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Fabrizio Fabbroni – Parvenze
Ritraendo figure composte da frammenti di realtà e di sogno, Fabbroni, nella ricerca di un luogo possibile, dove le diverse percezioni del mondo vanno a mescolarsi, ha costruito uno spazio introspettivo che evidenzia la potenzialità di un esserci intenso, seppure defilato e silenzioso.
Comunicato stampa
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Poco prima di morire, l’artista francese Théodore Géricault realizzò una serie di dieci ritratti (se ne conoscono solamente cinque) che ancora oggi rappresentano l’inizio di un nuovo approccio all’arte e forse, soprattutto, al rapporto con la diversità. Si tratta dei celebri volti di alienati (fig. 1), dipinti tra 1822 e 1823 probabilmente su commissione di Etienne-Jean Georget, medico del manicomio parigino Salpêtrière. Sebbene tale notizia non sia mai stata accertata, restano comunque a noi questi straordinari volti realizzati a mezzobusto che, come già accaduto qualche anno prima per la celebre Zattera della medusa (1819), suo indiscusso capolavoro, testimoniano un certo gusto per l’eccentricità, talvolta per il raccapricciante o comunque il grottesco. Un riflesso del periodo romantico, quando l’irrazionale irrompeva sulla scena artistica con tutto il suo portato di mistero. Le stranezze affascinavano e la psichiatria iniziava ad analizzare nel profondo i comportamenti umani deformanti, venendo meno le credenze su malefici o strampalate possessioni demoniache, si iniziava a comprendere e studiare la malattia psichica semplicemente come devianza patologica.
Nei volti degli alienati, Géricault spinse l’arte della ritrattistica verso qualcosa di tremendamente intimo: esaminare il senso della malattia mentale come aspetto dell’umano, semplicemente cogliendo lo sguardo di chi si ha di fronte. Questi ritratti non ebbero al tempo una particolare valenza, rimanendo per anni una parentesi curiosa nella carriera dell’arista, solo più tardi si ne intuì l’importanza, quando lo studio della psiche divenne una vera e propria scienza, grazie soprattutto al contributo di Cesare Lombroso che intorno al 1870, proprio sulla scia degli studi sulla fisiognomica, iniziò a sistematizzare la sua indagine criminologica.
Una cupa scoperta
Su queste premesse muove il nuovo progetto artistico di Fabrizio Fabbroni, personalità eclettica e difficilmente incasellabile poiché sempre aperto a nuove sfide. L’abbiamo in passato visto alle prese con la ceramica e lo studio delle civiltà amerinde, successivamente impegnato nella definizione di una pittura astratto-informale, lo conosciamo come architetto urbanista e per aver diretto tre anni l’Accademia di Belle Arti di Perugia, recentemente ne abbiamo saggiato le qualità di scrittore con il volume La raccolta dei capperi. Questo per sottolineare quanto la curiosità e la voglia di sperimentare sia, infine, la sua vera vena creativa, al di là dello stile o dell’appartenenza a qualsivoglia orientamento linguistico.
Il ciclo che viene adesso presentato, dal titolo Parvenze, ci riporta proprio al tema che già fu di Géricault, Lombroso e, facendo un lungo salto indietro, Leonardo Da Vinci insieme a tutto il periodo manierista, definito anche Antirinascimento. Esperienze differenti, tenute insieme dall’attenzione al tema del grottesco, del deforme, di una ricerca del bello intesa come diversità. Ed è quello che cerca Fabbroni, liberando l’intuito artistico nelle vaste terre delle infinite possibilità creative, alla ricerca di ciò che non si conosce.
