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Fare Una Scenata. Making a Scene
Il tentativo della mostra è di prendere lo stereotipo sul serio ed esplorarne i vari livelli di significato per capire il rapporto fra il processo artistico, come l’oggetto o l’immagine, e il suo esito nello spazio, e ovviamente alla reazione del pubblico.
Comunicato stampa
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Dopo una serie di importanti mostre personali iniziate nel 2006 con Gregor Schneider e proseguite con Eric Wesley e Tue Greenfort, questa è la prima mostra tematica con la partecipazione di più artisti presso la Fondazione Morra Greco. Nove artisti internazionali che esporranno opere ed installazioni commissionate per l’occasione, oppure opere appositamente riadattate per gli spazi della galleria d’arte e dei sotterranei della fondazione, inaugurata di recente in un vecchio palazzo nel cuore di Napoli.
Il curatore è Jörg Heiser, co-editor della rivista londinese Frieze, che autore della recente mostra dal titolo Romantic Conceptualism (Kunsthalle Nuremberg, Fondazione BAWAG, Vienna, e Iberia Art Center, Pechino).
L’inaugurazione della mostra, il 21 maggio, include due performance dal vivo, una di Marko Lulic (ore 19.30) e l’altra di Christoph Dettmeier (ore 20.30), a cui faranno seguito quelle di Aleksandra Mir e Lisa Anne Auerbach, il 22 maggio, dalle 12 alle 14, presso la Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Concept della mostra
Il titolo, “Fare una scenata”, indica solitamente quel momento in cui si dà ampio sfogo alla propria emotività in pubblico: situazioni di rabbia, dolore e gelosia che spesso si accompagnano a gesti ed espressioni insulse, grida, nonché a quella violenza sfogata su cose o persone. In ogni caso, affinché si possa parlare di scenata, deve necessariamente esserci un pubblico. Il proverbiale litigio di coppia – spunto di innumerevoli commedie, racconti e film, ma anche di romanzi e pellicole d’autore – è sempre condotto a tutto volume e non mancano i bicchieri scagliati contro la parete o i vestiti lanciati dalla finestra, mentre viene più o meno consapevolmente inscenato contando proprio sul fatto che i vicini vi assisteranno. Certo, agli occhi dei turisti, “fare una scenata” fa parte dello stereotipo di Napoli, un luogo comune coltivato non solo da tutti coloro che producono e consumano cultura popolare (basti pensare alle scene di vecchi successi hollywoodiani come “La baia di Napoli“(1960), con Sophia Loren e Clark Gable), ma anche dagli stessi napoletani.
Il tentativo della mostra è di prendere lo stereotipo sul serio ed esplorarne i vari livelli di significato per capire il rapporto fra il processo artistico, come l’oggetto o l’immagine, e il suo esito nello spazio, e ovviamente alla reazione del pubblico. Non c’è forse una sorta di “accordo non scritto” fra l’artista e il suo pubblico per quanto riguarda ciò che l’artista è tenuto a “consegnare”, sia esso intrattenimento, illuminazione o alienazione? Un buon esempio di ciò che succede qualora questo “accordo” venisse infranto (uno degli spunti per questa mostra) è un disastroso show del 1979 del comico americano Andy Kaufman, passato alla storia. Dopo essersi permesso di invitare i membri della sua famiglia a salire sul palco e raccontare barzellette o cantare in modo del tutto dilettantesco, si vede un Kaufman sgomento, sul punto di scoppiare in lacrime, davanti ai fischi e alle urla del pubblico. Comincia a singhiozzare e, improvvisamente, è come se avesse ribaltato la situazione, trasformando lo spettacolo davanti al suo pubblico in una autentica riunione di famiglia. Preso dall’imbarazzo quando uno di loro rivela un imbarazzante segreto, cade vittima di un esaurimento nervoso. È soltanto quando il comico comincia a muoversi a ritmo di samba, accompagnando i singhiozzi, che tutti tornano nuovamente a ridere, quasi fossero sollevati dal fatto che l’accordo sia stato “ripristinato” e “mantenuto”.
