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Filippo Malice – Benvenuti in Paradiso
Con un evidente titolo paradossale, Filippo Malice costruisce una sua sala d’armi, impregnata di doppi, tripli e molteplici sensi
Comunicato stampa
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Benvenuti in Paradiso
Francesco Gallo
Con un evidente titolo paradossale, Filippo Malice costruisce una sua sala d’armi, impregnata di doppi, tripli e molteplici sensi, spesso anche, d’intenso spirito ironico, in un complicato agglomerarsi d’oggetti e immagini spregiudicate e forti, sempre connesse con una eclatante carica declamatoria, teatrale, dell’irrealtà, fatta di caricatura e forzatura della materia.
Si tratta di evidenti finzioni, emanate da una elaborata prassi dello spirito rivoluzionario delle avanguardie, soprattutto di quella dadaista, che ha fatto della forzatura e della estremizzazione una prassi, tutta giocata sulla alterazione del senso comune e del qui pro quo.
La sua è una continua lotta per cambiare i significati delle cose, appiccicando loro, nomi improbabili, ora della cr0uda realtà quotidiana, scaraventata su di noi, quotidianamente, dal cinismo dei media, ora della mitologia improbabile della memoria, trasudata dai pori da una pelle lontana, resa incredibile dalla sua stessa arancia meccanica, fatta di frammenti sottratti alla morte e al degrado e proposti ad una nuova vita, trasformati in opere d’arte, in incredibili ed affascinanti forme del vedere e del toccare.
Avviene così la storia di questa morfologia che viene convinta ad adattarsi ad un nuovo copione, con un minimo do manipolazione ed un massimo d’invenzione, per emergere come macchina celibe che vuole sembrare prima di essere e (paradossalmente) vuole essere prima ancora di sembrare.
Sembra (ed è) un gioco delle parti, una combinazione che sfida la simulazione di una teatralità volutamente scombinata, fondata sullo scambio simbolico, quasi a volere fondare un armata di Don Chisciotte e Sancio Panza, moltiplicati a dismisura in questo nostro tempo di medialità, in cui ogni unità, ogni realtà, viene offuscata se non, addirittura, negata da una fantasmaticità che entra in ciascuno di noi, come si entra nei ricordi e nei desideri.
Così, Filippo Malice, trascende se stesso come inventore allegro e drammatico che non si lascia imbrigliare facilmente dalla rete convenzionale del suo lavoro e cerca, ogni volta, la migliore via di fuga, procedendo per attraversamenti e trasversalità che attraggono piaceri e sensualità e li orientano verso l’imprevisto, in una spettacolarità che è fecondata dal vizio assurdo della morte dell’arte.
Una morte, più volte annunciata, ma sempre vista come prospettiva di una artisticità senza un volto preciso, appunto perché li prende tutti, da quello espressionistico a quello brutale, da quello estetico a quello ludico, mettendo insieme, genealogie diverse tra di loro, destinate nell’altra vita ad non incontrarsi mai ed ora messe qui insieme da una livella che, dopo avere travolto ogni cosa nata da uomo o fatta da uomo in exitu, lascia che gli spezzoni e le scorie, si facciano una nuova famiglia, in cui il nome e la cosa sono frutto di una corrispondenza folle e indefinita, in cui può essere detto tutto di tutti e fatto tutto di tutti.
L’effetto maggiore, di tutta l’opera di Filippo Malice, è quello di un trasudamento che lascia gli umori della ruggine, della saldatura, dell’immagine raccolta a volo d’intuito, con una visibilità che è tutta concentrata nei confini dell’oggettività ritrovata, superando lo stordimento e lo stranimento che viene da ogni pieno di disordine che non si lascia prendere per il capo che è sempre altrove, rispetto a dove è previsto che si possa trovare e non resta che afferrare per la cosa; cioè fare sempre un lavoro che si affina nel processo del suo divenire, destando sorprese, fino al momento in cui, per ciascuno, si può scrivere la parola fine.
Che poi è una fine provvisoria, l’anticipo di una nuova partenza, dove la casualità e la necessità si fondono e si confondono nella fucina del fare e là trovano la loro causalità fatta di “provocazione” e di “scandalo”, anche se, ormai, nessuno più si lascia provocare o finge di scandalizzarsi e così, tutto agisce come un automatismo che travolge tutto e tutti.
Si evoca, così, il luogo della pace e della serenità, come sbocco di una emozione e di un sentimento recondito delle cose, che si manifesta nell’inquietudine del nuovo, nella sfrenatezza dell’originalità che si avvolge dell’abito della follia, così che tutti possano fingere di non capire, perché non c’è proprio niente da capire.
Mentre, in effetti, ribolle un pentolone magico di segni e di gesti che appartengono al post-moderno, come una tribù barbara appartiene alle buone maniere, scombinando riti e miti, facendo scolorire le maschere della vecchiaia, con i turchi alle porte.
