Salve” avrebbe lasciato il posto al più cupo pessimismo. Meglio così. L’ultimo De Andrè che ci viene a trovare è capace di una canzone come “Ho visto Nina volare”, sull’altalena, è il caso di dirlo, di dolci ricordi d’infanzia. In un angolo della sua anima, Fabrizio è rimasto un fanciullo innocente che non ha ingoiato l’amaro della vita.
“Fabrizio De André. La mostra”, a cura di Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica e Pepi Morgia, ideata da Studio Azzurro, è promossa da Comune di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, Sovraintendenza ai Beni Culturali, Fondazione Fabrizio De André onlus, Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Zètema Progetto Cultura, main sponsor ERG, in collaborazione con Banche Tesoriere del Comune di Roma: BNL – BNP Paribas, UniCredit Banca di Roma, Monte dei Paschi di Siena, il Gioco del Lotto, Atac, Vodafone, catalogo edito da Silvana Editoriale.
Attraverso la narrazione virtuale, multimediale e interattiva viene proposta al pubblico un’esperienza emozionale, attraverso cui ognuno potrà mettersi in relazione con l’universo di “Faber”. Il racconto e la rappresentazione visiva, testuale e musicale si offrono dense di suggestioni ed emozioni e il pubblico, potrà di volta in volta scegliere quale immagine di “Faber” sviluppare per sé, in relazione con il proprio vissuto.
La mostra affronta i grandi temi della poetica di De Andrè: la società del benessere e il boom economico degli anni ’60, gli emarginati e i vinti, la libertà, l’anarchia e l’etica, gli scrittori e gli chansonniers, le donne e l’amore, la ricerca musicale e linguistica, l’attualità nella cronaca, i luoghi rappresentativi della sua vita; tutto ci trasmette la sua capacità di parlare al singolo ma di essere nel contempo universale, riconosciuto e amato dalle persone di ogni genere e età.
Il percorso della mostra
Primo ambiente - La poetica
Accolgono il visitatore sei schermi trasparenti allineati in prospettiva ottica (100x200cm ciascuno) che raccontano altrettanti temi: Genova, l'amore, la guerra, la morte, l'anarchia, gli ultimi. Il visitatore può approfondirli seguendo i manoscritti di alcune canzoni, illustrati da filmati d’attualità, fotografie e videointerviste a Fabrizio.
Sulle pareti si potrà esplorare il mondo di “Faber” attraverso le stesure - provvisorie e no - di alcune canzoni, dalla “Canzone del Maggio” a “Creuza de ma”, al work in progress de “La domenica delle salme”, fino ad appunti di lavorazione inediti per il disco, mai realizzato, dei “Notturni” che avrebbe dovuto far seguito ad “Anime salve”.
Secondo ambiente - La musica
Un percorso interattivo racconta la produzione discografica di Fabrizio. Una serie di piccoli pannelli, che riproducono le copertine dei principali dischi di studio, possono essere scelti e posizionati su appositi tavoli multimediali, attivando una serie di proiezioni. Il visitatore potrà così “incontrare” Fabrizio, i suoi amici e collaboratori, il critico Riccardo Bertoncelli che, con i loro contributi, inquadreranno il periodo storico e il clima sociale in cui quel disco è stato prodotto, i meccanismi della scrittura e della registrazione, etc. Tutto completato da contributi video tratti da apparizioni televisive e concerti.
Alcune bacheche raccolgono tutta la sua discografia ufficiale fin dal primo 45giri “Nuvole barocche”, accompagnata da svariate chicche, tra cui le matrici originali dei primi dischi Karim, locandine ormai introvabili, elementi grafici e provini fotografici delle “session” da cui sono state ricavate le copertine dei dischi più famosi. E ancora alcuni pregevoli “sguardi d’autore”, una sorta di piccola galleria di immagini realizzate dai fotografi che hanno seguito più da vicino Fabrizio durante la sua vita, tra cui Mimmo Dabbrescia, Luca Greguoli, Guido Harari, Reinhold Kohl, Francesco Leoni e Cesare Monti.
Terzo ambiente - I personaggi/I tarocchi
Qui il visitatore “incontra” i personaggi delle canzoni di Fabrizio. Vicino ai tarocchi originali, creati da Pepi Morgia per la scenografia della tournée de “Le nuvole”, sono posizionati tre schermi della stessa forma e dimensione. Sono tarocchi virtuali dentro cui appaiono trentuno personaggi: il Miché, Nina, il matto, Geordie, Piero, Marinella, Teresa, Bocca di rosa, l’ottico, il bombarolo, Angiolina, Sally, Carlo Martello, Andrea, Prinçesa, il gorilla, il giudice, il suonatore Jones, Jamina, i rom di “Khorakhané”, il pescatore, Franziska, Suzanne, Maddalena, Tito, Nancy, Sinan Capudan Pascià, il fannullone, le prostitute di “A dumenega” e la Morte.
Su una lavagna touch-screen si potrà scegliere il proprio personaggio preferito e creare un tarocco personalizzato optando tra una gamma di immagini e di segni grafici e anche aggiungendo un testo. Collegandosi poi al sito della mostra (www.fabriziodeandrelamostra.com) si potrà personalizzare ancora di più il proprio tarocco. Questi tarocchi personalizzati verranno poi proiettati in loop su un’altra lavagna.
In uno spazio attiguo campeggerà il pianoforte di Fabrizio, proprio quello che faceva bella mostra di sé nel grande salone di Villa Paradiso e con cui il cantautore appare ritratto in molte sue foto giovanili.
Fa parte di questo terzo ambiente anche una Sala Cinema - Fabrizio in video. Sullo schermo scorrerà senza soluzione di continuità un “rullo” di oltre 5 ore, con tutti i contributi video presenti nell’archivio della Rai, presentati per la prima volta in versione integrale e con molti inediti: apparizioni televisive, interviste, concerti, momenti di intimità, tutti raccolti in un corposo affresco da Vincenzo Mollica.
Quarto ambiente - La vita
Una dettagliata cronologia e nuovi “sguardi d’autore”, con stampe fotografiche di grande formato. Il visitatore potrà scegliere tra 25 immagini riprodotte su altrettante lastre di plexiglas che potranno essere inserite in apposite cornici su cavalletti, che ricordano in maniera stilizzata i vecchi banchi ottici. Una volta posizionate, le lastre attiveranno una serie di proiezioni di immagini, filmati, videointerviste e altro ancora, legati a un determinato periodo della vita di Fabrizio.
Nicchia sotto il monumento dell’Ara Pacis – Tracce di una vita
Quattro teche raccolgono una selezione di significative tracce di una vita: dai primi bigliettini scritti alla madre Luisa, in cui Fabrizio cerca di giustificare e di invocare perdono per le sue mancanze scolastiche, a una biografia di Fabrizio stilata a mano dalla madre per i giornalisti, alcuni libri e agende disseminati di appunti di lavoro e di citazioni annotate, una sua lettera al poeta Mario Luzi, un’altra lettera, stavolta drammatica, di Fabrizio al padre Giuseppe scritta durante la prigionia sul Supramonte e controfirmata da Dori, fino al volume annotato delle “Effemeridi” da cui, da vero appassionato di astrologia, non si separava mai.
Nel punto più centrale e riposto della Nicchia, le stesure “in progress” di “Smisurata preghiera”, il testamento spirituale di Fabrizio, compresa la versione spagnola (“Desmedida plegaria” nella preziosa traduzione del poeta colombiano Alvaro Mutis) interpretata da De André per il film “Ilona viene con la pioggia”, mai pubblicata su disco.
La Nicchia ospita anche una serie di preziose xilografie dell’artista americano Stephen Alcorn, da sempre estimatore dell’opera di De André.
Una mostra che invita il visitatore ad essere attivo scegliendo quale immagine di “Faber” sviluppare per sé, in relazione con il proprio vissuto, a personalizzare il proprio percorso, non suddiviso rigidamente per aree tematiche e cronologiche, ma organizzato in modo da rendere il racconto e la rappresentazione visiva, testuale e musicale, densi di suggestioni ed emozioni.
La dolce anarchia di Fabrizio
Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica, Pepi Morgia
A dieci anni dalla sua scomparsa Fabrizio è più vivo che mai: nei tanti concerti che lo ricordano, nei convegni che si susseguono, nei libri che segnano la sua memoria. Difficile immaginare che oggi qualcuno, perfino un adolescente, non conosca il nome di Fabrizio.
Proprio per questo non è una computazione enciclopedica ciò che questa mostra vuole offrire. Semmai si è scelto di tracciare il percorso di una vita e di una poesia-canzone nella sua molteplicità, nelle contraddizioni, nelle pieghe intime, spesso contraddittorie, di colpi di genio, di abbagli e anche di zone d’ombra.
Grazie a moderne tecnologie il visitatore può guidare il gioco e farlo suo, può scoprire o riscoprire passaggi di tempo e di pensiero, grazie anche agli innumerevoli contributi in video di amici e collaboratori di Fabrizio, alle testimonianze sentite di Dori e di Cristiano, e alle interviste realizzate con Fabrizio stesso dalla Rai. A queste suggestioni interattive si accompagnano oggetti, ricordi materiali, come manoscritti, libri annotati, dischi, matrici fonografiche, locandine, fotografie, strumenti musicali ed elementi scenografici. Risultano tutt’altro che scaglie mute del passato, ma voce viva, materia in movimento, cibo per il cuore e per la mente, per chi ama da sempre Fabrizio e per chi, anagraficamente sfortunato, non ha neppure fatto in tempo a vederlo in concerto.
Fabrizio aveva fatto sua la massima di Leonardo Sciascia, secondo cui un uomo di cultura ha il dovere di esprimersi in maniera popolare.
La sua intelligenza aveva trovato fiato nella forma canzone. Attraverso questa ha sempre cercato di risvegliarci dal sonno della coscienza, dall’appiattimento programmato di un pensiero sbrigativo e di comportamenti asserviti. Con rabbia, con satira feroce, con semplice genialità, con quella sua dolce anarchia che voleva ricordarci, in ogni modo, di pensare con la nostra testa.
La rivoluzione comincia dentro ciascuno di noi.
Per non farsi sfuggire il suo sguardo
Studio Azzurro
“Non chiedete a uno scrittore di canzoni
che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera:
è proprio per non volerverlo dire
che si è messo a scrivere.
La risposta è nell’opera.”
Fabrizio De André
Non si tratta solo di fare un tributo, ma di ricomporre i frammenti di un pensiero complesso, di rimappare un territorio creativo senza cedere a una facile celebrazione. Si tratta di conservare uno sguardo che si è dimostrato attento, lucido e dissacratorio per continuare a farlo dilagare nei nostri mondi, nei nostri scenari sociali, per far sì che continui a contaminare il nostro immaginario.