Così, proprio negli anni della sua direzione dell’Accademia, gli accadde di imbattersi in un ritrovamento assai curioso: una certa quantità di calchi e controcalchi in gesso di visi, accatastati come materiale di scarto nelle soffitte dell’edificio. Era stata in particolare Fedora Boco, al tempo bibliotecaria dell’istituto, ma anche fine studiosa, ad accorgersi di tali oggetti ogni qualvolta, per necessità di lavoro, si recava in quelle aree dimenticate dell’antico convento di San Francesco al Prato. Così ricorda il senso di angoscia provato davanti a quei reperti: le scale buie, l’odore di vecchio, i volti accatastati sulle scale come residui di un qualche terribile olocausto, un senso di morte che la studiosa sente ancora sulla pelle. Fu lei dunque, su approvazione dello stesso Fabbroni che ne scongiurò l’eliminazione, a schedare tali oggetti tentandone un’interpretazione.
Un ritrovamento anomalo e benché non fossero stati rinvenuti documenti a supporto, si giunse infine alla conclusione dovesse trattarsi di maschere funerarie realizzate dagli studenti dell’accademia quando ancora era in vigore la pena di morte, quindi entro il 1889. Dopo che il condannato veniva giustiziato (in quegli anni per impiccagione), gli studenti venivano mandati al carcere di piazza Partigiani per farne il calco del volto (fig. 2-3). Si trattava, con tutta probabilità, di semplici studi anatomici, ma sembra interessante supporre potessero anche servire proprio agli studi criminologici suggeriti dalle indicazioni di Lombroso. Una sorta di fotografia del condannato attraverso cui studiare le caratteristiche fisiognomiche dei criminali. Si tratta solo di ipotesi, ma proprio Fedora Boco ricorda l’impressione di analizzare queste maschere su cui, in certi casi, si poteva notare ancora il segno della corda con cui era stata eseguita la pena capitale o addirittura la presenza di peluria della barba rimasta inglobata nel gesso. Particolari raccapriccianti che si aggiungono all’impressione derivante dall’analisi somatica dei volti, dove la resa dei particolari tradisce ancora il portato profonda di sofferenza. E nuovamente si ripensa a Géricault, non per gli alienati però, ma proprio in virtù degli studi eseguiti per la Zattera, quando ossessionato dalla “realtà della morte” si recava all’obitorio a studiare i cadaveri e le teste dei decapitati condannati a morte. Studi ancora oggi visibili, soprattutto nei dipinti di volti deformati dal trapasso (fig. 4), ignari testimoni di quell’insostenibile attrazione per il mistero dell’Aldilà che andava traducendosi artisticamente nel gusto per l’orrido, come ricorda il caso di Mary Shelley quando nel 1816, quindi contestualmente all’artista francese, dava alle stampe il suo conturbante Frankenstein.
Lode al bizzarro
A quella personale esperienza condivisa con Fedora Boco in Accademia si riallaccia oggi il progetto Parvenze di Fabrizio Fabbroni, proponendo una serie di ritratti immaginari di figure anomale. Volti bizzarri elusivi della ricerca di piacevolezza e, piuttosto, aderenti proprio a quel tema del grottesco di ascendenza romantica. Non che il Novecento, per contro, abbia eluso tale ricerca, come testimonia la ritrattistica di un Van Gogh o un Emil Nolde, o ancora di un Soutine passando attraverso Frida Kahlo e giungendo a esperienze più prossime a noi come le drammatiche teste di ostaggio di Fautrier o le più ironiche Enrico Baj (fig. 5-6), ma quelle maschere mortuarie in gesso rimandano proprio all’epoca in cui il tema della deformità usciva dalle segrete stanze degli studi artistici, conquistando i più ampi palcoscenici delle grandi esposizioni ufficiali.
