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Filorosso
È la vita il fil rouge che lega Mario Gabinio, Carlo Mollino, Giorgio Avigdor ed Enzo Obiso. Li lega con un sottile ricamo in cui si intrecciano incontri, scambi, affinità e passioni. Nella trama, si legge una storia di fotografia lunga più di un secolo, che parte da Torino e si apre nel mondo.
Comunicato stampa
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È la vita il fil rouge che lega Mario Gabinio, Carlo Mollino, Giorgio Avigdor ed Enzo Obiso. Li lega con un sottile ricamo in cui si intrecciano incontri, scambi, affinità e passioni. Nella trama, si legge una storia di fotografia lunga più di un secolo, che parte da Torino e si apre nel mondo. Una storia che è un’andata e un ritorno alla città natale, accolta in una mostra che prende la forma di una conversazione.
Giorgio Avigdor tiene in mano in bandolo del fil rouge con i diversi ruoli di allievo, ammiratore, studioso, amico e maestro.
L’incipit è un giovanissimo Avigdor studente di architettura e appassionato di fotografia, allievo di Carlo Mollino (1905-1973) al Politecnico di Torino, che ebbe modo di conoscere il suo maestro nel salotto intellettuale e mondano di Ada Minola, creatrice di gioielli e musa di molti artisti. Avigdor e i suoi compagni avevano una vera ammirazione per Mollino come designer e architetto. Ricorda le serate passate insieme, durante le quali capitava che mostrasse al maestro i suoi primi esperimenti fotografici ascoltandone i consigli. Il rammarico è non averne capito subito la genialità anche come fotografo, cosa che venne riconosciuta in seguito, in un percorso di valorizzazione di cui Avigdor stesso ebbe parte attiva.
Destino condiviso anche da un’altra figura di riferimento per Avigdor, Mario Gabinio (1871-1938), grande fotografo sottovalutato fino agli anni Settanta di cui fu un appassionato studioso. Grazie all’amicizia con un nipote di Gabinio, Ugo Alessio, Avigdor potè consultarne direttamente l’archivio e venire a conoscenza di storie e aneddoti. Materiale che gli permise di realizzare la prima vera monografia dedicata all’artista, uscita per Einaudi nel 1981, che ne aiutò la riscoperta sfociata in un’antologica alla Gam di Torino nel 1996.
Il fil rouge prosegue con Enzo Obiso, che conobbe il lavoro di Mollino e Gabinio frequentando il corso di fotografia tenuto da Avigdor all’Accademia Albertina di Belle Arti a metà anni Settanta. In un passaggio di testimone tra maestri e allievi, Avigdor, Gabinio e Mollino rappresentano tre nomi fondamentali capaci di trasmettergli un’educazione all’oggetto fotografico non solo come immagine e come tecnica, spiega Obiso. L’altro elemento che riconosce come determinante nella sua formazione –oltre alla storia dell’arte come costante archetipo di ispirazione e riferimento- fu la possibilità di avere tra le mani opere originali di personaggi come Richard Avedon, Anselm Adams e André Kertész frequentando le mostre proposte da Documenta, la prima galleria torinese dedicata alla fotografia (spazio che ospiterà anche una mostra a due con Obiso, il suo debutto, e dove Avigdor stesso collaborava con il gallerista Giovanni Rimoldi).
Come fu per Avigdor e Mollino, anche per Obiso e Avigdor il legame tra allievo e maestro evolse in un rapporto di amicizia e confronto.
I lavori di questi quattro autori costituiscono un’eterogeneità di caratteri originali e indipendenti, in cui fotografia artistica e qualità tecnica si fondono. Tra loro non vanno ricercati in maniera didascalica generi e stili comuni, ma affinità ed empatie di sguardi e di atmosfere, evocative e introspettive, una bellezza sparsa nel mondo sotto forme diverse: dalla strada, con la sua quotidianità e le sue architetture, al corpo femminile come paesaggio e metafora.
Una serie di opere di Gabinio, nella varietà dei suoi formati, mostra alcuni filoni caratteristici, dagli alberi in fiore alla montagna, dalle flânerie in giro per la città alla scoperta delle architetture e degli scorci urbani, catalogando portoni e vetrine, oggetti sui banchi del mercato che diventano composizioni astratte, tavole imbandite popolari che sembrano nature morte. Un artista che sperimentava giocando con il dettaglio, la prospettiva, le deformazioni ottiche prodotte dalla luce e dal punto di vista. Avigdor, che lo aveva soprannominato l’Atget piemontese, ne riconosce l’influenza nelle sue ossessioni per la verticalità e le ricognizioni cittadine a piedi per le strade. Una naturale vocazione all’indagine sul territorio con la fotografia che si ritrova anche in Obiso, con i suoi viaggi che vanno dal mondo in una stanza a quelli in paesi lontani. Non sente, invece, legami diretti con Mollino. Eppure viene naturale almeno rifletterci, di fronte agli scatti che raccontano l’Avigdor fotografo di moda, realizzati nei primi anni Sessanta fra Torino e Roma, dove si passa dalle sfilate presso l’Unione Industriale alle vie del centro della capitale, con abiti sculture indossati da modelle come Roberta Stoppa e Ornella Benedetto e un’apparizione cameo di un giovane Valentino. C’è familiarità con le figure femminili ritratte nelle polaroid con cui Mollino declinava in ambienti domestici donne protagoniste di un immaginario erotico colto e simbolico, ironico e trasgressivo. Dee imperfette e sensuali, la cui fisicità enigmatica filtra nelle creature di Avigdor, algide icone di una bellezza perfetta che rispondeva ai nuovi canoni della donna contemporanea.
