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Fausto Cheng – Feng, il canto della Fenice
personale
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Feng il canto della fenice
di Umberto Palestini
Ci accoglie una superficie sommersa da carbone, un
mare vibrante, come scolpito dalla forza tellurica di
oscure mani. Da questo tappeto, fatto di schegge
opache del colore della notte, nasce una forma che, in
controluce, esplode e si libra verso l'alto con magico
effetto scenografico. Proseguendo su un passaggio
reticolato scorgiamo sotto di noi una forma illuminata
che riflette, su una parete, luminosità vibranti.
Oltrepassato il piccolo ponte scopriamo che la forma
intravista era un recipiente colmo d'acqua con un
cuore d'oro poggiato sul fondo. Saliamo le scale che
conducono ad una stanza per trovare un'isola di
specchi spezzati dove verdi, sottili iridescenze
contornano spazi scheggiati dai brillanti bagliori e
da cui spuntano, svettanti, piccoli giunchi a formare
un boschetto. Siamo rapiti da sonorità cristalline
dentro echi rarefatti che fanno vibrare lo spazio come
in un sortilegio pieno d'incanto. Ancora una salita
dentro un suggestivo cunicolo e veniamo a contatto con
la forma osservata all'ingresso dal basso che assume
le sembianze stilizzate e possenti di un grande
uccello. Affrontate le ultime scale ecco l'ultima
stanza; qui, accerchiata da otto lance che hanno
infilzato sagome dalle code splendenti, troviamo
un'altra isola. Uno spazio circolare di candido sale
che accoglie, al centro, una sorta di pira combusta
fatto di oscuri intrecci, ormai carbonizzati.
Avvicinandoci al centro, mentre profumi inebrianti si
spandono nell'aria, la forma osservata da lontano
assume le sembianze di un nido dentro il quale viene
conservato un cuore d'oro solcato da piccole vene
brunite. Una forza ammaliante sembra indurci a girare
intorno all'opera; le lance si caricano di inattesi
riflessi luminosi mentre la superficie salina si
increspa in morbide e vellutate sfumature di candido
biancore.
Questa potrebbe essere la sommaria descrizione, che
tralascia le piccole ma preziose opere sparse nel
percorso, dell'intervento installativo proposto, con
il consueto rigore e raffinata sensibilità da Fausto
Cheng, dal titolo Feng. Il canto della Fenice. Con il
suo ultimo intervento l'artista conferma la personale
capacità di far rivivere i luoghi e trasformarli,
senza alcuna violenta alterazione, in dimore permeate
di magiche risonanze grazie ad un'arte che coinvolge
lo spettatore in un'esperienza multisensoriale. La
magia di Fausto Cheng ci trasporta con leggerezza in
un universo dove l'inatteso si carica di poetiche
risonanze ed in cui misteriosi elementi scultorei
interrogano l'osservatore come enigmi scaturiti dal
profondo. Per il magnifico spazio medievale di Torre
Bruciata, con coerente associazione, egli ci invita a
riflettere sull'ancestrale figura della Fenice,
uccello mitologico che rinasce a nuova vita dalle
proprie ceneri per ritornare a volare dopo essersi
eclissato durante tempi bui.
La Fenice intreccia il tema della morte e della
resurrezione, assurgendo a simbolo della forza che
preannuncia un nuovo e fertile periodo in cui si
riscopre lo slancio e la forza vitale della creazione.
L'uccello, emblema dell'eterna rinascita spirituale e
rigenerazione umana, secondo l'antico il mito della
creazione, fu la prima forma di vita apparsa sulla
terra sorta dal caos acquatico ed ammaliava, con il
suo melodioso canto, il dio del sole. La Fenice,
declinata in diverse sfumature, è presente in tutte le
culture: sumera, inca, russa, ma in particolare nella
mitologia cinese, buddista, giapponese ed ebraica. In
Cina, con il nome Feng, assomma, oltre al sogno
dell'immortalità, la capacità visiva di raccogliere
informazioni sensorie sull'ambiente circostante,
grazie al volo e allo guardo “da aquila”, e
l'esaltazione della bellezza assoluta. Ma una
sostanziale differenza, rispetto alle altre civiltà,
rende il suo mito in Cina un simbolo universale di
grande fascino. Il Feng, diversamente dal sempre
maschio Benu, antico nome della Fenice, può vivere in
coppia ed essere maschio o femmina. Secondo la
mitologia cinese, al momento del concepimento, è il
Feng a consegnare l'anima del nascituro nel grembo
della madre.
Quest'ottica, adottata da Fausto Cheng, trasforma,
il suo intervento in una sorta di viaggio dentro le
proprie radici: un autoritratto plasmato sui temi che
da oltre un decennio affronta con assoluto rigore ed
una capacità evocativa e poetica di grande
suggestione. La potenza del sentimento è uno dei temi
portanti; non implica solo l'amore ma, soprattutto,
quell'aver a cuore le cose dell'umano agire, senza
dimenticare i dolori e le violenze che lo affliggono.