Insomma, lo strano, il diverso, fin’anche il disgustoso, interessa e ha interessato gli artisti tanto quanto il suo opposto, forse perché la perfezione a lungo andare annoia e non è un caso se il grande semiologo Umberto Eco dedicò a ciò la sua Storia della bruttezza, saggio appassionato in cui analizzava nelle varie epoche il rapporto avuto con il tema del brutto da artisti, filosofi e letterati. Va inoltre detto che tutto questo presuppone un’indagine analitica sulla parte più oscura dell’essere, il luogo del mistero, ma anche delle pulsioni nascoste e non è un segreto se dopo secoli la parte che ancora oggi più attrae della Divina commedia resti l’Inferno. Se è vero, come affermava sant’Agostino, che l’uomo tende allo spirito ma è inevitabilmente attratto dalla terra, è parimenti inevitabile che l’artista, per sua natura portato ad operare con gli elementi della materia, trovi eccitante indagare i varchi segreti dell’essere piuttosto che adagiarsi nella sua più rassicurante, ma a tratti noiosa, sfera positiva.
Fabbroni ci pone quindi davanti al tema della devianza, manifestandola non solo a parole ma coraggiosamente attraverso ritratti “osceni” di fisionomie conturbanti. Dipinti mai così distanti dal bello o dalle regole della buona ritrattistica, e del resto non è questo il tema della sua ricerca, non un approccio all’arte come “scuola di buone maniere”. La necessità di Fabbroni è quella di provocare attraverso un tema importante, storicamente profondo e a tratti socialmente rilevante. Per tale motivo ha chiesto anche l’aiuto di chi proprio con la devianza si confronta spesso, riprendendo quel tema delle carceri e chiedendo all’avvocato penalista Gabriela Juganariu una testimonianza diretta.
Parallelamente il tema della devianza spinge inesorabilmente a quello della morte, così Fabbroni passa dalla pittura alla scultura adattando il proprio lavoro a busti in gesso i cui calchi provengono direttamente dalla maestria dello scultore perugino Giovanni Cappelletti, specializzato in scultura mortuaria. Fabbroni recupera pertanto anche questa storia cimiteriale, ravvivandola degli stessi colori che troviamo sui quadri, in parte richiamando la vitalità picassiana e restituendo una vitalità inedita alla freddezza dei corpi. Il brutto diventa esortazione alla liberazione dalle maglie della consuetudine, la deformazione si trasforma nella strada sempre nuova che l’artista dovrebbe ambire a prendere: l’ignoto, il tenebroso, l’inconsueto, che infine altro non sono se non le uniche direzioni da poter prendere per liberarsi dalle maglie della consuetudine e giungere a definire qualcosa di veramente nuovo poiché il bello, come il brutto, restano categorie derivanti dalla propria inclinazione culturale. Solo l’arte è universale, rispondendo esclusivamente alla libertà di esprimere il proprio pensiero a discapito del giudizio altrui o dell’altrui accettazione.
Andrea Baffoni, Perugia, 24 settembre 2019
Nei volti degli alienati, Géricault spinse l’arte della ritrattistica verso qualcosa di tremendamente intimo: esaminare il senso della malattia mentale come aspetto dell’umano, semplicemente cogliendo lo sguardo di chi si ha di fronte. Questi ritratti non ebbero al tempo una particolare valenza, rimanendo per anni una parentesi curiosa nella carriera dell’arista, solo più tardi si ne intuì l’importanza, quando lo studio della psiche divenne una vera e propria scienza, grazie soprattutto al contributo di Cesare Lombroso che intorno al 1870, proprio sulla scia degli studi sulla fisiognomica, iniziò a sistematizzare la sua indagine criminologica.
Una cupa scoperta
Su queste premesse muove il nuovo progetto artistico di Fabrizio Fabbroni, personalità eclettica e difficilmente incasellabile poiché sempre aperto a nuove sfide. L’abbiamo in passato visto alle prese con la ceramica e lo studio delle civiltà amerinde, successivamente impegnato nella definizione di una pittura astratto-informale, lo conosciamo come architetto urbanista e per aver diretto tre anni l’Accademia di Belle Arti di Perugia, recentemente ne abbiamo saggiato le qualità di scrittore con il volume La raccolta dei capperi. Questo per sottolineare quanto la curiosità e la voglia di sperimentare sia, infine, la sua vera vena creativa, al di là dello stile o dell’appartenenza a qualsivoglia orientamento linguistico.