Non basta conservare la memoria dell’uomo o distrarsi nei feticci e nelle reliquie da collezione, è necessario mantenere la forza della sua analisi, la potenza disvelante della sua poesia.
È difficile immaginare di mettere in mostra De André, ma è interessante immaginare un percorso che si confronta con il suo pensiero, ricreare la costellazione delle sue tematiche, dei suoi personaggi prediletti e delle sue intuizioni per articolarla in una maglia aperta in cui i visitatori possano inserire nuovi significati e nuove associazioni.
Si è sviluppata, con questi presupposti, una narrazione multimediale che si inoltra nella fitta trama delle parole del cantautore – rintracciate nelle poche interviste televisive, nelle molte canzoni e tra gli infiniti appunti – e va incontro ai visitatori per reagire ai loro gesti e alle loro scelte. Questo ipertesto, composto da suggestioni visive e sonore, si propaga nello spazio della mostra, senza cedere alla spettacolarizzazione, senza tradire il potenziale di reale interazione e partecipazione che le tecnologie che utilizziamo portano con sé.
Diviene l’occasione per avviare dei processi, dei metodi di lettura, più che offrire dei racconti finiti e definitivi.
Si può parlare di Genova, dell’Amore e delle Donne, dell’Anarchia e della Libertà, degli Ultimi, persino della Morte e della Guerra attraverso le canzoni di De André, si può far esplodere il mondo di queste canzoni e cercarne le tracce nella nostra contemporaneità, addirittura nella nostra cronaca.
Khorakhanè può diventare il paesaggio sonoro delle immagini televisive di un campo Rom a cui è stato dato fuoco, Il testamento di Tito e il comandamento di non uccidere può scandire le sequenze video delle esecuzioni capitali praticate anche in paesi che si dichiarano democratici, Amico fragile può vivere per contrasto con le risate anestetizzanti che risuonano nel vuoto di molti
programmi televisivi, La domenica delle salme può riverberare sui volti dei politici in ferie dalle loro responsabilità. Questo è il ritmo visivo che invade la prima area della mostra e che prosegue per evocazioni e libere associazioni.
La poetica e le parole di De André si intrecciano con le sequenze video estrapolate dal flusso mediatico che circonda i nostri quotidiani e, senza esprimere giudizi definitivi, sembrano suggerire qualcosa che forse era sfuggito, sembrano incoraggiare a mantenere uno sguardo più attento.
A questa cadenza, scandita dalle riflessioni del cantautore, si accosta, in un area successiva, quella ricreata dall’alternarsi dei personaggi da lui inventati.
Entrando in questa sala il visitatore si trova letteralmente invaso dai protagonisti delle canzoni di De André, rivisitati come figure appartenenti all’universo dei tarocchi, un mondo che il cantautore aveva scelto come scenografia per la sua ultima tournée. In un grande trittico video si susseguono dei personaggi simbolo, atemporali, ma allo stesso tempo molto umani: Piero, immaginato come un soldato burattino, Marinella, una ballerina intrappolata in un carillon, Geordie, che fugge tenendo in mano una testa di cervo, Nancy, in equilibrio precario su una fune. Ci ricordano i protagonisti del Castello dei destini incrociati di Calvino, che rimasti senza parole usano i tarocchi per continuare a raccontare la propria storia.
Il gioco immaginativo anche in questa sala viene allargato ai visitatori che, in mostra o in rete, attraverso un’interfaccia progettata ad hoc, possono assemblare foto, video, grafiche e ricreare un montaggio-collage di questi personaggi, utilizzando materiali già predisposti o inserendone di nuovi. Che occhi e che lineamenti hanno gli eroi sconfitti di De André, le puttane, i carcerati, gli ubriaconi, i fannulloni? È bello poterlo chiedere a chiunque voglia e possa immaginarlo e le tecnologie partecipative hanno questo potenziale.
Il percorso per immagini e suoni si concede anche delle pause più riflessive, in qualche modo più didascaliche, nelle sale dedicate alla discografia e alla vita.
La voce di Fabrizio si confronta con quella dei collaboratori e di chi gli è stato accanto nella vita, si tratta di una grande quantità di interviste, molte realizzate per l’occasione, che a volte sembrano discordanti o di difficile assonanza, ma che il visitatore ricostruisce attraverso la propria percezione.
Fac-simili dei dischi originali e lastre fotografiche delle foto più rappresentative della vita del cantautore, affollano le sale per essere scelte, spostate e appoggiate su tavoli sensibili o cavalletti fotografici capaci di rivelare la loro porzione di memoria. Sono supporti fisici che conservano virtualmente la propria storia, ma che per essere attivati devono essere scelti e interrogati dal visitatore, riordinati per comporre una propria e personale idea sulla vita di Fabrizio De André.
I miei personaggi
Fabrizio De André
Carlo Martello
Con Paolo Villaggio scrivemmo la mia canzone “sconcia” più famosa, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Eravamo un po’ goliardi, un po’ intellettuali, un po’ sporcaccioni. Mettevamo la parola “puttana” in una canzone, il tutto lasciando intendere di conoscere la musica antica e la storia. Con questa canzone ho voluto demitizzare quel certo alone che siamo abituati a porre intorno ai personaggi storici. Tendiamo a divinizzarli dimenticando che furono uomini come noi, con voglie e difetti umani. La mia, dunque, non è oscenità, ma lotta alla retorica che, nonostante il cosiddetto progresso, continua a condizionarci. Il guaio è che la gente è innamorata dei suoi miti, e non sempre gradisce vederseli demolire.
Marinella
Marinella nacque dalla storia vera di una ragazza, figlia di contadini, che a sedici anni rimase orfana e senza casa, sottrattale da parenti predoni. Fu quindi costretta al marciapiede. Due anni dopo un cliente la scippò, la uccise e la gettò nel Tanaro. Quando lessi questa storia su un giornale locale, credo “La Provincia” di Asti, ebbi l’impulso di fare qualcosa per lei nell’unico modo che potevo: con una canzone. Visto che non potevo più cambiarle la vita, decisi di cambiarle la morte, e scrissi questo testo come una sorta di riscatto, come una fiaba. Ma che musica poteva esserci per una storia così?
Piero
La guerra ha influito su di me in modo più indiretto, anche se emotivamente molto forte. Furono soprattutto i racconti di mio zio Francesco, fratello di mia madre, a imprimermi ricordi incancellabili. Dopo l’ultimo conflitto mondiale tornò dal campo di concentramento in Germania come stralunato, e quei piccoli ricordi che mio fratello e io riuscivamo a strappargli di bocca, erano evocativi di scene oggi inimmaginabili. Nel 1962 avrei scritto La guerra di Piero ripensando a quei suoi racconti.
Bocca di rosa
La ragazza che mi ispirò Bocca di rosa entrò in casa mia un pomeriggio in cui ebbi la fortuna di avere i parenti altrove. Bocca di rosa è immortale, perché non si mette contro il suo destino. A lei interessa la conquista. Non è una puttana, è una che ama e si fa amare. E sa che l’amore migliore è quello che non ha futuro.
Il suonatore Jones
Scrissi Il suonatore Jones una mattina molto presto, di getto. Nacque da un testo toccante che parla d’un tale che vive dando la sua musica agli altri. Anch’io sognavo di passare la mia vita dando musica agli altri, così mi rispecchiai in quei versi. Io credo sempre nell’uomo e nelle sue risorse. Il suonatore Jones fa da contrappeso agli altri personaggi dell’antologia di Spoon River; è lui a indicare la vera via alla felicità. Vive in campagna, lontano da tutto e da tutti, assaporando la meravigliosa musicalità che gli arriva dalla natura. Per lui la musica non è un mestiere, è un’alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dire se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio. La morale del “mio” Spoon River è quindi “contentarsi di poco per vivere felici”.
Il bombarolo
Quando è uscito Storia di un impiegato, scritto in un anno e mezzo tormentatissimo, avrei voluto bruciarlo. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile. Ecco il soggetto. Un impiegato, un colletto bianco che non appartiene a nessuna classe sociale, ispirato dal maggio francese, cerca il riscatto con un gesto da anarchico individualista: una bomba. Finisce in prigione e qui capisce, finalmente, molte cose: soprattutto che la rivolta individuale è solo un fatto estetico, che è necessaria un’azione collettiva per cercare di cambiare le cose. L’idea del disco era affascinante: dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico. Un artista non dovrebbe mai rinunciare alla sua percentuale di diritto al mistero, e invece ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi.
Nancy
Nancy è la storia di una donna che si prostituisce non per sua vocazione. Ce l’ha costretta la fallocrazia: una parola composita che deriva dal greco (crazia, cioè governo) e dal latino (fallo, cioè c***o): quindi fallocrazia vuol dire “governo del c***o”! Nancy è stata costretta a essere una femminista ante litteram, per crearsi il proprio spazio di potere personale, la propria possibilità di vivere, al di fuori delle regole fallocratiche. Ho tradotto alla lettera questa canzone dal repertorio di un cantautore canadese, Leonard Cohen, che l’ha tratta da un fatto realmente avvenuto a una sua amica. Il che vuol dire che, anche in questo Svizzerone del Nord America che è il Canada, succedono le stesse cose che succedono da noi.
Andrea
Di Andrea è proprio la dinamica della canzone che non consente di captarne il significato. Per esempio, Andrea nei paesi di lingua tedesca è un nome femminile. Bubola e io abbiamo scritto in maniera talmente tranquilla dei “riccioli neri” e del “fondo del pozzo”, che sembrava una storia d’amore normale. Solo che si trattava di un lui che parlava a un altro lui. Forse non l’abbiamo resa più esplicita perché non volevamo, per delle pruderie ridicole, che qualcuno pensasse che fossimo omosessuali.
Teresa
Rimini ha come protagonista la piccola borghesia e come centro storico la città dei “vitelloni” di Fellini. Parla dei sogni di una ragazza piccolo borghese, figlia di un droghiere, vittima del pettegolezzo di un aborto. Sognatrice come i piccoli borghesi, fa credere che il suo fidanzato sia stato ucciso a New York durante la “caccia alle streghe”, sogna di incontrare Colombo e di mettergli le manette. È seduta all’Harry’s Bar, illudendosi di essere quella che non è. Il disco è il tentativo di riconoscere la crisi della piccola borghesia italiana, che è di non prendere mai posizione e di rassomigliare il più possibile alla borghesia vera, quella che ha dettato le regole del modo di vivere degli ultimi quarant’anni e forse più.