“Fare una scenata” parla della possibilità di dar vita ad un conflitto per far emergere la “verità” – o forse allontanare dalla verità! – su un rapporto che può essere quello tra due amanti, fra i membri di diversi gruppi sociali o tra l’artista e il suo pubblico. È un modo isterico di risolvere i problemi, cercando la consolazione – oppure di produrre problemi, manifestando un fondamentale disaccordo. Quest’ultimo aspetto è illustrato alla perfezione in una scena del film “L’oro di Napoli”di Vittorio de Sica(1954), tratto dal libro di Giuseppe Marotta. Nella scena in questione, si vede Eduardo De Filippo dare consigli ad un gruppo di suoi vicini su come punire un nobile dal cuore di pietra attraverso un pernacchio, un modo tutto napoletano di dire a qualcuno che non vale un accidente. Gli consiglia di salutare questo personaggio, ogni volta che passa con la sua automobile, apostrofandolo col suo nome completo, “Duca Alfonso Maria Di Sant’Agata dei Fornai”, seguito da un bel pernacchio collettivo. Diventa una rivoluzionaria chiamata alle armi o, meglio, il suono di un monumentale “whoopee cushion” (un cuscino da piazzare sulla sedia della vittima ignara che, sedendosi, produrrà un rumore fragoroso) che “sgonfia” letteralmente tutta la presunzione del duca.
Le opere messe in mostra esplorano tutta la gamma di significati di “Fare una scenata”. Anche se, forse, non ci sono opere ad illustrare il “classico” litigio di coppia della commedia romantica, ci sono creazioni che – con ferocia o umorismo – inscenano un conflitto che potrebbe “rompere l’accordo” col pubblico, o risolvere i problemi in modo isterico, mentre altri visualizzano e strutturano intuitivamente nello spazio, la sfera immaginaria che contiene questo tipo di interazioni.
Gli artisti e le opere
Lisa Anne Auerbach (Los Angeles) e Alexandra Mir (Palermo)
Seguendo percorsi artistici diversi, hanno in precedenza collaborato alla mostra dal titolo “Miss America”, un intenso e allo stesso tempo divertente viaggio attraverso gli effetti del clima politico dell’era Bush sulla condizione della donna (Los Angeles, Rental Gallery, 2006). Questa volta, invece, realizzeranno un nuovo lavoro dal titolo Marzarama coinvolgendo il “risanamento” di calchi in gesso che riproducono le statue classiche alla Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Auerbach e Mir si servono della pasta di mandorle per riparare, come in un film, i calchi in gesso, oppure aggiungervi le parti mancanti nelle sculture originali a grandezza naturale. In questo modo, faranno propria un’assurda arte ricostruttiva che unisce lo studio degli antichi ideali di bellezza con i moderni orientamenti di chirurgia estetica. Alcuni di questi effimeri atti creativi potrebbero tradursi in tentativi comicamente inutili di ricostruire interi arti, o produrre nuove forme corporee che la specie umana ancora non conosce. Ciò darà luogo ad attimi fugaci di grande trasporto che, immortalati in un video, saranno poi proiettati negli spazi della Fondazione.
Pierre Bismuth (Bruxelles)
Per questa occasione, ha appositamente realizzato una nuova opera, che va ad inserirsi nella serie intitolata “Following the Right Hand Of”. Alla base della serie c’è l’idea di seguire con un pennarello, per l’intera durata di un film, la mano destra di un’attrice. In questo modo, l’attrice “contribuisce” a produrre un disegno mediante i movimenti della sua stessa mano. Il disegno viene poi sistemato davanti ad un fotogramma tratto dal film in cui compare l’attrice. I gesti dell’attrice, pacati o veementi che siano, sono così trasformati in una sorta di diagramma e, in combinazione con il fotogramma, danno vita ad un messaggio cifrato che racconta dei comportamenti che nascono da desideri e conflitti. Nel caso dell’opera presentata a questa mostra, la mano seguita è quella di Sophia Loren nel film “La Ciociara” (1960) (Two Women, 1960) di Vittorio de Sica, la storia di una donna che, con sua figlia, fugge dai bombardamenti alleati che devastarono Roma durante la seconda guerra mondiale.