Il ciclo che viene adesso presentato, dal titolo Parvenze, ci riporta proprio al tema che già fu di Géricault, Lombroso e, facendo un lungo salto indietro, Leonardo Da Vinci insieme a tutto il periodo manierista, definito anche Antirinascimento. Esperienze differenti, tenute insieme dall’attenzione al tema del grottesco, del deforme, di una ricerca del bello intesa come diversità. Ed è quello che cerca Fabbroni, liberando l’intuito artistico nelle vaste terre delle infinite possibilità creative, alla ricerca di ciò che non si conosce.
Così, proprio negli anni della sua direzione dell’Accademia, gli accadde di imbattersi in un ritrovamento assai curioso: una certa quantità di calchi e controcalchi in gesso di visi, accatastati come materiale di scarto nelle soffitte dell’edificio. Era stata in particolare Fedora Boco, al tempo bibliotecaria dell’istituto, ma anche fine studiosa, ad accorgersi di tali oggetti ogni qualvolta, per necessità di lavoro, si recava in quelle aree dimenticate dell’antico convento di San Francesco al Prato. Così ricorda il senso di angoscia provato davanti a quei reperti: le scale buie, l’odore di vecchio, i volti accatastati sulle scale come residui di un qualche terribile olocausto, un senso di morte che la studiosa sente ancora sulla pelle. Fu lei dunque, su approvazione dello stesso Fabbroni che ne scongiurò l’eliminazione, a schedare tali oggetti tentandone un’interpretazione.
Un ritrovamento anomalo e benché non fossero stati rinvenuti documenti a supporto, si giunse infine alla conclusione dovesse trattarsi di maschere funerarie realizzate dagli studenti dell’accademia quando ancora era in vigore la pena di morte, quindi entro il 1889. Dopo che il condannato veniva giustiziato (in quegli anni per impiccagione), gli studenti venivano mandati al carcere di piazza Partigiani per farne il calco del volto (fig. 2-3). Si trattava, con tutta probabilità, di semplici studi anatomici, ma sembra interessante supporre potessero anche servire proprio agli studi criminologici suggeriti dalle indicazioni di Lombroso. Una sorta di fotografia del condannato attraverso cui studiare le caratteristiche fisiognomiche dei criminali. Si tratta solo di ipotesi, ma proprio Fedora Boco ricorda l’impressione di analizzare queste maschere su cui, in certi casi, si poteva notare ancora il segno della corda con cui era stata eseguita la pena capitale o addirittura la presenza di peluria della barba rimasta inglobata nel gesso. Particolari raccapriccianti che si aggiungono all’impressione derivante dall’analisi somatica dei volti, dove la resa dei particolari tradisce ancora il portato profonda di sofferenza. E nuovamente si ripensa a Géricault, non per gli alienati però, ma proprio in virtù degli studi eseguiti per la Zattera, quando ossessionato dalla “realtà della morte” si recava all’obitorio a studiare i cadaveri e le teste dei decapitati condannati a morte. Studi ancora oggi visibili, soprattutto nei dipinti di volti deformati dal trapasso (fig. 4), ignari testimoni di quell’insostenibile attrazione per il mistero dell’Aldilà che andava traducendosi artisticamente nel gusto per l’orrido, come ricorda il caso di Mary Shelley quando nel 1816, quindi contestualmente all’artista francese, dava alle stampe il suo conturbante Frankenstein.
Lode al bizzarro
A quella personale esperienza condivisa con Fedora Boco in Accademia si riallaccia oggi il progetto Parvenze di Fabrizio Fabbroni, proponendo una serie di ritratti immaginari di figure anomale. Volti bizzarri elusivi della ricerca di piacevolezza e, piuttosto, aderenti proprio a quel tema del grottesco di ascendenza romantica. Non che il Novecento, per contro, abbia eluso tale ricerca, come testimonia la ritrattistica di un Van Gogh o un Emil Nolde, o ancora di un Soutine passando attraverso Frida Kahlo e giungendo a esperienze più prossime a noi come le drammatiche teste di ostaggio di Fautrier o le più ironiche Enrico Baj (fig. 5-6), ma quelle maschere mortuarie in gesso rimandano proprio all’epoca in cui il tema della deformità usciva dalle segrete stanze degli studi artistici, conquistando i più ampi palcoscenici delle grandi esposizioni ufficiali.