’Â duménega
’Â duménega racconta delle puttane che nella vecchia Genova erano relegate in un quartiere, ma, tra i diritti che erano loro riconosciuti, c’era quello della passeggiata domenicale. Questo Eros Center dell’epoca veniva dato in appalto dal Comune e, attraverso i relativi guadagni, pare che Genova riuscisse a coprire quasi totalmente le spese dei lavori portuali. Naturalmente fuori dal quartiere erano disprezzate da tutti e alla domenica ricevevano insulti dovunque andassero: “A Ciamberlin sussa belin” (“Pianderlino succhiacazzi”), “A Fuxe cheusce de sciaccanux” (“Alla Foce cosce da schiaccianoci”), “In Caignan musse de tersa man” (“A Craignano fiche di terza mano”) e “In Puntexellu che mustran l’oxellu” (“E a Ponticello gli mostrano l’uccello”).
Jamin-à
Quando pensa al sesso, il marinaio ricorda Jamin-à, il coitus interruptus della sosta in porto. Non certo la moglie onesta che l’aspetta a casa. Mio nonno avrebbe potuto dire, prima di morire, come il Gattopardo: “Non ho mai visto l’ombelico di mia moglie”.
Sinàn Capudàn Pascià
Sinàn Capudàn Pascià l’ho ricavata da una notizia letta in un volumone del 1944 sottratto alla biblioteca di mio padre e intitolato Mediterraneo. Verso la fine del Cinquecento viveva il Cicala, un marinaio della repubblica genovese, che fu catturato dai turchi durante una battaglia a Jerba. Con il suo comportamento, che qualcuno potrà definire equivoco e opportunistico, riuscì a diventare da prigioniero a serraschiere del Gran Visir con il nome di Sinàn Capudàn Pascià. Il fatto storico esiste, ma il resto della canzone è immaginato. Cosa avrei fatto io al posto suo? Me la sarei cavata prima di tutto non tirando fuori la spada e cercando di leccare un culo a destra e uno a sinistra, facendomi la mia carriera.
Tito
Il testamento di Tito è, insieme ad Amico fragile, la mia miglior canzone. Dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha. È un altro di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici, che riesco a cantare ancora oggi, senza stancarmene. Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo. Inteso come fondazione della Chiesa, il cattolicesimo ha rovinato tutto. I vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica.
Amico fragile
La canzone più importante che abbia mai scritto è forse Amico fragile, ed è sicuramente quella che più mi appartiene. È un pezzo della mia vita con cui sono riuscito a vincere la strana entità che mi aggredisce per portarsi via una canzone. L’ho scritta in una notte dopo essere andato a una festa in una di quelle ville nel parco residenziale di Portobello di Gallura. Era un momento di oscurantismo in cui Paolo VI aveva tirato fuori certe storie sugli esorcismi. Ai medici, avvocati, gente di un certo livello culturale, presenti alla festa, volevo parlare per sentire il loro parere al riguardo, e invece anche quella sera, come tutte le sere, finii con la chitarra in mano. Cantai delle canzoni, poi riprovai a parlare con loro; niente, cercarono di rimettermi la chitarra in mano. Allora mandai tutti a quel paese, mi ubriacai sconciamente e mi rifugiai nel mio garage. Quando, alle otto del mattino dopo, mia moglie Puny mi ritrovò, avevo già scritto le parole e la musica di Amico fragile. Il racconto di un artista che sa di essere utile agli altri, eppure fallisce il suo compito quando la gente non si rende più conto di avere bisogno degli artisti.
Bi e Bo
Dori Ghezzi
Il primo incontro
Ammiravo Fabrizio come tutti, ma non ero una particolare fan. Non avevo mai approfondito quello che raccontava, eppure lo trovavo interessante e affascinante.
Lo incontrai la prima volta nel 1969, in occasione di un premio, la Caravella d’Oro, dove io fui premiata (e mi viene da ridere) per il Casatchok, mentre lui per un lavoro di ben altro spessore, Tutti morimmo a stento. Era lì con sua moglie Puny, che in seguito ebbi modo di conoscere e diventammo anche amiche, e mi sorpresero i suoi sguardi insistenti. Mi dissi che, se mi accorgevo dei suoi sguardi, forse anch’io ero interessata a lui, ma tutto finì lì perché nessuno ci presentò.
Ci furono altri incontri casuali, magari in qualche ristorante, con gli stessi sguardi furtivi della prima volta, finché nel marzo ’74 lo ritrovai negli studi di registrazione Fonorama, poi Ricordi. Era un multisala: io lavoravo in una, lui in un’altra, e ci incontrammo al bar per un caffè. Con noi c’era un amico comune, l’autore che in quel momento stava lavorando con me, Cristiano Malgioglio.
Cristiano viveva a Genova, conosceva Fabrizio e ci presentò. Fabrizio fu gentilissimo, ci invitò nel suo studio per ascoltare quello che stava registrando, una canzone che s’intitolava Valzer per un amore. Col senno di poi, mi sono accorta che in qualche modo la cosa già mi riguardava: “Quando carica d’anni e di castità / tra i ricordi e le illusioni / del bel tempo che non ritornerà / troverai le mie canzoni”, in qualche modo già me la stava dedicando. Ci scambiammo i numeri di telefono, con la promessa di risentirci, e il giorno dopo mi chiamò. Cominciò così la nostra bella favola.
Un nuovo approdo
Fabrizio era una persona molto aperta. Quando lo conobbi, sentivo in lui la necessità di raccontarsi agli altri. Era un periodo difficile, stava probabilmente cercando un approdo. Era insoddisfatto di come procedeva la sua attività di artista e, anche nell’ambito familiare, qualcosa già non funzionava più.
Ebbi la sensazione netta che cercasse il conforto di qualcuno con cui poter condividere il suo futuro, che potesse comprendere le sue esigenze, anche la necessità di scelte difficili a una certa età, come la decisione di lasciare una città come Genova per andare a vivere in un posto sperduto tra le montagne della Sardegna. Tutto questo affiorò qualche tempo dopo, ma non rappresentò una difficoltà per me, che ero già molto presa e innamorata di lui.
Non fu difficile innamorarsi di Fabrizio: era una persona veramente affascinante, magnetica, che sapeva mettere a proprio agio. Era convintissimo di avere molto da imparare dagli altri: ascoltava e assimilava cose per lui interessanti e, addirittura, riusciva a far capire a ogni persona cosa avesse di buono dentro senza saperlo. Riusciva a tirare fuori sempre il meglio di tutti.
E questa forse è stata la molla più importante, quella che in fondo mi ha fatto crescere e pensare che, tutto sommato, era possibile convivere con una persona come lui, con questo cosiddetto mostro sacro, che mostro sacro non voleva essere.
Avendo anch’io fatto la cantante (cantavo o credevo di cantare), ero abituata, come lui, a fare le ore piccole. Ma di piccolo avevamo anche una figlia, Luvi, e cercavo di conciliare le due cose. Di notte, stancamente, condividevo la vita comune e artistica di Fabrizio: amava consultarsi e capire se stava andando nel verso giusto, se quella frase o quel testo mi piacevano. Mi coinvolgeva e, se anche già dormivo, spesso mi svegliava per farmi partecipare ai suoi interessi.
Da una parte ovviamente mi faceva piacere, dall’altra a volte mi svegliavo con la tachicardia. Non è stato difficile vivere con Fabrizio. È stato solo faticoso sotto questo profilo, perché la nostra vita era veramente intensissima e, proprio perché era interessante dedicarcisi il più possibile, bisognava dare quasi totalmente se stessi.
La famiglia De André
Cominciai a frequentare la sua famiglia in un periodo in cui il rapporto fra Fabrizio e suo padre Giuseppe era fra uomini maturi, e non più fra padre e figlio. Ho quindi saputo, attraverso dei racconti, della giovinezza di Fabrizio che era ritenuto un po’ la pecora nera della famiglia. Spesso aveva messo in difficoltà il padre come quando si fece sorprendere ad amoreggiare con una amichetta in chiesa e Giuseppe dovette darsi un gran da fare per risolvere la grana sorta col prete.
Giuseppe, che nella sua professione era considerato una persona che metteva soggezione, molto severo, molto esigente, mi è apparso come un uomo molto simpatico, che amava ascoltare e raccontare barzellette, se le appuntava addirittura per non dimenticarsele. L’uomo che ho conosciuto non era affatto “burbero” come invece era risultato a Fabrizio fin da piccolo, forse perché l’ho conosciuto già da tenerissimo nonno.
Con la madre Luisa, invece, c’era un rapporto di assoluta dolcezza: era una donna con certi limiti, nel senso che non era aperta al mondo, ma la sua famiglia era tutto per lei. Se la famiglia De André è stata così unita, lo dobbiamo proprio a lei. Infatti, Fabrizio la definiva il collante della famiglia.
Cantautore
È noto quanto la famiglia non sia stata mai d’accordo sulla scelta di Fabrizio di fare il cantante, perché allora la definizione di cantautore neanche esisteva, e la sua sembrava un’attività poco seria, da cialtroni. Eppure furono proprio loro involontariamente a spingerlo in quella direzione: non solo la mamma, che gli regalò la chitarra e gli fece studiare il violino, ma anche il padre e il fratello, che a loro volta erano dei musicisti, anche se per diletto. In casa De André campeggiava un bel pianoforte e c’era tanta musica. Una volta, di ritorno da un viaggio in Francia, il padre portò a Fabrizio dei dischi di Georges Brassens che furono per lui una scoperta totale. Ascoltavano insieme jazz e musica classica. Spesso si mettevano chi al pianoforte, chi alla chitarra, e cantavano insieme nelle serate con gli amici.
È innegabile però che, in un primo momento, Fabrizio fu costretto a non utilizzare il suo cognome sulle copertine dei suoi primi dischi, proprio per non coinvolgere la famiglia in una scelta non condivisa. Poi, nel tempo, si prese delle grandi rivincite perché, se in un primo momento qualcuno diceva “Ah, ma Fabrizio, il figlio discolo del professor De André e il fratello dell’avvocato Mauro De André?”, più avanti furono Giuseppe e Mauro a sentirsi chiamare “il papà di Fabrizio De André, il fratello di Fabrizio De André”.
Le letture
Fabrizio era onnivoro in fatto di letture, i suoi interessi erano veramente molteplici.
Quando l’ho conosciuto aveva già letto tutti i grandi classici, dai francesi ai greci, ai romani come Seneca. Credo veramente che non si sia fatto mancare nulla. Aveva una cultura veramente notevole. Era innamorato dell’astrologia, una scienza diversa. Amava approfondirne lo studio al punto da riuscire a fare da solo un quadro astrale o un oroscopo personale, attraverso calcoli difficilissimi.