Francesco Gallo
Con un evidente titolo paradossale, Filippo Malice costruisce una sua sala d’armi, impregnata di doppi, tripli e molteplici sensi, spesso anche, d’intenso spirito ironico, in un complicato agglomerarsi d’oggetti e immagini spregiudicate e forti, sempre connesse con una eclatante carica declamatoria, teatrale, dell’irrealtà, fatta di caricatura e forzatura della materia.
Si tratta di evidenti finzioni, emanate da una elaborata prassi dello spirito rivoluzionario delle avanguardie, soprattutto di quella dadaista, che ha fatto della forzatura e della estremizzazione una prassi, tutta giocata sulla alterazione del senso comune e del qui pro quo.
La sua è una continua lotta per cambiare i significati delle cose, appiccicando loro, nomi improbabili, ora della cr0uda realtà quotidiana, scaraventata su di noi, quotidianamente, dal cinismo dei media, ora della mitologia improbabile della memoria, trasudata dai pori da una pelle lontana, resa incredibile dalla sua stessa arancia meccanica, fatta di frammenti sottratti alla morte e al degrado e proposti ad una nuova vita, trasformati in opere d’arte, in incredibili ed affascinanti forme del vedere e del toccare.
Avviene così la storia di questa morfologia che viene convinta ad adattarsi ad un nuovo copione, con un minimo do manipolazione ed un massimo d’invenzione, per emergere come macchina celibe che vuole sembrare prima di essere e (paradossalmente) vuole essere prima ancora di sembrare.
Sembra (ed è) un gioco delle parti, una combinazione che sfida la simulazione di una teatralità volutamente scombinata, fondata sullo scambio simbolico, quasi a volere fondare un armata di Don Chisciotte e Sancio Panza, moltiplicati a dismisura in questo nostro tempo di medialità, in cui ogni unità, ogni realtà, viene offuscata se non, addirittura, negata da una fantasmaticità che entra in ciascuno di noi, come si entra nei ricordi e nei desideri.
Così, Filippo Malice, trascende se stesso come inventore allegro e drammatico che non si lascia imbrigliare facilmente dalla rete convenzionale del suo lavoro e cerca, ogni volta, la migliore via di fuga, procedendo per attraversamenti e trasversalità che attraggono piaceri e sensualità e li orientano verso l’imprevisto, in una spettacolarità che è fecondata dal vizio assurdo della morte dell’arte.
Una morte, più volte annunciata, ma sempre vista come prospettiva di una artisticità senza un volto preciso, appunto perché li prende tutti, da quello espressionistico a quello brutale, da quello estetico a quello ludico, mettendo insieme, genealogie diverse tra di loro, destinate nell’altra vita ad non incontrarsi mai ed ora messe qui insieme da una livella che, dopo avere travolto ogni cosa nata da uomo o fatta da uomo in exitu, lascia che gli spezzoni e le scorie, si facciano una nuova famiglia, in cui il nome e la cosa sono frutto di una corrispondenza folle e indefinita, in cui può essere detto tutto di tutti e fatto tutto di tutti.
L’effetto maggiore, di tutta l’opera di Filippo Malice, è quello di un trasudamento che lascia gli umori della ruggine, della saldatura, dell’immagine raccolta a volo d’intuito, con una visibilità che è tutta concentrata nei confini dell’oggettività ritrovata, superando lo stordimento e lo stranimento che viene da ogni pieno di disordine che non si lascia prendere per il capo che è sempre altrove, rispetto a dove è previsto che si possa trovare e non resta che afferrare per la cosa; cioè fare sempre un lavoro che si affina nel processo del suo divenire, destando sorprese, fino al momento in cui, per ciascuno, si può scrivere la parola fine.
Che poi è una fine provvisoria, l’anticipo di una nuova partenza, dove la casualità e la necessità si fondono e si confondono nella fucina del fare e là trovano la loro causalità fatta di “provocazione” e di “scandalo”, anche se, ormai, nessuno più si lascia provocare o finge di scandalizzarsi e così, tutto agisce come un automatismo che travolge tutto e tutti.
Si evoca, così, il luogo della pace e della serenità, come sbocco di una emozione e di un sentimento recondito delle cose, che si manifesta nell’inquietudine del nuovo, nella sfrenatezza dell’originalità che si avvolge dell’abito della follia, così che tutti possano fingere di non capire, perché non c’è proprio niente da capire.
Mentre, in effetti, ribolle un pentolone magico di segni e di gesti che appartengono al post-moderno, come una tribù barbara appartiene alle buone maniere, scombinando riti e miti, facendo scolorire le maschere della vecchiaia, con i turchi alle porte.
08
ottobre 2005
Filippo Malice – Benvenuti in Paradiso
Dall'otto al 22 ottobre 2005
arte contemporanea
Location
EXTROART – ORATORIO DI SANTO STEFANO PROTOMARTIRE
Palermo, Piazza del Monte di Pietà, 5, (Palermo)
Palermo, Piazza del Monte di Pietà, 5, (Palermo)
Orario di apertura
tutti i giorni (escluso domenica) dalle 10-13
Vernissage
8 Ottobre 2005, ore 18.30
Autore
Curatore