Christoph Dettmeier (Berlino)
Presenterà una nuova serie di esibizioni dal titolo “Country Karaoke”. L’artista canterà in karaoke alcuni dei suoi brani country preferiti, che hanno come tema delle tragiche storie d’amore. Ai brani si intervalleranno dei discorsi sui modelli di comportamento femminile, di ispirazione cattolica, tipici dello stile detto “Spaghetti Western”. Nel corso dell’esibizione di Dettmeier saranno proiettate anche alcune diapositive raffiguranti desolati paesaggi urbani, alcuni dei quali si trovano a Napoli, che in pratica costituiscono le Monument Valley di oggi. A ciò si aggiungerà anche la proiezione di un video con il quale l’artista interagirà ballando. Tutti questi elementi saranno, infine, affiancati anche da un semplice palcoscenico che, trasformato, resterà esposto per tutta la durata della mostra.
Haris Epaminonda (Londra e Nicosia, Cipro)
Si è servita di sequenze tratte da diversi melodrammatici film greci di serie B per dar vita a “Tarahi”, un video costituito da una serie di immagini spaziali dai colori saturi che sembrano venir fuori da una versione surreale del mondo hitchcockiano di “La donna che visse due volte”. Nel video, le immagini si sovrappongono: un uomo dai capelli impomatati con in mano un microfono volge lo sguardo al cielo mentre sul suo viso compare un fuoco d’artificio o, ancora, alcune famiglie attraversano un aeroporto mentre un sole slavato le segue come un riflettore (questo aspetto del video di Epaminonda si richiama ai suoicollage in bianco e nero, anch’essi basati su sorprendenti giustapposizioni). Le sovrapposizioni e le frammentazioni presenti nelle tre proiezioni alternate creano un ritmo musicale che si rifà alla colonna sonora per pianoforte, meravigliosamente indecisa, firmata dal compositore russo Alexander Skrjabin.
Özlem Günyol e Mustafa Kunt (Francoforte e Ankara)
Presenterà un video dal titolo “Section 1” (2005). La breve sequenza, riprodotta in modo continuo, mostra ilremake di una scena tratta dal film “Itiraf” (2002) del celebre regista turco Zeki Demirkubuz. Nel film si racconta la storia di un uomo che sospetta la moglie di infedeltà. Pur senza allontanarsi molto dai dialoghi della scena originale, Günyol e Kunt finiscono ugualmente per alterare profondamente la nuova scena, spostandola dall’ambientazione semipubblica di un ristorante a quella, in apparenza privata, di una cucina osservata attraverso lo spiraglio di una porta lasciata socchiusa. Alla natura spesso cruda e poco cortese di quanto detto si contrappone il comportamento curiosamente calmo dei protagonisti. Tutto contribuisce a creare un risultato bizzarro in cui si sovrappongono lo scenario immaginario tratto dal film, la realtà di una coppia e lo sforzo performativo dei due artisti che creano l’opera.