Quando decise di fare l’allevatore e l’agricoltore, si riempì la casa di libri di ogni tipo, dall’allevamento dei bovini a quello dei tacchini, anche su aspetti di quel lavoro che poi non ha mai affrontato. Fabrizio era così: appassionato.
Per lui non esisteva un metodo codificato per far nascere una canzone. Di volta in volta, era sempre diverso. Fabrizio, leggendo un libro, vedendo un film, o leggendo un giornale, trovava uno spunto che annotava immediatamente, perché magari si connetteva a un progetto che aveva in testa oppure era semplicemente un aforisma che sarebbe poi rimasto isolato senza nessuna conseguenza.
Quando decideva di fare un disco, aveva già in testa ben preciso cosa voleva, l’argomento da approfondire, perché raramente era un disco di semplici canzoni, ma c’era sempre un filo conduttore che le legava tutte. Ho sempre avuto la sensazione che con i suoi collaboratori ne parlasse tantissimo, prima di riuscire a cominciare a comporre. Spesso poi succedeva che componessero anche per conto proprio o insieme o che, come raccontò Francesco De Gregori, ognuno aggiungesse una sua frase e poi l’altro da lì proseguisse.
Erano metodi veramente diversi di scrittura. Con Bubola il tutto era più collegiale, nel vero senso della parola: lavorarono più gomito a gomito, confrontandosi simultaneamente sulla frase da scegliere, su questa o quella parola.
Francesco
Ho conosciuto diversi collaboratori di Fabrizio. Il primo in assoluto è stato Francesco De Gregori, proprio perché all’inizio del nostro rapporto, esattamente il 4 aprile 1974, Fabrizio partiva da Milano, passando per Roma, dove avrebbe incontrato Francesco De Gregori, che poi sarebbe venuto con noi in Sardegna, a Portobello di Gallura, per lavorare su Volume 8.
Francesco, non lo conoscevo per nulla. Era un ragazzo che stava iniziando e aveva all’attivo un solo disco. Ne avevo soltanto sentito parlare, ma non avevo mai ascoltato nulla di suo. Fabrizio lo vide al Folk Studio di Roma (gli fu presentato dal fratello Luigi, anche lui cantautore) e ritenne che potesse essere un valido collaboratore. Intelligentemente, Fabrizio cercava collaborazioni perché in coppia non avrebbe corso il rischio – come sovente succede – di, come si suol dire, cantare sempre la stessa canzone. Aveva bisogno di divertirsi, facendo ricerca e rinnovandosi in continuazione e questa esigenza la sentiva appagata soprattutto attraverso confronti con linfe nuove e giovani.
Ricordo che Francesco aveva un concerto nel sud della Sardegna e andammo da Portobello con una Tre Cavalli o Quattro Cavalli, non ricordo. Facemmo su questa macchina il viaggio andata e ritorno, rientrando all’alba, in una località sperduta nel Campidanese. Fabrizio mi disse: “Ascoltalo e dimmi cosa ne pensi” e fin da allora mi resi conto di aver di fronte un artista non comune. Risposi infatti “A me sembra Gesù Cristo”, ma non solo perché portava i capelli lunghi e rossi, ma perché ebbi l’impressione di trovarmi davanti a una persona veramente straordinaria.
La collaborazione continuò. Io stavo loro vicino ma raramente ci trovavamo in tre: o stavo con Fabrizio, o stavo con Francesco, perché i loro tempi difficilmente coincidevano. Ci si trovava a commentare il lavoro che aveva fatto l’uno o l’altro, ma dormivo veramente poco in quel periodo, perché Fabrizio lavorava di notte, mentre Francesco prevalentemente di giorno.
Ogni volta, all’idea della realizzazione di un nuovo disco, Fabrizio si sentiva inchiodato a una forse eccessiva responsabilità, consapevole dell’attesa e delle aspettative del suo pubblico. Al tempo stesso, però, dal suo lavoro cercava di trovare sempre quell’entusiasmo e quella passione che non avrebbero tradito l’ascoltatore. Ecco perché ogni disco di Fabrizio si distingue dall’altro.
Era una continua scommessa, che dava risultati sorprendenti.
Nanda
Il mio grande rammarico è non aver conosciuto Fabrizio qualche anno prima, per tanti motivi, ma anche perché mi sarebbe piaciuto vivere da vicino la lavorazione di Non al denaro non all’amore né al cielo, in cui furono coinvolti, oltre a Nicola Piovani che ne curò gli arrangiamenti, Giuseppe Bentivoglio che è una persona straordinaria che frequento tuttora, anche se molto schivo, e poi Fernanda Pivano, uno di quegli esseri speciali che il Padreterno manda sulla terra così centellinati. Finita la lavorazione di Non al denaro, Fabrizio la perse un po’ di vista finché l’abbiamo ritrovata insieme più avanti, dopo qualche anno che vivevo con Fabrizio, e da allora finalmente non ci siamo più lasciati. Fernanda per noi è stata la famiglia, e anche noi per lei. Da sempre l’ho conosciuta come una donna piena di esperienze e di amicizie e aveva individuato in poche persone quelle che, secondo lei, rappresentano tuttora la sua famiglia. È una delle persone a cui voglio veramente più bene al mondo. C’è una speciale sintonia che ci lega e lei si comporta con me come se fosse veramente la mamma, la figlia, la sorella: è piena di attenzioni e di premure e di paure per il mio futuro.
Spesso mi dice che non devo fare la sua stessa fine, e io in fondo non capisco cosa intenda poiché per me rappresenta un esempio da seguire. E forse non è consapevole di quanto sia speciale per tutti noi. Viva Fernanda!
Concerti e pubblico
Fabrizio era da sempre riluttante a esibirsi in pubblico. Mi seguì più di una volta nei miei concerti, quando mi esibivo in discoteca e soprattutto nelle feste di piazza. Lo affascinava capire l’alchimia del contatto con il pubblico, e forse fu allora che scaturì il desiderio di conoscerlo finalmente da vicino. Forse, solo così avrebbe potuto continuare meglio a raccontare nuove storie, a conoscere e approfondire situazioni e mondi diversi che non gli appartenevano ancora.
Fabrizio fino a quel punto si era limitato a raccontare il suo vissuto in una Genova borghese e in quella poi trovata negli angiporti, cercata disperatamente anche contro la volontà della famiglia. E poi le sue infinite letture. Ma le esperienze vissute sulla sua pelle erano molto limitate per poter continuare a scrivere e a esprimere quello che aveva dentro. Capì quindi di aver bisogno del contatto col pubblico, un contatto meraviglioso perché, alla fine di ogni concerto, Fabrizio non se ne andava mai via prima di aver incontrato anche l’ultimo suo amico – non li chiamerei fan, perché non erano solo fan –, l’ultimo componente della sua infinita famiglia.
La bussola e l’alcol
Non mi sono spiegata perché Fabrizio, una volta presa la decisione di affrontare il pubblico, scelse di fare il primo concerto alla Bussola. È vero che all’epoca non c’era ancora la consuetudine di fare grandi concerti nei palasport come adesso: ci si esibiva nei locali e, quindi, per Fabrizio la cosa non
avrebbe fatto alcuna differenza. Il patron della Bussola, Sergio Bernardini, intuì che, dopo aver chiesto inutilmente per anni a Fabrizio di cantare nel suo locale, forse i tempi erano cambiati e si fece avanti con una proposta che era impossibile rifiutare. La serata alla Bussola fu contestatissima dai suoi ammiratori, al punto che Fabrizio ritenne suo dovere riparare alla “malefatta” facendo un concerto gratuito al Giardino Scotto di Pisa, organizzato da Lotta Continua e dagli anarchici.
Per lui non fu facile. Purtroppo Fabrizio aveva già il problema dell’alcol e, se da una parte lavorare di fronte a un pubblico era una necessità che non riusciva più a reprimere, dall’altra però il fatto di salire in scena, di dover vincere la paura del palcoscenico, lo costringeva sempre più a eccedere in questa sua cattiva abitudine. Per fortuna un giorno il padre di Fabrizio, in punto di morte, si fece promettere da lui che non avrebbe mai più bevuto, e così fu. Fabrizio dimostrò in quell’occasione di essere cresciuto e io lo ammirai molto in quella circostanza. Aveva fatto tanti tentativi non riusciti, ma finalmente si rese conto che lo doveva alla promessa del padre, alla famiglia, a se stesso soprattutto.
Rimini
In vista di un nuovo lavoro con Fabrizio, il produttore Roberto Dané se ne arrivò con Nastro giallo, il disco di un giovane cantautore, Massimo Bubola.
Anche lui registrava per la Produttori Associati, per cui Dané ritenne opportuna questa collaborazione tra i due. Fabrizio lo trovò interessante e cominciarono a lavorare su un nuovo progetto che poi divenne l’album Rimini.
Lavorarono spesso in Sardegna, in un primo tempo in una casa in affitto a Tempio Pausania, in attesa di trasferirci all’Agnata dove stavano proseguendo i lavori di ristrutturazione, e poi anche a Milano. Fu un lavoro piuttosto lungo, perché Fabrizio ha sempre avuto bisogno di tempi dilatati, per poter riflettere bene su progetti che a volte non avevano il respiro di un album.
Con Massimo si trovò molto a suo agio perché all’epoca, come tutti i giovani, era un ragazzo di grande propulsione, con un gran desiderio di sfondare, e quindi ha trascinato molto Fabrizio in una certa direzione, anche abbastanza inesplorata da lui. Bubola amava molto la canzone cantautorale americana, come del resto anche De Gregori. Fabrizio, soprattutto negli ultimi anni, non ascoltava quasi più musica. Era ormai impegnato a fare l’agricoltore e l’allevatore.
Non ci si comprava più dischi, non avevamo il giradischi e neppure la televisione: eravamo completamente isolati, per cui questa collaborazione era preziosa anche in questo senso, soprattutto sul piano musicale.