Feng, il canto della Fenice, è la potente metafora che
illumina, come solo l'arte riesce a fare, eterne
problematiche rintracciabili anche nella realtà
contemporanea. La potente forza propulsiva della
nascita, ottenuta dall'artista costellando di piccole
schegge carbonizzate i fili che emergono, come una
scia, dal magma oscuro portandoci ad osservare la
sagoma in volo, è un'idea formale di notevole
maestria. Il cadenzato gocciolio, che genera riflessi
arabescati sulle antiche pareti di uno spazio avvolto
dall'ombra e che accoglie tra i suoi resti un cuore
in attesa di riemergere dalle acque, è un momento di
pura poesia visiva. L'isola specchiante dai vetri
spezzati restituisce i nostri volti come in un
mosaico andato in frantumi, mentre osserviamo, avvolti
dal canto, giunchi filiformi emergere dal fondo
abbagliante; la scultura diventa un territorio fertile
per sperimentazioni ardite in grado di produrre
meraviglia. L'installazione finale, come in un rito
colmo di sacralità, ingabbia uno spazio circolare con
lance acuminate a simbolo degli eterni conflitti a cui
l'uomo sembra non voler rinunciare per seguire gli
impulsi di un'assurda violenza senza fine, causa di
immenso e straziante dolore. Al centro, come vuole la
leggenda, la ricostruzione del luogo appartato scelto
dalla Fenice al sopraggiungere della sua morte per
intrecciare un nido con ramoscelli di sandalo, mirto
e legno di cannella dove adagiarsi lasciando che i
raggi del sole la incendino. Fausto Cheng depone la
pira della sua Feng, dentro cui risplende ancora un
cuore, sopra una zattera di candido sale: il sale
della terra, a ricordarci che nonostante il dolore
della dipartita ci attende una possibile rinascita
dove, se fossimo più saggi, sapremmo condire la
nostra esistenza con il sentimento e la comprensione,
la poesia e la bellezza. La lezione che ancora una
volta Fausto Cheng ci impartisce, senza ricorrere ad
alcuna retorica, ma utilizzando la forza persuasiva di
un'arte che attraversa diversi linguaggi e coniuga
idiomi lontani, è mostrare il valore della mano e
delle idee di artisti capaci di donarci il mondo con
un'opera colma d'incanto.
di Umberto Palestini
Ci accoglie una superficie sommersa da carbone, un
mare vibrante, come scolpito dalla forza tellurica di
oscure mani. Da questo tappeto, fatto di schegge
opache del colore della notte, nasce una forma che, in
controluce, esplode e si libra verso l'alto con magico
effetto scenografico. Proseguendo su un passaggio
reticolato scorgiamo sotto di noi una forma illuminata
che riflette, su una parete, luminosità vibranti.
Oltrepassato il piccolo ponte scopriamo che la forma
intravista era un recipiente colmo d'acqua con un
cuore d'oro poggiato sul fondo. Saliamo le scale che
conducono ad una stanza per trovare un'isola di
specchi spezzati dove verdi, sottili iridescenze
contornano spazi scheggiati dai brillanti bagliori e
da cui spuntano, svettanti, piccoli giunchi a formare
un boschetto. Siamo rapiti da sonorità cristalline
dentro echi rarefatti che fanno vibrare lo spazio come
in un sortilegio pieno d'incanto. Ancora una salita
dentro un suggestivo cunicolo e veniamo a contatto con
la forma osservata all'ingresso dal basso che assume
le sembianze stilizzate e possenti di un grande
uccello. Affrontate le ultime scale ecco l'ultima
stanza; qui, accerchiata da otto lance che hanno
infilzato sagome dalle code splendenti, troviamo
un'altra isola. Uno spazio circolare di candido sale
che accoglie, al centro, una sorta di pira combusta
fatto di oscuri intrecci, ormai carbonizzati.
Avvicinandoci al centro, mentre profumi inebrianti si
spandono nell'aria, la forma osservata da lontano
assume le sembianze di un nido dentro il quale viene
conservato un cuore d'oro solcato da piccole vene
brunite. Una forza ammaliante sembra indurci a girare
intorno all'opera; le lance si caricano di inattesi
riflessi luminosi mentre la superficie salina si
increspa in morbide e vellutate sfumature di candido
biancore.
Questa potrebbe essere la sommaria descrizione, che
tralascia le piccole ma preziose opere sparse nel
percorso, dell'intervento installativo proposto, con
il consueto rigore e raffinata sensibilità da Fausto
Cheng, dal titolo Feng. Il canto della Fenice. Con il
suo ultimo intervento l'artista conferma la personale
capacità di far rivivere i luoghi e trasformarli,
senza alcuna violenta alterazione, in dimore permeate
di magiche risonanze grazie ad un'arte che coinvolge
lo spettatore in un'esperienza multisensoriale. La
magia di Fausto Cheng ci trasporta con leggerezza in
un universo dove l'inatteso si carica di poetiche
risonanze ed in cui misteriosi elementi scultorei
interrogano l'osservatore come enigmi scaturiti dal
profondo. Per il magnifico spazio medievale di Torre
Bruciata, con coerente associazione, egli ci invita a
riflettere sull'ancestrale figura della Fenice,
uccello mitologico che rinasce a nuova vita dalle
proprie ceneri per ritornare a volare dopo essersi
eclissato durante tempi bui.