Henrik Håkansson (Berlino e Köinge, Svezia)
L’artista svedese dà vita ad un’opera destinata al seminterrato della Fondazione. In molte delle sue precedenti opere, Håkansson ha esplorato le diverse condizioni di osservazione della natura. Ad esempio, ha intrapreso viaggi avventurosi per filmare specie ad altissimo rischio di estinzione, come la pitta di Gurney, un uccello che vive in Thailandia. Un altro filone artistico che caratterizza le sue opere è quello degli animali in veste di cantanti: rane che gracidano al ritmo della musica ambient techno che riecheggia nella loro palude (“Frog for e.s.t. (eternal sonic trance)”, 1995), oppure centinaia di grilli che si esibiscono dal vivo su un palco degno di una banda rock, con tanto di effetti di riverbero (“Monsters of Rock”, 1997). Questa volta, da un normale amplificatore per chitarra elettrica sarà emesso un unico verso di uccello. L’ampio seminterrato con il soffitto a volta si trasformerà così in una camera a eco naturale in cui anche i rumori inevitabilmente prodotti dai visitatori diverranno parte integrante del suono.
Marko Lulic (Vienna e Berlino)
Lulic fatto suoi i monumenti eretti alla memoria dei partigiani iugoslavi, impiegandoli nel progetto intitolato “Modernity in Yu” (febbraio 2001), che ha animato numerose mostre, e il monumento dedicato da Mies van der Rohe a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg (distrutto dai nazisti nel 1935), impiegato in diverse versioni dell’”Entertainment Center Mies” (aprile 2004). Nel farlo, è sempre stato pienamente cosciente del fatto che vi sia qualcosa di profondamente “inappropriato”nel trasformare un monumento pubblico alla memoria in una scultura “privata” esposta in una galleria. Ma è proprio questa “inappropriatezza” a costituire la molla che consente a Lulic di scuotere i frammenti della modernità, svincolandoli dalla paralisi storica ed eroica in cui versano e valutare la possibilità di rapportarli alle questioni del tempo presente. In modo simile, per la sua nuova opera dal titolo “Opening Speech”, si approprierà di svariati stili di progettazione delle tribune per oratori, appartenenti ad epoche storiche e contesti diversi – politica, economia, ambito accademico – per creare lo scenario di apertura della mostra “Fare una scenata”. Tre professionisti dell’arte di fama mondiale terranno ciascuno un discorso di apertura (la cui registrazione farà da sfondo all’esposizione delle sculture). La lieve pomposità di questi tre discorsi – in effetti un fatto abbastanza comune nelle mostre presso i musei e nelle cerimonie di premiazione – avrà probabilmente come risultato dei momenti di assurda incomprensione in un cacofonico e sorprendente sincronismo.
Il curatore è Jörg Heiser, co-editor della rivista londinese Frieze, che autore della recente mostra dal titolo Romantic Conceptualism (Kunsthalle Nuremberg, Fondazione BAWAG, Vienna, e Iberia Art Center, Pechino).
L’inaugurazione della mostra, il 21 maggio, include due performance dal vivo, una di Marko Lulic (ore 19.30) e l’altra di Christoph Dettmeier (ore 20.30), a cui faranno seguito quelle di Aleksandra Mir e Lisa Anne Auerbach, il 22 maggio, dalle 12 alle 14, presso la Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Concept della mostra
Il titolo, “Fare una scenata”, indica solitamente quel momento in cui si dà ampio sfogo alla propria emotività in pubblico: situazioni di rabbia, dolore e gelosia che spesso si accompagnano a gesti ed espressioni insulse, grida, nonché a quella violenza sfogata su cose o persone. In ogni caso, affinché si possa parlare di scenata, deve necessariamente esserci un pubblico. Il proverbiale litigio di coppia – spunto di innumerevoli commedie, racconti e film, ma anche di romanzi e pellicole d’autore – è sempre condotto a tutto volume e non mancano i bicchieri scagliati contro la parete o i vestiti lanciati dalla finestra, mentre viene più o meno consapevolmente inscenato contando proprio sul fatto che i vicini vi assisteranno. Certo, agli occhi dei turisti, “fare una scenata” fa parte dello stereotipo di Napoli, un luogo comune coltivato non solo da tutti coloro che producono e consumano cultura popolare (basti pensare alle scene di vecchi successi hollywoodiani come “La baia di Napoli“(1960), con Sophia Loren e Clark Gable), ma anche dagli stessi napoletani.