La Sardegna
Non mi è stato difficile sposare la scelta di ritirarci in campagna, anche perché, contrariamente a quanto si possa immaginare, da parecchi anni non amavo più il mio lavoro, un lavoro che, malgrado tutto, ho continuato ancora a fare per ben venticinque anni. Non ho mai amato la professione – non quella di cantante, a me piace cantare –, ma la “professione della cantante”. Anch’io amavo la campagna e Fabrizio sentiva questo grande desiderio di ritornarci, fin dagli anni in cui, ancora bambino, era stato sfollato alla Cascina dell’Orto, a Revignano d’Asti. Probabilmente ha trovato in me la compagna che ha capito e “accolto questa istanza”. Infatti, sarà per il comune amore per la natura, sarà perché per l’uomo che ami faresti qualunque cosa, ho accettato di andarci. Però, contrariamente a quanto lui pensava in quel momento, e cioè che avrebbe fatto il contadino, l’allevatore smettendo di fare il cantautore perché riteneva di aver già detto tutto e, anzi, di aver fallito, di non aver detto le cose come andavano dette, io pensai che invece, proprio andando a isolarsi in Sardegna, Fabrizio avrebbe continuato a fare il cantautore, anche meglio di prima.
Negli anni a seguire, attraverso i concerti e il conseguente guadagno, Fabrizio capì di potere realizzare il suo sogno di vivere in campagna.
In un primo momento si pensò di cercare del terreno, perché voleva ettari da coltivare e un allevamento, non solo un giardino e un praticello all’inglese, in una zona strategicamente vicina alla Liguria, a Genova e a Milano, ma ci si rese conto che il costo sarebbe stato proibitivo. Fabrizio aveva già la casa di Portobello di Gallura, dove passava le vacanze estive. Fu un autista di Tempio Pausania, Giovanni Mureddu, che lo andò a prendere all’aeroporto, a dirgli che stavano vendendo proprio ai piedi del Limbara, un’intera vallata, che si chiama Baldu, di 800 ettari, forse più. Interessato, Fabrizio mi chiamò e andammo insieme a vedere. Scegliemmo tre appezzamenti: uno era L’Agnata, l’altro Donna Maria, dove c’erano – e ci sono tuttora – delle rocce meravigliose di granito, e Tanca Longa, con una bellissima sughereta. Di conseguenza, ritenne opportuno impegnarsi nei concerti anche per poter affrontare le spese, non tanto per l’acquisto del terreno, quanto per i lavori successivi che costituivano un impegno notevole, anche economico. E questo fu l’alibi forse, non so come definirlo, per continuare a fare concerti.
All’hotel Supramonte
Durante i quattro mesi del sequestro, ci furono momenti di sconforto, di tristezza continua, ma anche di speranza: eravamo convinti che in ogni caso i nostri carcerieri non ci avrebbero soppresso. Anche laddove fosse arrivato l’ordine di farlo, le persone che avevano vissuto con noi per quattro mesi avrebbero fatto di tutto per risparmiarci, anche se eravamo pronti a fuggire, e loro non lo sapevano, perché avevamo allentato un anello della catena e aspettavamo solo il momento giusto.
Ecco allora, come possono crearsi delle alchimie strane e dei rapporti veri, come in qualunque situazione l’umanità emerge sempre in ognuno di noi.
Sono cose che non vanno assolutamente sottovalutate. Forse sono cose di cui ti convinci perché la vita non ti appaia come una sconfitta definitiva, e in fondo c’è sempre uno spiraglio, puoi sempre contare sulla generosità e sull’umanità delle persone. Considerammo i due carcerieri un po’ alla nostra stregua: parlando con loro, ci rendemmo conto che, a loro volta, erano due persone non libere, costrette, magari per motivi abbastanza futili, a stare lontano da casa, latitanti, privati della loro libertà e costretti a prendere in ostaggio delle persone per pura sopravvivenza. Sono certa che il giorno del nostro arrivo, quando si accorsero che si trattava di noi, il loro disappunto fu enorme. Non sono stati contenti di vederci arrivare. Forse avrebbero preferito vedere Guccini, di cui soprattutto uno di loro era grande ammiratore.
Fado
Dopo il sequestro, non è che io ne sentissi la necessità, però sembrava quasi ovvio che, in qualche modo, potessi anch’io riprendere a cantare. Ormai ero libera da contratti e Fabrizio era impegnato con l’album L’indiano. Pensammo di creare un’etichetta tutta nostra, che poi venne chiamata Fado dai due nomi Fabrizio e Dori. L’idea era che ci avrebbe permesso, soprattutto a me, di fare quello che magari, fino ad allora, non mi era stato concesso, in materia di repertorio e di manifestazioni a cui andare o non andare. Fabrizio era consapevole delle mie insofferenze e nel frattempo Cristiano aveva creato un nuovo gruppo, i Tempi duri.
Fu un’esperienza molto bella. Abbiamo pubblicato dei dischi senza dubbio interessanti, compreso Tre rose, il primo album su etichetta Fado di Bubola, che a mio avviso rimane un disco delizioso che mi capita tuttora di riascoltare.
Eravamo una specie di factory, non so come definirla altrimenti, dove si fa tutto in famiglia. E quindi si suonava, si cantava, si facevano i cori, tutto fra di noi. Non c’erano estranei che si sovrapponevano ed era tutto molto divertente: un sistema forse non nuovo, ma per l’Italia abbastanza innovativo.
La cosa non è durata a lungo perché, ahimè, a volte, quando si trattava di dover promuovere un prodotto Fado, immancabilmente veniva ricattato anche Fabrizio che doveva sempre essere presente. A lungo andare la situazione divenne insostenibile.
Crêuza de mä
All’inizio degli anni ottanta Fabrizio pensò di realizzare un disco diverso, diversissimo, che lo portasse in altri mondi, con altri sapori musicali. All’epoca ancora non si parlava di world music e lui, per primo, concepì un disco “etnico”, cantato addirittura in genovese arcaico, il genovese dell’epoca in cui si svolgevano le vicende di Sinàn Capudàn Pascià e di ’A Pittima. Anche in quell’occasione dovette scegliersi un collaboratore ideale e anche quella volta non si sbagliò. Era la sua grande forza, quella di capire chi potesse essere all’altezza della situazione nel momento in cui aveva individuato l’idea giusta.
Trovando in Mauro Pagani un cultore della musica, uno sperimentatore e ricercatore di musiche etniche, pensò bene di coinvolgerlo e lui capì al volo l’esigenza di Fabrizio. Insieme riuscirono a realizzare quello che, a detta di molti e non solo italiani, risultò il disco più apprezzato di Fabrizio in tutto il mondo, il più innovativo, il più coraggioso in assoluto, con delle sonorità mai riscontrare fino ad allora nella musica contemporanea.
Il dialetto genovese, come anche quello sardo, gli permetteva di prendersi la libertà di dire delle cose certo impensabili in italiano. Alcuni testi sono magari passati in radio, senza che ci si rendesse conto che, se fossero stati in italiano, la censura non avrebbe dato il permesso di mandarli in onda. Vedi Jamin-à e ’Â duménega, testi decisamente forti, e forse lì Fabrizio si è liberato, cogliendo l’occasione di esprimersi in un modo che altrimenti non sarebbe stato possibile.
Dopo il successo di Crêuza de mä, ci fu un grande interrogativo: come proseguire?
Portare avanti l’esperienza etnica, l’esplorazione di Mediterraneo e Oriente, per spingersi fino alle terre dei Mongoli? In un primo tempo, si parlò di un progetto che doveva coinvolgere anche Ivano Fossati e altri, addirittura Vasco Rossi, ma poi venne archiviato: probabilmente Fabrizio capì, insieme a Pagani, che era tempo di concentrarsi su problematiche più vicine a noi, e di tornare a un maggiore impegno politico. Con La domenica delle salme, un brano che ritengo di grandissima attualità, (purtroppo, ahimè), Fabrizio colse con qualche anno di anticipo l’avvento del nuovo imperialismo, che tuttora stiamo vivendo.
Ivano Fossati
La collaborazione con Ivano Fossati era nell’aria da diverso tempo. A ogni incontro, si ripromettevano addirittura di fare una tournée insieme, finché finalmente il momento arrivò con Anime salve. Avrebbero dovuto registrare e cantare insieme tutto il disco, poi il progetto prese una piega diversa per motivi che non si sono mai ben capiti. Forse nel prodotto si è identificato più Fabrizio, forse si sono resi conto che non reggeva il continuo ping-pong vocale fra loro. Ma io di questo non sono convinta: conservo alcune registrazioni di prova davvero notevoli, realizzate insieme. Finirono per limitarsi alla stesura dei brani e a un pre-arrangiamento, che fu poi completato da Piero Milesi.
Forse in un primo tempo può esserci stato qualche problema di ordine caratteriale, da genovesi un po’ chiusi sotto certi aspetti. Ivano poi preferì dedicarsi al suo album Macramè, un disco bellissimo, che uscì in contemporanea con Anime salve. Finirono per cantare insieme solo Anime salve e ’A Cùmba, ma mi manca Ho visto Nina volare cantata insieme, come pure Dolcenera e, soprattutto, Smisurata preghiera. Peccato!
Smisurata preghiera e Álvaro Mutis
Fra le letture che hanno colpito maggiormente Fabrizio c’è stato un autore sudamericano che veramente lo ha folgorato, Álvaro Mutis, che fra l’altro Fabrizio ha avuto la fortuna di incontrare e conoscere. Mutis ha ispirato a Fabrizio una delle canzoni che più rappresentano il suo testamento spirituale, la summa di tutte le tematiche affrontate durante il suo percorso di cantautore.
Ha attinto molto dal libro Maqroll il gabbiere, come ad esempio espressioni quali “una goccia di splendore”.
Quando si trattò di fare la versione spagnola della canzone Smisurata preghiera (Desmedida plegaria), ispirata appunto dagli scritti di Álvaro Mutis, Fabrizio era preoccupato più che altro della sua incapacità di cantarla nel modo corretto, di avere la dizione giusta. Invece, quando Mutis la ascoltò, gli disse che lui stesso non avrebbe potuto farla meglio. In effetti Fabrizio, sebbene non abbia mai imparato altre lingue a parte il francese, aveva una duttilità, una predisposizione, e quindi gli era poi facile cantare nel modo corretto. Questa canzone venne inserita nella colonna sonora del film colombiano “Ilona llega con la lluvia”, tratto da un libro di Mutis, che in quell’occasione incontrammo a Venezia. In una cena a Portofino mi parlò a lungo della nostalgia per i suoi gatti e la sua più grande preoccupazione era tornare a casa per loro, che lo stavano sicuramente aspettando. È veramente straordinario. Ecco, io già amavo i gatti, ma, da quando ho conosciuto Mutis, li ho amati ancora di più.