Insomma, lo strano, il diverso, fin’anche il disgustoso, interessa e ha interessato gli artisti tanto quanto il suo opposto, forse perché la perfezione a lungo andare annoia e non è un caso se il grande semiologo Umberto Eco dedicò a ciò la sua Storia della bruttezza, saggio appassionato in cui analizzava nelle varie epoche il rapporto avuto con il tema del brutto da artisti, filosofi e letterati. Va inoltre detto che tutto questo presuppone un’indagine analitica sulla parte più oscura dell’essere, il luogo del mistero, ma anche delle pulsioni nascoste e non è un segreto se dopo secoli la parte che ancora oggi più attrae della Divina commedia resti l’Inferno. Se è vero, come affermava sant’Agostino, che l’uomo tende allo spirito ma è inevitabilmente attratto dalla terra, è parimenti inevitabile che l’artista, per sua natura portato ad operare con gli elementi della materia, trovi eccitante indagare i varchi segreti dell’essere piuttosto che adagiarsi nella sua più rassicurante, ma a tratti noiosa, sfera positiva.
Fabbroni ci pone quindi davanti al tema della devianza, manifestandola non solo a parole ma coraggiosamente attraverso ritratti “osceni” di fisionomie conturbanti. Dipinti mai così distanti dal bello o dalle regole della buona ritrattistica, e del resto non è questo il tema della sua ricerca, non un approccio all’arte come “scuola di buone maniere”. La necessità di Fabbroni è quella di provocare attraverso un tema importante, storicamente profondo e a tratti socialmente rilevante. Per tale motivo ha chiesto anche l’aiuto di chi proprio con la devianza si confronta spesso, riprendendo quel tema delle carceri e chiedendo all’avvocato penalista Gabriela Juganariu una testimonianza diretta.
Parallelamente il tema della devianza spinge inesorabilmente a quello della morte, così Fabbroni passa dalla pittura alla scultura adattando il proprio lavoro a busti in gesso i cui calchi provengono direttamente dalla maestria dello scultore perugino Giovanni Cappelletti, specializzato in scultura mortuaria. Fabbroni recupera pertanto anche questa storia cimiteriale, ravvivandola degli stessi colori che troviamo sui quadri, in parte richiamando la vitalità picassiana e restituendo una vitalità inedita alla freddezza dei corpi. Il brutto diventa esortazione alla liberazione dalle maglie della consuetudine, la deformazione si trasforma nella strada sempre nuova che l’artista dovrebbe ambire a prendere: l’ignoto, il tenebroso, l’inconsueto, che infine altro non sono se non le uniche direzioni da poter prendere per liberarsi dalle maglie della consuetudine e giungere a definire qualcosa di veramente nuovo poiché il bello, come il brutto, restano categorie derivanti dalla propria inclinazione culturale. Solo l’arte è universale, rispondendo esclusivamente alla libertà di esprimere il proprio pensiero a discapito del giudizio altrui o dell’altrui accettazione.
Andrea Baffoni, Perugia, 24 settembre 2019
09
novembre 2019
Fabrizio Fabbroni – Parvenze
Dal 09 novembre al 09 dicembre 2019
arte contemporanea
Location
SPAZIO 121
Perugia, Via Armando Fedeli, 121, (Perugia)
Perugia, Via Armando Fedeli, 121, (Perugia)
Orario di apertura
da martedì a venerdì 15 - 19
Vernissage
9 Novembre 2019, h 17:30
Sito web
Editore
Spazio 121
Ufficio stampa
Spazio 121
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