La Fenice intreccia il tema della morte e della
resurrezione, assurgendo a simbolo della forza che
preannuncia un nuovo e fertile periodo in cui si
riscopre lo slancio e la forza vitale della creazione.
L'uccello, emblema dell'eterna rinascita spirituale e
rigenerazione umana, secondo l'antico il mito della
creazione, fu la prima forma di vita apparsa sulla
terra sorta dal caos acquatico ed ammaliava, con il
suo melodioso canto, il dio del sole. La Fenice,
declinata in diverse sfumature, è presente in tutte le
culture: sumera, inca, russa, ma in particolare nella
mitologia cinese, buddista, giapponese ed ebraica. In
Cina, con il nome Feng, assomma, oltre al sogno
dell'immortalità, la capacità visiva di raccogliere
informazioni sensorie sull'ambiente circostante,
grazie al volo e allo guardo “da aquila”, e
l'esaltazione della bellezza assoluta. Ma una
sostanziale differenza, rispetto alle altre civiltà,
rende il suo mito in Cina un simbolo universale di
grande fascino. Il Feng, diversamente dal sempre
maschio Benu, antico nome della Fenice, può vivere in
coppia ed essere maschio o femmina. Secondo la
mitologia cinese, al momento del concepimento, è il
Feng a consegnare l'anima del nascituro nel grembo
della madre.
Quest'ottica, adottata da Fausto Cheng, trasforma,
il suo intervento in una sorta di viaggio dentro le
proprie radici: un autoritratto plasmato sui temi che
da oltre un decennio affronta con assoluto rigore ed
una capacità evocativa e poetica di grande
suggestione. La potenza del sentimento è uno dei temi
portanti; non implica solo l'amore ma, soprattutto,
quell'aver a cuore le cose dell'umano agire, senza
dimenticare i dolori e le violenze che lo affliggono.
Feng, il canto della Fenice, è la potente metafora che
illumina, come solo l'arte riesce a fare, eterne
problematiche rintracciabili anche nella realtà
contemporanea. La potente forza propulsiva della
nascita, ottenuta dall'artista costellando di piccole
schegge carbonizzate i fili che emergono, come una
scia, dal magma oscuro portandoci ad osservare la
sagoma in volo, è un'idea formale di notevole
maestria. Il cadenzato gocciolio, che genera riflessi
arabescati sulle antiche pareti di uno spazio avvolto
dall'ombra e che accoglie tra i suoi resti un cuore
in attesa di riemergere dalle acque, è un momento di
pura poesia visiva. L'isola specchiante dai vetri
spezzati restituisce i nostri volti come in un
mosaico andato in frantumi, mentre osserviamo, avvolti
dal canto, giunchi filiformi emergere dal fondo
abbagliante; la scultura diventa un territorio fertile
per sperimentazioni ardite in grado di produrre
meraviglia. L'installazione finale, come in un rito
colmo di sacralità, ingabbia uno spazio circolare con
lance acuminate a simbolo degli eterni conflitti a cui
l'uomo sembra non voler rinunciare per seguire gli
impulsi di un'assurda violenza senza fine, causa di
immenso e straziante dolore. Al centro, come vuole la
leggenda, la ricostruzione del luogo appartato scelto
dalla Fenice al sopraggiungere della sua morte per
intrecciare un nido con ramoscelli di sandalo, mirto
e legno di cannella dove adagiarsi lasciando che i
raggi del sole la incendino. Fausto Cheng depone la
pira della sua Feng, dentro cui risplende ancora un
cuore, sopra una zattera di candido sale: il sale
della terra, a ricordarci che nonostante il dolore
della dipartita ci attende una possibile rinascita
dove, se fossimo più saggi, sapremmo condire la
nostra esistenza con il sentimento e la comprensione,
la poesia e la bellezza. La lezione che ancora una
volta Fausto Cheng ci impartisce, senza ricorrere ad
alcuna retorica, ma utilizzando la forza persuasiva di
un'arte che attraversa diversi linguaggi e coniuga
idiomi lontani, è mostrare il valore della mano e
delle idee di artisti capaci di donarci il mondo con
un'opera colma d'incanto.
10
settembre 2005
Fausto Cheng – Feng, il canto della Fenice
Dal 10 settembre al 05 novembre 2005
arte contemporanea
Location
TORRE BRUCIATA
Teramo, Via Antica Cattedrale, (Teramo)
Teramo, Via Antica Cattedrale, (Teramo)
Orario di apertura
17.30-19.30, chiuso lunedì e festivi
Autore