Il disco più amato: Storia di un impiegato
Non so definire se Fabrizio abbia amato un disco sopra ogni altro. So che Storia di un impiegato è il disco che più ha sofferto, forse proprio perché è coinciso con un momento di sua particolare insoddisfazione legato a problematiche anche personali, le stesse che gli fecero preferire il lavoro di contadino a quello di cantautore. Ma è una distorsione: per questo si è spesso pensato che fosse un disco fuori tempo, datato, e quindi, mentre Fabrizio trovava tutti gli altri suoi dischi universali e sempre attuali, riteneva Storia di un impiegato un argomento politico ormai superato. Non so quanto avesse ragione: forse no, forse si è sbagliato.
Pietas
Una delle grandi qualità di Fabrizio è che non è mai stato moralista, non ha mai apprezzato il perbenismo e ha sempre cercato di capire le debolezze umane. Dopo l’esperienza del sequestro ha avuto un atteggiamento di grande comprensione nei confronti di chi ci aveva privati della nostra libertà per ottenere un riscatto. In qualche modo era convinto che se una persona si riduce a comportarsi in una certa maniera, un motivo dev’esserci e, a vedere bene, non sempre è dettato dalla volontà, dalla cattiveria, da cromosomi malati, ma dalla necessità. Questa era la grande forza di Fabrizio: la pietas umana, che era per lui un elemento essenziale per conoscere il prossimo, e che è sempre stata al centro della sua poetica. Fabrizio è anche stato sempre molto coerente, non ha mai detto una cosa in cui non credesse veramente.
CRONOLOGIA
1966
Tutto Fabrizio De Andrè
Gli LP nel vecchio mondo discografico erano una rarità. Costavano tanto ed erano impegnativi, era ben mezz’ora di musica; la gente preferiva i 45 giri. Fabrizio De Andrè non era un tipo da 45 ma cominciò così, e continuò per anni; e quando nel 1966 le sue canzoni uscirono per la prima volta su un padellone a 33 giri, si trattava semplicemente di una raccolta di singoli già usciti. Però era una raccolta fantastica, con brani che De Andrè si sarebbe portato dietro per tutta la carriera, e il pubblico con lui.
Siamo a due anni dal ‘68 ma l’Italia sullo sfondo è ancora vecchia, legata agli anni ‘50. La società è chiusa, classista, provinciale. Studenti e professori sono lontani gli uni dagli altri, come genitori e figli. Il mondo musicale è piccolo e limitato mentre il cinema vive una stagione favolosa. La RAI è l’unica realtà mediatica, legata a musiche di disimpegno o di cultura classica, e con regole ferree. Per passare in radio o in TV i musicisti devono superare l’esame di una commissione e le maglie della censura. De Andrè in RAI non passa mai, eppure incredibilmente trova un suo pubblico. Lo trova negli studenti più acculturati che cominciano a contestare i modelli didattici e di lì a poco occuperanno le università; ma sono anche idealisti, generosi, e quando un’alluvione devasta Firenze, novembre 1966, sono i primi a offrirsi come volontari. Quello è il pubblico di De André, assieme ai cultori della canzone d’autore, anche se ancora non va di moda quella parola – gli appassionati che amano Lauzi, Paoli e quel timido introverso amico di Fabrizio che è Luigi Tenco.
1967
Volume 1°
Il 1967 è l’anno del Sgt. Pepper, dei fiori nei capelli di San Francisco, delle prime accese contestazioni studentesche. E’ un anno di potente svecchiamento della società italiana, di contrasto forte tra la generazione dei genitori e quella dei figli. Fabrizio ancora una volta non segue i modelli rampanti, ma prende una sua strada particolare, ed è un testimone influente del tempo.
A gennaio è morto Luigi Tenco, un amico oltre che un personaggio pubblico. De André gli regala una canzone di straordinaria profondità come Preghiera in gennaio, dove rivela la sua tensione verso i grandi temi dello spirito – la fede, l’aldilà, la fragilità umana, gli insegnamenti della religione. Nell’album ci sono almeno due altre canzoni che alludono a quello, Spiritual e Si chiamava Gesù; e sono la chiave per introdurre la figura di Fabrizio nel mondo cattolico che in quegli anni è in fermento. E’ finito da poco il Concilio, con tutta la sua ventata di novità. La Messa non è più in latino, la comunità dei fedeli partecipa; e il Dio celebrato non è il giudice severo del Vecchio Testamento ma il Gesù dei Vangeli, uomo fra gli uomini. Il 1967 è l’anno di Dio è morto, la canzone di Guccini, portata al successo dai Nomadi, che viene scambiata per una bestemmia quando vuol essere una denuncia e un urlo di speranza. Il 1967 è anche l’anno di Lettera a una professoressa, lo straordinario libro compilato da un parroco toscano, Don Lorenzo Milani, con i suoi allievi figli di poveri contadini del Mugello. Un libro uscito in sordina che fa scandalo e discussione, che accusa il classismo ancora radicato, che punta il dito contro le ingiustizie della società italiana. De André non è uomo di fede ma un ricercatore appassionato e istintivamente sta dalla parte di Don Milani, delle nuove istanze conciliari, di tutti coloro che testimoniano la giustizia. Questo colgono molti ragazzi cattolici nelle sue canzoni, e diventano i suoi primi ammiratori.
1968
Tutti morimmo a stento
Il 1968 è un anno simbolo che ricordiamo ancora. In realtà molte cose che oggi chiamiamo “Sessantotto” non avvengono in quell’anno ma dopo, anche parecchio tempo dopo. L’idea è comunque quella di un vecchio mondo conservatore che va a cadere e di uno più moderno che si apre: e oltre che moderno più generoso, libertario, antiautoritario, pacifista. Calendario alla mano, il 1968 è l’anno delle grandi manifestazioni studentesche e dei contrasti anche drammatici tra giovani e forze dell’ordine: in Italia avviene nelle università occupate e soprattutto a Roma, a Valle Giulia, in Francia la capitale è teatro di proteste per un mese intero, il famoso “maggio francese”. E lo stesso a Berlino, a Londra, per non parlare degli USA, dove la guerra in Vietnam innesca una violentissima protesta studentesca che culmina in agosto con i disordini alla convenzione democratica di Chicago. A ottobre si tengono le Olimpiadi a Città del Messico e le guerre non si fermano, come accadeva nell’antichità. Anzi: a Piazza delle Tre Culture la polizia spara sugli universitari che manifestano e i Giochi sono macchiati dalla morte di centinaia di dimostranti.
Non è un caso che in quell’anno turbolento De André prepari un album speciale: una “cantata”, così la definisce recuperando un termine della musica classica, dove le canzoni sono legate in un discorso unitario – che è quello della pietà, dell’amore che solo può guarire il male. De André si è innamorato dei larghi spazi degli LP, e non è l’unico a voler evadere dalle vecchie limitazioni. Dopo il Sgt Pepper si è scatenata la moda dei “concept album” come si dice in gergo, e in Italia ha avuto successo un disco del genere, Days Of Future Passed, con i Moody Blues e un’orchestra sinfonica. Quello di Fabrizio non è un disco rock ma risente comunque di quelle influenze e del fascino della musica colta. La lettura migliore del 1968 è proprio quella di non uccidere il passato ma di trasformarlo, di piegarlo a nuovi usi.
1970
La buona novella
Gli anni 70 sono molto diversi dal decennio precedente. Sono anni più difficili, problematici, anche pesanti. La società occidentale è inquieta e ha perso l’ottimismo. Molte utopie che avevano caratterizzato i 60 si rivelano appunto sogni, velleità, a questo punto imbarazzanti; l’amore non conquisterà il mondo mentre la guerra sì, lo devasterà, e non solo la guerra ma anche la violenza strisciante del terrorismo. Quella violenza che per esempio in Italia ha colpito in maniera traumatica il 12 dicembre 1969 a Milano, con l’attentato alla banca dell’Agricoltura di piazza Fontana. Quella strage e le contestate indagini della polizia che hanno fatto seguito, con la morte nei locali della questura dell’anarchico Giuseppe Pinelli, scavano un solco nella società italiana e instaurano un clima sociale teso, che durerà per tutto il decennio.
Il De André del 1970 annusa quel vento, ma non vuole farsene sballottare. Sceglie quindi un discorso più generale, più alto, parlando dell’uomo e della speranza – parlando di Gesù, questa figura che lo affascina anche se non la ha mai segnato con il marchio della fede. Gesù che è si figlio di Dio ma uomo tra gli uomini, in una famiglia umile, in una comunità povera come poteva essere la Nazareth di 2000 anni orsono. Anche qui si coglie l’eco del Concilio; e questa figura carismatica non è raccontata con le parole di pietra della Bibbia ma con i più coloriti versi dei vangeli apocrifi, le tante storie dell’uomo di Nazareth raccolte nei primi secoli dopo la morte ed escluse dalla narrazione ufficiale.
Nella Buona Novella suonano i musicisti della Premiata Forneria Marconi che poi accompagneranno Faber in quella sua famosa avventura live. Ancora non si chiamano PFM, sono i Quelli in una fase di transizione. Il fatto è che la scena musicale sta cambiando, si stanno creando incroci fra rock e canzone e, in parole povere, nessuno sta più al suo posto.
1971
Non al denaro non all’amore né al cielo
Il “Sessantotto” non accaduto nel 1968 comincia a delinearsi all’inizio dei ‘70, con un ribollimento forte e a tratti drammatico della società italiana. I lavoratori chiedono nuovi diritti così come gli studenti, in rotta con il vecchio sistema educativo; le nuove generazioni femminili vogliono uscire dalla condizione subalterna delle loro madri e nonne; il mondo politico si spacca e si estremizza. La mediazione sociale della DC sembra cadere a pezzi, nel contrasto duro, anche sanguinoso, tra sinistra e destra, e ai partiti tradizionali si affiancano nuovi gruppi dalle idee estreme che pescano soprattutto nel mondo della protesta giovanile.
Questo paesaggio agitato farà da sfondo al prossimo album di Fabrizio De André, “Storia di un impiegato”. Nel 1971 invece l’idea è ancora quella di non farsi travolgere dall’attualità, ma di provare un discorso più saggio ed elevato – traendo spunto da un meraviglioso libro, la Antologia di Spoon River, con cui Edgar Lee Masters aveva raccontato in maniera paradossale, in forma di epitaffi, gli abitanti di una piccola comunità nelle pieghe profonde d’America. Il libro era stato pubblicato in Italia nel 1943, tradotto da una giovanissima Fernanda Pivano sotto la guida di Cesare Pavese.
