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Federica Dal Falco – Carapace: Testimonianza di un’estinzione
La ricostruzione di un carapace di una tartaruga gigante endemica in’uisoletta dell’Oceano Indiano, estinta nel XVIII secolo: a partire da quanto esposto nelle teche in vetro e mogano di un museo parigino, passando per le memorie di avventurieri e naturalisti di cui ci è giunta testimonianza.
Comunicato stampa
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“Essendo dati il carapace, il tavolo da cucina, le scatole luminose delle albe e dei tramonti sull’Oceano indiano…”: viene fatto di ripetere a memoria il noto motivo esoterico di Marcel Duchamp (“Etant donnés: 1, la chute d’eau; 2, le gaz d’ éclair- age…”) di fronte alla sintesi di precisione realistica e atmosfera magica tentata da Federica Dal Falco per rendere intuitivo e sensibile l’intimo dissidio tra la vita e la forma, l’anima vitale e la sua schematica rappresentazione.
In questa sorta di “quattrocentismo” procedurale (razionalità e fantasia compositiva) la virtuosa camera ottica dell’autrice predilige esibire la ricomposizione di un sintomatico e correlativo repertorio di oggetti evocandoli in situazione, come di fronte ad una teca museale percorsa dall’ emotività. Ed è proprio la passione dichiarata per i musei di scienza naturale a suggerire l’estro visivo di una composizione che riesce a sottrarre il dato (il carapace) dall’ambito classificatorio (la teca) immettendolo come “oggetto ansioso” in un dispositivo immaginario imprevisto che rilancia in chiave eco-etologica la dialettica uomo-natura.
Tema antropologico, tema genetico-biologico, o tema storico-sociale…? Sono le principali domande emergenti dalla messa in scena del fatale “klinamen” storico che a un certo punto favorì l’estinzione della speciale testuggine Cylindraspis, spettacolo allestito con accurata precisione grazie ad un istinto narrativo che dall’ esito apparente di un “destino naturale” sprigiona la forza altamente persuasiva riguardo al prepotente fomite, apparentemente incoercibile, della voracità umana.
Il dramma simbolico così rappresentato si svolge in una sintesi unitaria di tempo e luogo, con una visione simultanea ripresa da un’impalcatura di naviglio, come percepita da un oblò: qui spunta il carapace a placche (guscio, o abitazione, o metafora d’ogni architettura, forma sottratta al flusso esistenziale), qui la traccia dell’ homo sapiens (la metonimia del tavolo da cucina, luogo rituale per la metamorfosi del cibo), qui gli orizzonti del tempo e dello spazio, luogo dello sterminio biologico (il sorgere e lo scomparire del sole). La macchinazione visiva procede dal guscio vuoto e diafano della tartaruga (reminiscenza residuale, osso di seppia, radice del freddo classicismo) al colore trasmesso per effrazione di corrente luminosa, come parafrasi scansionata dell’evento.
Ed è in questa intermittente percezione del tempo (quando estatica, quando scorrevole) che la qualità della installazione, oltre che significativa, si rende persuasiva sul piano estetico. Come in un progressivo sacrificio rituale l’evento espiatorio si annuncia nei dettagli (l’oro dell’alba, il rosso sangue del tramonto) perché c’è sempre un senso magico, o sacrale, da scoprire nella vita quotidiana degli uomini, delle cose.
Proiettata su uno scenario di precisa incidenza storico-sociale, la narrazione di Federica Dal Falco introduce un impeccabile elemento di giudizio sulle radici del genocidio delle tartarughe Cylindraspis, seguito all’irruenza cieca dell’avventura coloniale europea. Ma la sequenza e la sintesi della sua installazione sembrano travalicare visivamente anche il dato storico e circostanziale per accedere ad una raffigurazione simbolica del metabolismo universale dell’uomo con la natura.