Il tentativo della mostra è di prendere lo stereotipo sul serio ed esplorarne i vari livelli di significato per capire il rapporto fra il processo artistico, come l’oggetto o l’immagine, e il suo esito nello spazio, e ovviamente alla reazione del pubblico. Non c’è forse una sorta di “accordo non scritto” fra l’artista e il suo pubblico per quanto riguarda ciò che l’artista è tenuto a “consegnare”, sia esso intrattenimento, illuminazione o alienazione? Un buon esempio di ciò che succede qualora questo “accordo” venisse infranto (uno degli spunti per questa mostra) è un disastroso show del 1979 del comico americano Andy Kaufman, passato alla storia. Dopo essersi permesso di invitare i membri della sua famiglia a salire sul palco e raccontare barzellette o cantare in modo del tutto dilettantesco, si vede un Kaufman sgomento, sul punto di scoppiare in lacrime, davanti ai fischi e alle urla del pubblico. Comincia a singhiozzare e, improvvisamente, è come se avesse ribaltato la situazione, trasformando lo spettacolo davanti al suo pubblico in una autentica riunione di famiglia. Preso dall’imbarazzo quando uno di loro rivela un imbarazzante segreto, cade vittima di un esaurimento nervoso. È soltanto quando il comico comincia a muoversi a ritmo di samba, accompagnando i singhiozzi, che tutti tornano nuovamente a ridere, quasi fossero sollevati dal fatto che l’accordo sia stato “ripristinato” e “mantenuto”.
“Fare una scenata” parla della possibilità di dar vita ad un conflitto per far emergere la “verità” – o forse allontanare dalla verità! – su un rapporto che può essere quello tra due amanti, fra i membri di diversi gruppi sociali o tra l’artista e il suo pubblico. È un modo isterico di risolvere i problemi, cercando la consolazione – oppure di produrre problemi, manifestando un fondamentale disaccordo. Quest’ultimo aspetto è illustrato alla perfezione in una scena del film “L’oro di Napoli”di Vittorio de Sica(1954), tratto dal libro di Giuseppe Marotta. Nella scena in questione, si vede Eduardo De Filippo dare consigli ad un gruppo di suoi vicini su come punire un nobile dal cuore di pietra attraverso un pernacchio, un modo tutto napoletano di dire a qualcuno che non vale un accidente. Gli consiglia di salutare questo personaggio, ogni volta che passa con la sua automobile, apostrofandolo col suo nome completo, “Duca Alfonso Maria Di Sant’Agata dei Fornai”, seguito da un bel pernacchio collettivo. Diventa una rivoluzionaria chiamata alle armi o, meglio, il suono di un monumentale “whoopee cushion” (un cuscino da piazzare sulla sedia della vittima ignara che, sedendosi, produrrà un rumore fragoroso) che “sgonfia” letteralmente tutta la presunzione del duca.
Le opere messe in mostra esplorano tutta la gamma di significati di “Fare una scenata”. Anche se, forse, non ci sono opere ad illustrare il “classico” litigio di coppia della commedia romantica, ci sono creazioni che – con ferocia o umorismo – inscenano un conflitto che potrebbe “rompere l’accordo” col pubblico, o risolvere i problemi in modo isterico, mentre altri visualizzano e strutturano intuitivamente nello spazio, la sfera immaginaria che contiene questo tipo di interazioni.