Questa scelta è emblematica di come era De André. Da un lato c’è la voglia confermata di raccontare “la gente”, non come massa informe bensì come individui – senza tratti straordinari, nella loro fragile ed emozionante quotidianità. C’è tuttavia anche uno scarto, un guizzo che è molto faberiano. Nel 1971 Fernanda Pivano era un mito soprattutto per la divulgazione della poesia beat che tanto piaceva ai giovani di allora: per “Juke Box all’idrogeno” di Ginsberg, “Bomba” di Gregory Corso, per Kerouac che aveva presentato dal vivo (aveva tentato di presentare in realtà, completamente ubriaco) nella sua unica visita italiana nel 1966. Ecco, De André salta a pie’ pari quel mondo e va più indietro – va all’America non metropolitana, senza tempo, di Lee Masters e a quella prosa asciutta, per niente beat, resa così bene dalla Nanda. Ancora una volta: controcorrente.
1973
Storia di un impiegato
Gli anni ‘70 si fanno sempre più inquieti e confusi. Le manifestazioni di piazza si susseguono, in una situazione di crisi economica che morde soprattutto in Italia, con alta inflazione, disoccupazione e gravi tensioni internazionali. E’ l’anno della guerra del Kippur: l’esercito egiziano spalleggiato da altri Paesi arabi muove all’improvviso contro Israele, ma in pochi giorni è costretto alla resa, come già nel ‘67. Anche per via della guerra, i prezzi del petrolio schizzano alle stelle. Per la prima volta i Paesi produttori escono dall’ombra e impongono le proprie ragioni ai Paesi consumatori; e l’umanità si interroga coscientemente sullo sviluppo del pianeta e sulle risorse a disposizione. Un famoso rapporto del Club di Roma uscito nel 1972 si intitola proprio “i limiti della crescita” e caldeggia la necessità di una limitazione concertata, di uno “sviluppo sostenibile”.
Sono questioni ansiogene, che molti rifiutano per la loro complessità preferendo uno schema più semplicistico. Bianco e nero, Est o Ovest. Sono gli anni più gelidi della Guerra fredda: Breznev in URSS, Richard Nixon negli USA. E in Italia, destra contro sinistra, con connotati sempre più violenti. Nuove formazioni extraparlamentari nascono ogni mese predicando violenza e illegalità. Le cronache riportano uno stillicidio di assalti, ferimenti, risse nel segno della lotta politica. Pistole, coltelli, bombe abitano la cronaca quotidiana. Nel marzo 1972 l’editore Giangiacomo Feltrinelli è saltato in aria mentre innescava un ordigno sotto un traliccio dell’Enel a Segrate, vicino a Milano. Il bombarolo non è un personaggio di fantasia, come quando Stevenson ottant’anni prima aveva scritto “Il dinamitardo”.
Per una volta De André non vola alto ma lascia colare questo umore denso dei tempi nelle sue canzoni. Ne viene un disco controverso. E’ figlio del suo tempo, forse troppo, quindi datato; scritto con due marxisti dichiarati come Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani da un anarchico come Faber che per una volta sente il bisogno di uscire dal guscio, di nuotare forsennatamente nella realtà – una realtà che, anche se siamo solo nel ‘73, somiglia dannatamente al 1984 di Orwell.
1974
Canzoni
I tempi sono sempre più cupi e forse per questo Faber non si sforza più di fotografarli su disco. C’è appena stato in Cile un golpe che ha deposto il presidente socialista Salvador Allende e suscitato sgomento in tutto il mondo. Il Sudamerica è sotto il tallone dei dittatori mentre da noi continua lo stillicidio delle violenze politiche. Il 1974 è l’anno in cui le BR fanno un salto di qualità con il rapimento (e liberazione) del giudice Sossi a Genova. Il leader delle BR, Renato Curcio, viene arrestato per opera di un prete guerrigliero, padre Girotto, che ha scelto di collaborare con i carabinieri del generale Dalla Chiesa; una sanguinosa rivolta nel carcere di Alessandria è stroncata dalle forze dell’ordine con numerosi morti. Continua a essere profondo il distacco non solo fra destra e sinistra ma fra giovani e vecchi, genitori e figli, imprenditori e lavoratori. La società cerca nuove forme di convivenza e un appassionato voto referendario conferma la legge sul divorzio introdotto da poco in Italia. Il 1974 è anche l’anno delle domeniche a piedi, per risparmiare benzina, visti i rincari del petrolio. La RAI chiude ogni sera i programmi prima di mezzanotte, e non ci sono ancora le TV indipendenti. Poche distrazioni, se vogliamo c’è più tempo per ascoltare musica.
De André non ha più il gusto di “Storia di un impiegato” e non a caso il suo nuovo LP si intitola semplicemente, umilmente “Canzoni” – una sorta di personale “Another Side”, ricordando quell’album di Dylan che nel 1964 aveva segnato il suo distacco dalla canzone di protesta per un diario più personale. E Dylan non manca in questa antologia, anche se è quello di dieci anni prima: come non mancano altri maestri preferiti, come Leonard Cohen e Brassens. La scena musicale italiana è molto cambiata rispetto agli esordi di Fabrizio, che non è più una luminosa eccezione, ma il padre putativo, uno dei padri, di tanti giovani che scrivono i testi delle proprie canzoni e li cantano in prima persona. Questi cantautori si dividono in due grandi categorie: i filo americani e i filo francesi. Ecco, in questo confronto tra le diverse scuole, De André tiene un profilo elevato e non si schiera apertamente. Ancora una volta ci tiene a essere svincolato da ogni categoria – innanzitutto e soprattutto se stesso.
1975
Volume 8
“Volume 8” fa il paio con “Canzoni”, ne è il seguito e per certi versi il prolungamento. Un disco asciutto, folk rock, che cerca una sua classicità in tempi esageratamente trendy. Abbiamo detto dei cantautori, ma la grande moda di quegli anni, in tutta Europa e anche in Italia, è quella della musica cosiddetta progressive. Non ci sono più due chitarre un basso e una batteria ad accompagnare la “musica dei giovani” ma complicate tastiere, strumenti esotici o antichi, le prime macchine elettroniche; e i testi attingono volentieri a un immaginario di fantasia anche balzano, che prende a piene mani da Lewis Carroll, da Tolkien, dalla poesia più esagerata e barocca. De André si tiene alla larga da tutto questo. “Canzoni” e “Volume 8” testimoniano il suo gusto di una musica semplice seppure non banale, fondamentalmente chitarristica, lontana dagli eccessi.
Sullo sfondo di quest’album l’Italia e il mondo di quel 1975 – quando finisce la guerra in Vietnam e gli USA hanno appena conosciuto l’onta delle dimissioni del presidente Nixon, implicato nello scandalo del Watergate. Da noi il clima sociale è ancora tossico e si contano a diecine i morti per faide politiche. Sono anche di più purtroppo i ragazzi che cominciano a morire per droga – un fenomeno sottovalutato dalla società dell’epoca. Per fortuna la musica è un amore anche più grande, come testimoniano le vendite dei dischi e i tanti concerti, a cominciare dai mega raduni – quello di Parco Lambro a Milano, organizzato dalla rivista “Re Nudo”, è il più famoso e quell’anno tocca il suo apice. Anche Fabrizio è contagiato da questa passione e per la prima volta in vita sua organizza una lunga e articolata tournèe, vincendo, cercando di vincere, la proverbiale “paura del palcoscenico”.
1978
Rimini
Il 1978 è l’anno dei tre papi, da Paolo VI a Giovani Paolo II, passando per la meteora di Papa Luciani. E’ l’anno anche e soprattutto del rapimento Moro, una tragica vicenda che sconvolge l’Italia e per certi versi chiude un periodo. Gli anni ‘70 diventano improvvisamente il passato e quello che di nuovo appare viene salutato con gioia e sollievo. La società cambia, la musica cambia. Il punk ha ghigliottinato il mondo progressive, denunciandone i limiti; poi, fedele alla propria natura spontanea, si è dissolto. Ora, nel 1978, si parla di new wave – vuol dire tutto e niente, è una sorta di ricostruzione sulle macerie.
De André si era salvato dalle mode e quindi non è costretto a un cambio drastico. Però un mutamento c’è, nella sua musica e nel disco di quell’anno, realizzato con il giovane cantautore Massimo Bubola. C’è più sangue, più rock, c’è l’innesto dei fermenti vivi di un certo folk europeo. In filigrana si colgono questi nuovi umori e si profila l’ombra di giovani artisti che stanno cambiando la canzone d’autore: come Jackson Browne, che giusto in quell’anno pubblica il suo capolavoro, Running On Empty, come Springsteen, nel suo periodo più ispirato, quello di The River, di Darkness On The Edge Of Town. Anche Dylan non è più quello dei ‘60. Ha appena pubblicato un disco che profuma di musica latina, Desire, e Fabrizio ne traduce un brano con gusto e passione.
Rimini è il primo disco di De André a godere di ripetuti passaggi radiofonici. La RAI ha perso il monopolio, dal 1976 spuntano in tutta Italia le cosiddette “radio libere”. Al passaparola che ha sempre segnato la carriera di Faber si aggiunge la programmazione radio di molte emittenti che tra Rimini, Andrea, Sally hanno solo l’imbarazzo della scelta. Era ora.
1979
Fabrizio De Andrè in concerto. Arrangiamenti PFM, Vol. 1 & 2
Il popolo musicale è molto cambiato alla fine degli anni ‘70. Il punk ha fatto da spartiacque anche se in Italia è arrivato poco e male, ed è stato letto soprattutto in chiave folcloristica. Però anche da noi sono scomparse le vecchie formule che erano state valide per anni, quella specie di progressive con vaghi riferimenti classici che ha finito per danneggiare le orecchie di molti. E’ tornato un rock più curioso e più energico. Tira sempre la canzone d’autore. E’ nato il mito della disco, che ha seppellito il vecchio caro rhythm and blues. Si comincia a pasticciare con l’elettronica, che non è più strumento per pochi eletti bensì macchina da ritmo per le nuove ginnastiche da ballo. Alla fine tutto cambia, tutto si rimescola: e può accadere che i rivali di ieri diventino alleati, come appunto nel caso di De André e della PFM. Il loro tour insieme, e il disco che ne viene, fanno scandalo; perché nella guerra per bande che si era combattuta per lunghi anni, o stavi dalla parte dei cantautori o da quella dei rocker. Nessuna mediazione possibile. Faber e la PFM insegnano il contrario, e vincono sul campo le diffidenze degli schieramenti avversi.
E’ il primo tour vero di De André, in un mondo di concerti che non potrebbe essere più diverso. Oggi si va negli stadi e nei teatri a onorare l’artista, a esprimere il proprio amore incondizionato – impensabili i fischi o la contestazione. Nel 1979 siamo invece ancora agli psicodrammi, alle proteste plateali, ai lanci di monetine se non di lattine; ai processi pubblici, anche, com’è toccato a De Gregori. E’ una conseguenza del clima sociale e politico di quei giorni, e il motivo per cui i grandi show dell’epoca non si sono visti in Italia per buona parte dei ‘70 – per godersi la musica dal vivo gli appassionati dovevano sobbarcarsi trasferte in Francia, in Svizzera, in Germania.