Nulla di nuovo, allora, sotto il sole? In questa coinvolgente ambiguità semantica si distingue e si fa apprezzare il “Carapace” allestito da Federica, opera che tanto più persuade in quanto invita, più di qualunque altra spiegazione, ad apprezzare la suggestiva presenza del “magico” nei fatti quotidiani e ad esprimere coi mezzi dell’arte il mistero del mondo.
In questa sorta di “quattrocentismo” procedurale (razionalità e fantasia compositiva) la virtuosa camera ottica dell’autrice predilige esibire la ricomposizione di un sintomatico e correlativo repertorio di oggetti evocandoli in situazione, come di fronte ad una teca museale percorsa dall’ emotività. Ed è proprio la passione dichiarata per i musei di scienza naturale a suggerire l’estro visivo di una composizione che riesce a sottrarre il dato (il carapace) dall’ambito classificatorio (la teca) immettendolo come “oggetto ansioso” in un dispositivo immaginario imprevisto che rilancia in chiave eco-etologica la dialettica uomo-natura.
Tema antropologico, tema genetico-biologico, o tema storico-sociale…? Sono le principali domande emergenti dalla messa in scena del fatale “klinamen” storico che a un certo punto favorì l’estinzione della speciale testuggine Cylindraspis, spettacolo allestito con accurata precisione grazie ad un istinto narrativo che dall’ esito apparente di un “destino naturale” sprigiona la forza altamente persuasiva riguardo al prepotente fomite, apparentemente incoercibile, della voracità umana.
Il dramma simbolico così rappresentato si svolge in una sintesi unitaria di tempo e luogo, con una visione simultanea ripresa da un’impalcatura di naviglio, come percepita da un oblò: qui spunta il carapace a placche (guscio, o abitazione, o metafora d’ogni architettura, forma sottratta al flusso esistenziale), qui la traccia dell’ homo sapiens (la metonimia del tavolo da cucina, luogo rituale per la metamorfosi del cibo), qui gli orizzonti del tempo e dello spazio, luogo dello sterminio biologico (il sorgere e lo scomparire del sole). La macchinazione visiva procede dal guscio vuoto e diafano della tartaruga (reminiscenza residuale, osso di seppia, radice del freddo classicismo) al colore trasmesso per effrazione di corrente luminosa, come parafrasi scansionata dell’evento.
Ed è in questa intermittente percezione del tempo (quando estatica, quando scorrevole) che la qualità della installazione, oltre che significativa, si rende persuasiva sul piano estetico. Come in un progressivo sacrificio rituale l’evento espiatorio si annuncia nei dettagli (l’oro dell’alba, il rosso sangue del tramonto) perché c’è sempre un senso magico, o sacrale, da scoprire nella vita quotidiana degli uomini, delle cose.
Proiettata su uno scenario di precisa incidenza storico-sociale, la narrazione di Federica Dal Falco introduce un impeccabile elemento di giudizio sulle radici del genocidio delle tartarughe Cylindraspis, seguito all’irruenza cieca dell’avventura coloniale europea. Ma la sequenza e la sintesi della sua installazione sembrano travalicare visivamente anche il dato storico e circostanziale per accedere ad una raffigurazione simbolica del metabolismo universale dell’uomo con la natura.
Nulla di nuovo, allora, sotto il sole? In questa coinvolgente ambiguità semantica si distingue e si fa apprezzare il “Carapace” allestito da Federica, opera che tanto più persuade in quanto invita, più di qualunque altra spiegazione, ad apprezzare la suggestiva presenza del “magico” nei fatti quotidiani e ad esprimere coi mezzi dell’arte il mistero del mondo.
21
ottobre 2024
Federica Dal Falco – Carapace: Testimonianza di un’estinzione
Dal 21 al 26 ottobre 2024
arte contemporanea
personale
personale
Location
GALLERIA EMBRICE
Roma, Via Delle Sette Chiese, 78, (Roma)
Roma, Via Delle Sette Chiese, 78, (Roma)
Orario di apertura
ore 18:00-20:00
Vernissage
21 Ottobre 2024, dalle 18:00
Sito web
Autore
Curatore
Autore testo critico
Progetto grafico