Gli artisti e le opere
Lisa Anne Auerbach (Los Angeles) e Alexandra Mir (Palermo)
Seguendo percorsi artistici diversi, hanno in precedenza collaborato alla mostra dal titolo “Miss America”, un intenso e allo stesso tempo divertente viaggio attraverso gli effetti del clima politico dell’era Bush sulla condizione della donna (Los Angeles, Rental Gallery, 2006). Questa volta, invece, realizzeranno un nuovo lavoro dal titolo Marzarama coinvolgendo il “risanamento” di calchi in gesso che riproducono le statue classiche alla Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Auerbach e Mir si servono della pasta di mandorle per riparare, come in un film, i calchi in gesso, oppure aggiungervi le parti mancanti nelle sculture originali a grandezza naturale. In questo modo, faranno propria un’assurda arte ricostruttiva che unisce lo studio degli antichi ideali di bellezza con i moderni orientamenti di chirurgia estetica. Alcuni di questi effimeri atti creativi potrebbero tradursi in tentativi comicamente inutili di ricostruire interi arti, o produrre nuove forme corporee che la specie umana ancora non conosce. Ciò darà luogo ad attimi fugaci di grande trasporto che, immortalati in un video, saranno poi proiettati negli spazi della Fondazione.
Pierre Bismuth (Bruxelles)
Per questa occasione, ha appositamente realizzato una nuova opera, che va ad inserirsi nella serie intitolata “Following the Right Hand Of”. Alla base della serie c’è l’idea di seguire con un pennarello, per l’intera durata di un film, la mano destra di un’attrice. In questo modo, l’attrice “contribuisce” a produrre un disegno mediante i movimenti della sua stessa mano. Il disegno viene poi sistemato davanti ad un fotogramma tratto dal film in cui compare l’attrice. I gesti dell’attrice, pacati o veementi che siano, sono così trasformati in una sorta di diagramma e, in combinazione con il fotogramma, danno vita ad un messaggio cifrato che racconta dei comportamenti che nascono da desideri e conflitti. Nel caso dell’opera presentata a questa mostra, la mano seguita è quella di Sophia Loren nel film “La Ciociara” (1960) (Two Women, 1960) di Vittorio de Sica, la storia di una donna che, con sua figlia, fugge dai bombardamenti alleati che devastarono Roma durante la seconda guerra mondiale.
Christoph Dettmeier (Berlino)
Presenterà una nuova serie di esibizioni dal titolo “Country Karaoke”. L’artista canterà in karaoke alcuni dei suoi brani country preferiti, che hanno come tema delle tragiche storie d’amore. Ai brani si intervalleranno dei discorsi sui modelli di comportamento femminile, di ispirazione cattolica, tipici dello stile detto “Spaghetti Western”. Nel corso dell’esibizione di Dettmeier saranno proiettate anche alcune diapositive raffiguranti desolati paesaggi urbani, alcuni dei quali si trovano a Napoli, che in pratica costituiscono le Monument Valley di oggi. A ciò si aggiungerà anche la proiezione di un video con il quale l’artista interagirà ballando. Tutti questi elementi saranno, infine, affiancati anche da un semplice palcoscenico che, trasformato, resterà esposto per tutta la durata della mostra.
Haris Epaminonda (Londra e Nicosia, Cipro)
Si è servita di sequenze tratte da diversi melodrammatici film greci di serie B per dar vita a “Tarahi”, un video costituito da una serie di immagini spaziali dai colori saturi che sembrano venir fuori da una versione surreale del mondo hitchcockiano di “La donna che visse due volte”. Nel video, le immagini si sovrappongono: un uomo dai capelli impomatati con in mano un microfono volge lo sguardo al cielo mentre sul suo viso compare un fuoco d’artificio o, ancora, alcune famiglie attraversano un aeroporto mentre un sole slavato le segue come un riflettore (questo aspetto del video di Epaminonda si richiama ai suoicollage in bianco e nero, anch’essi basati su sorprendenti giustapposizioni). Le sovrapposizioni e le frammentazioni presenti nelle tre proiezioni alternate creano un ritmo musicale che si rifà alla colonna sonora per pianoforte, meravigliosamente indecisa, firmata dal compositore russo Alexander Skrjabin.