Fabrizio e la PFM sfatano molti tabù. Qualcuno ancora lancia invettive dalla platea e rinfaccia a De André quel famoso concerto a Viareggio, alla Bussola “dei borghesi”. Ma sono gli ultimi fuochi. Inizia un’altra epoca, iniziano gli anni ‘80.
1981
Fabrizio De Andrè (L’indiano)
Davanti alle difficoltà anche drammatiche del presente siamo sempre portati a pensare al passato come a un’oasi felice. Il passato è per l’appunto passato, quindi si è sgravato di ogni tensione e preoccupazione. Però a pensarci bene il 1981 in cui esce “l’indiano” è proprio un anno duro anche a distanza, anche solo a ricordarlo. Fabrizio sta ancora curandosi le ferite del rapimento e intorno vede un mondo impazzito dove impera la violenza. Alcuni grandi leader mondiali subiscono attentati che hanno un grande clamore mediatico: Ronald Reagan, da poco presidente degli USA, rimane ferito in un’aggressione a mano armata e lo stesso accade al Papa, Giovanni Paolo II, colpito in piazza San Pietro da due proiettili sparati da un attentatore turco, Ali Agca. La sorte peggiore tocca al presidente egiziano, Sadat, ucciso come in un film durante una parata militare, dai soldati del suo stesso esercito. In Italia il 1981 è l’anno dello scandalo P2, l’anno in cui si scopre che la corruzione agli alti livelli è ancora più estesa e corrosiva di quanto il pessimismo e la diffidenza degli italiani già da tempo immaginavano.
L’aria è sempre plumbea, ma Fabrizio sa volare alto e tracciare un percorso di libertà che passa per le idee e la cultura di popoli nobili e fieri: come il popolo sardo e i nativi americani. Sono argomenti forti e stimolanti anche se, a dire il vero, il gusto del pubblico sta scivolando verso temi più frivoli. Inizia l’epoca dell’ “edonismo reaganiano”, per dirla come una gag famosa di quel programma di Arbore. Un’epoca di estetismo, di vanità – con voglia accanita, anche, di essere nuovi e moderni. Circolano i primi personal computer, quelli che oggi imbarazzano anche i rigattieri, e di lì a un anno la rivista Time, con un gesto paradossale e significativo, nominerà quello strano oggetto “personalità dell’anno”. I dischi però restano i vecchi padelloni in vinile e la musica si registra ancora su macchine a nastro. Per il computer in sala di registrazione ci vorrà tempo.
1984
Creuza de mä
Nel 1984 non si parla ancora di “globalizzazione” ma è vero che c’è un’attenzione diversa per quello che accade fuori dai confini. Le frontiere del mondo non sembrano più così rigide, le notizie rimbalzano con più celerità da una parte del mondo così come le mode, le culture. C’entra la televisione, fondamentalmente, sono le TV che cominciano a rendere piccolo il mondo, iniziando un discorso che i satelliti e Internet completeranno con effetti inimmaginabili.
De Andrè respira quell’aria e con lui Mauro Pagani, il partner scelto per il nuovo disco. Ci si apre al mondo intorno e il primo mondo che si incontra è quello dei Paesi dall’altra parte del Mediterraneo – il Maghreb, l’Egitto, il vicino Oriente, la Grecia con la sua collana di isole e di culture. Quello che ne viene è un mosaico straordinario che fa cadere le coordinate geografiche e anche quelle temporali. Fabrizio e Mauro sono uomini antichi che raccontano storie eterne usando una lingua millenaria come il genovese e moduli musicali che invece sono nuovissimi, una fusion mai ascoltata prima. Con gli strumenti che abbiamo oggi viene più facile, oggi abbiamo la parolina “world music” per spiegare tutto e trovare una comoda etichetta. Nel 1984 però la “world music” ufficialmente non esiste e neanche la cugina diletta, l’etnica. I dischi di musiche locali, quando si trovano, sono isolati negli scaffali dei negozi in un ghetto chiamato “folklore”. Due anni prima di Creuza de ma’ Peter Gabriel ha organizzato in Gran Bretagna un bellissimo festival di musiche del mondo di cui non ha parlato quasi nessuno, “Womad”. Ha avuto un tale insuccesso che, per ripianare i debiti, Gabriel ha dovuto fare l’unica cosa che proprio aborriva: riunirsi in scena con i vecchi compagni Genesis.
Ecco, questo è il clima quando esce Creuza de ma’. E’ bello sentirsi dare del profeta, molto più difficile scommettere una profezia quando nessuno sembra darti retta. La grandezza di quest’album sta proprio nella clamorosa anticipazione dei tempi. Fosse uscito qualche anno dopo, sarebbe stato “a tempo” e avrebbe venduto forse il triplo. Ma come ha detto bene una volta Ivano Fossati, “non sarebbe stato De André se si fosse limitato ad andare ‘a tempo’”.
1990
Le nuvole
Il mondo come lo conosciamo oggi inizia negli anni delle “Nuvole”. Nel 1989 è caduto il muro di Berlino e Gorbaciov, il nuovo leader dell’Unione Sovietica, prende coscienza di essere un traghettatore dal comunismo a un sistema più democratico. Si sgretola il vecchio mondo, viene abbattuta la cortina di ferro tra Est e Ovest e una massa enorme di europei comincia a riversarsi fuori dai confini. Il mondo è sempre più globale, aiutato da una tecnologia che sa essere generosa e non solo minacciosa, come lo scudo spaziale propagandato da un Reagan che ha visto troppe volte “Guerre stellari”. La tecnologia moltiplica le informazioni TV, migliora la sanità rendendoci gli umani più longevi dalla fondazione del pianeta e accelera con ritmo vertiginoso le connessioni tra individui – si diffondono i primi cellulari, sta per aprirsi il sipario su Internet. La guerra, purtroppo, va sempre di moda. Il 1990 è l’anno della sciagurata invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, la madre di tutte le disgrazie che ancora oggi ci affliggono. Tempo pochi mesi e gli Stati Uniti reagiranno con la prima guerra del Golfo.
De Andrè vede un legame tra questo mondo nuovo e un mondo molto vecchio – l’Ottocento, le grandi potenze che si disgregano e si ricompongono, gli ideali libertari che si esprimono nel Risorgimento. Vorrebbe dipingere tutto un album così, come un affresco forte e inquietante, ma si ferma a qualche spunto soltanto e preferisce rimanere in equilibrio tra pessimismo e speranza, tra sguardo caustico alla realtà e il balsamo benefico del ricordo e della fantasia. L’Italia che lo circonda è particolarmente brutta, nell’ultima stagione della Prima Repubblica, quando i parassiti si sono moltiplicati sulla pianta succhiandone la linfa fin quasi alla morte - quando la mafia, la ndrangheta, la camorra spadroneggiano in larga parte del Sud e si propongono sfacciatamente come interlocutori dell’autorità, Stato nello Stato. Il disprezzo, l’indignazione, il disgusto di Fabrizio stanno soprattutto nella Domenica delle salme, con il suo umore caustico, il suo veleno civile. Due anni dopo, in un momento ancora più cupo, Franco Battiato scriverà Povera patria. Sono due facce della stessa moneta: il prima e il dopo, la denuncia sarcastica e il dolente epitaffio.
1996
Anime salve
L’Italia di “Anime Salve” è l’Italia della Seconda Repubblica, come si dice con una ingegnosa menzogna. In realtà poco sembra cambiato rispetto a prima, anche se non ci sono più i vecchi partiti – la DC è sparita, il PCI non si chiama più PCI, così come l’MSI. E’ apparso all’orizzonte Silvio Berlusconi con Forza Italia, il centrosinistra si riorganizza con l’Ulivo. Circolano timide speranze che le cose non saranno più quelle di prima, speranze in fretta frustrate: “La domenica delle salme”, purtroppo, non è una canzone dell’estate – è un evergreen.
Intorno alla nuova/vecchia politica c’è un’Italia che cambia profondamente, in fermento, senza più le contrapposizioni frontali di una volta ma con scosse traversali ancora più inquietanti. E’ l’Italia che sta diventando una società multietnica e ne ha paura, e reagisce arroccandosi e dividendosi su accoglienza e tolleranza. I primi flussi migratori sono quelli da Est, dall’Albania soprattutto, come ha raccontato magistralmente Gianni Amelio in “Lamerica”. Ma presto crolleranno tutte le frontiere, e il mondo dei poveri d’Africa, Sudamerica, Asia non farà sentire solo la sua voce ma imporrà la propria presenza. DeAndrè non schiva l’argomento, sente questo peso ma sente anche che non se ne può uscire con il rifiuto e l’egoismo. Torna un tema che gli è caro fin dagli anni giovani, lo stesso di “Tutti morimmo a stento”; solo l’amore e la solidarietà possono salvare il mondo, perchè, sono parole sue, “è la mancanza di pietà che trasforma la nostra vita in un lungo cammino di morte”.
“Anime salve” diventa così un disco di tormentata speranza, una luce ostinata nelle tenebre. L’ultimo disco. Dopo, resterà sulla carta il progetto di un grande requiem per il Novecento, una marcia funebre per dove forse l’equilibrio a fatica raggiunto in “Anime Salve” avrebbe lasciato il posto al più cupo pessimismo. Meglio così. L’ultimo De Andrè che ci viene a trovare è capace di una canzone come “Ho visto Nina volare”, sull’altalena, è il caso di dirlo, di dolci ricordi d’infanzia. In un angolo della sua anima, Fabrizio è rimasto un fanciullo innocente che non ha ingoiato l’amaro della vita.
23
febbraio 2010
Fabrizio De André. La mostra
Dal 23 febbraio al 30 maggio 2010
fotografia
arte contemporanea
performance - happening
serata - evento
arte contemporanea
performance - happening
serata - evento
Location
MUSEO DELL’ARA PACIS
Roma, Lungotevere In Augusta, (Roma)
Roma, Lungotevere In Augusta, (Roma)
Biglietti
Intero € 9; Ridotto € 7
Orario di apertura
da martedì a domenica ore 9 – 19. Ingresso consentito fino alle ore 18
Vernissage
23 Febbraio 2010, ore 18 su invito
Sito web
www.fabriziodeandrelamostra.com
Editore
SILVANA EDITORIALE
Ufficio stampa
ZETEMA
Autore
Curatore