Özlem Günyol e Mustafa Kunt (Francoforte e Ankara)
Presenterà un video dal titolo “Section 1” (2005). La breve sequenza, riprodotta in modo continuo, mostra ilremake di una scena tratta dal film “Itiraf” (2002) del celebre regista turco Zeki Demirkubuz. Nel film si racconta la storia di un uomo che sospetta la moglie di infedeltà. Pur senza allontanarsi molto dai dialoghi della scena originale, Günyol e Kunt finiscono ugualmente per alterare profondamente la nuova scena, spostandola dall’ambientazione semipubblica di un ristorante a quella, in apparenza privata, di una cucina osservata attraverso lo spiraglio di una porta lasciata socchiusa. Alla natura spesso cruda e poco cortese di quanto detto si contrappone il comportamento curiosamente calmo dei protagonisti. Tutto contribuisce a creare un risultato bizzarro in cui si sovrappongono lo scenario immaginario tratto dal film, la realtà di una coppia e lo sforzo performativo dei due artisti che creano l’opera.
Henrik Håkansson (Berlino e Köinge, Svezia)
L’artista svedese dà vita ad un’opera destinata al seminterrato della Fondazione. In molte delle sue precedenti opere, Håkansson ha esplorato le diverse condizioni di osservazione della natura. Ad esempio, ha intrapreso viaggi avventurosi per filmare specie ad altissimo rischio di estinzione, come la pitta di Gurney, un uccello che vive in Thailandia. Un altro filone artistico che caratterizza le sue opere è quello degli animali in veste di cantanti: rane che gracidano al ritmo della musica ambient techno che riecheggia nella loro palude (“Frog for e.s.t. (eternal sonic trance)”, 1995), oppure centinaia di grilli che si esibiscono dal vivo su un palco degno di una banda rock, con tanto di effetti di riverbero (“Monsters of Rock”, 1997). Questa volta, da un normale amplificatore per chitarra elettrica sarà emesso un unico verso di uccello. L’ampio seminterrato con il soffitto a volta si trasformerà così in una camera a eco naturale in cui anche i rumori inevitabilmente prodotti dai visitatori diverranno parte integrante del suono.
Marko Lulic (Vienna e Berlino)
Lulic fatto suoi i monumenti eretti alla memoria dei partigiani iugoslavi, impiegandoli nel progetto intitolato “Modernity in Yu” (febbraio 2001), che ha animato numerose mostre, e il monumento dedicato da Mies van der Rohe a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg (distrutto dai nazisti nel 1935), impiegato in diverse versioni dell’”Entertainment Center Mies” (aprile 2004). Nel farlo, è sempre stato pienamente cosciente del fatto che vi sia qualcosa di profondamente “inappropriato”nel trasformare un monumento pubblico alla memoria in una scultura “privata” esposta in una galleria. Ma è proprio questa “inappropriatezza” a costituire la molla che consente a Lulic di scuotere i frammenti della modernità, svincolandoli dalla paralisi storica ed eroica in cui versano e valutare la possibilità di rapportarli alle questioni del tempo presente. In modo simile, per la sua nuova opera dal titolo “Opening Speech”, si approprierà di svariati stili di progettazione delle tribune per oratori, appartenenti ad epoche storiche e contesti diversi – politica, economia, ambito accademico – per creare lo scenario di apertura della mostra “Fare una scenata”. Tre professionisti dell’arte di fama mondiale terranno ciascuno un discorso di apertura (la cui registrazione farà da sfondo all’esposizione delle sculture). La lieve pomposità di questi tre discorsi – in effetti un fatto abbastanza comune nelle mostre presso i musei e nelle cerimonie di premiazione – avrà probabilmente come risultato dei momenti di assurda incomprensione in un cacofonico e sorprendente sincronismo.
21
maggio 2008
Fare Una Scenata. Making a Scene
Dal 21 maggio al 31 luglio 2008
arte contemporanea
Location
Orario di apertura
lun-ven ore 10.30-13.30
Vernissage
21 Maggio 2008, ore 18
Autore
Curatore