È una particolare percezione del corpo femminile che scorre fino a Obiso -in lui più libera e manifesta-, come nei volti femminili di “Ritratto di beata bellezza”, che sono un manuale di educazione alla bellezza come principio, un esercizio in atto dalla fine degli anni Ottanta. Nell’opera in mostra, la fotografia, oltre alla stampa e alla cornice, utilizza anche la retroilluminazione, strumento compensativo perché la visione rimanga la stessa sia al buio sia alla luce. Sono presenti anche foto che nascono da viaggi a Cuba e in Vietnam, frammenti di reale incontrati nel vissuto e trasfigurati in visioni pittoriche e scultoree, secondo una pratica di reportage poetico alla ricerca di “object trouvé” iconografici iniziata giovanissimo. Un vaso con fiori sotto un tavolino in Sri Lanka diventa un’allegoria del terremoto del 2004, una ricerca di protezione evocata in una relazione simbolica fra oggetti. E c’è l’inizio di una nuova ricerca, il trasferimento di immagini su oggetti improbabili: con un detournement, un maestoso paravento giapponese ottocentesco si trasforma in un prisma di schermi. Perché la fotografia è vedere e sapere cogliere gli istanti in cui visioni parallele baluginano nella realtà. Gabinio, Mollino, Avigdor ed Obiso lo hanno fatto. Ciascuno a modo suo.
Giorgio Avigdor tiene in mano in bandolo del fil rouge con i diversi ruoli di allievo, ammiratore, studioso, amico e maestro.
L’incipit è un giovanissimo Avigdor studente di architettura e appassionato di fotografia, allievo di Carlo Mollino (1905-1973) al Politecnico di Torino, che ebbe modo di conoscere il suo maestro nel salotto intellettuale e mondano di Ada Minola, creatrice di gioielli e musa di molti artisti. Avigdor e i suoi compagni avevano una vera ammirazione per Mollino come designer e architetto. Ricorda le serate passate insieme, durante le quali capitava che mostrasse al maestro i suoi primi esperimenti fotografici ascoltandone i consigli. Il rammarico è non averne capito subito la genialità anche come fotografo, cosa che venne riconosciuta in seguito, in un percorso di valorizzazione di cui Avigdor stesso ebbe parte attiva.
Destino condiviso anche da un’altra figura di riferimento per Avigdor, Mario Gabinio (1871-1938), grande fotografo sottovalutato fino agli anni Settanta di cui fu un appassionato studioso. Grazie all’amicizia con un nipote di Gabinio, Ugo Alessio, Avigdor potè consultarne direttamente l’archivio e venire a conoscenza di storie e aneddoti. Materiale che gli permise di realizzare la prima vera monografia dedicata all’artista, uscita per Einaudi nel 1981, che ne aiutò la riscoperta sfociata in un’antologica alla Gam di Torino nel 1996.
Il fil rouge prosegue con Enzo Obiso, che conobbe il lavoro di Mollino e Gabinio frequentando il corso di fotografia tenuto da Avigdor all’Accademia Albertina di Belle Arti a metà anni Settanta. In un passaggio di testimone tra maestri e allievi, Avigdor, Gabinio e Mollino rappresentano tre nomi fondamentali capaci di trasmettergli un’educazione all’oggetto fotografico non solo come immagine e come tecnica, spiega Obiso. L’altro elemento che riconosce come determinante nella sua formazione –oltre alla storia dell’arte come costante archetipo di ispirazione e riferimento- fu la possibilità di avere tra le mani opere originali di personaggi come Richard Avedon, Anselm Adams e André Kertész frequentando le mostre proposte da Documenta, la prima galleria torinese dedicata alla fotografia (spazio che ospiterà anche una mostra a due con Obiso, il suo debutto, e dove Avigdor stesso collaborava con il gallerista Giovanni Rimoldi).
Come fu per Avigdor e Mollino, anche per Obiso e Avigdor il legame tra allievo e maestro evolse in un rapporto di amicizia e confronto.
I lavori di questi quattro autori costituiscono un’eterogeneità di caratteri originali e indipendenti, in cui fotografia artistica e qualità tecnica si fondono. Tra loro non vanno ricercati in maniera didascalica generi e stili comuni, ma affinità ed empatie di sguardi e di atmosfere, evocative e introspettive, una bellezza sparsa nel mondo sotto forme diverse: dalla strada, con la sua quotidianità e le sue architetture, al corpo femminile come paesaggio e metafora.
Una serie di opere di Gabinio, nella varietà dei suoi formati, mostra alcuni filoni caratteristici, dagli alberi in fiore alla montagna, dalle flânerie in giro per la città alla scoperta delle architetture e degli scorci urbani, catalogando portoni e vetrine, oggetti sui banchi del mercato che diventano composizioni astratte, tavole imbandite popolari che sembrano nature morte. Un artista che sperimentava giocando con il dettaglio, la prospettiva, le deformazioni ottiche prodotte dalla luce e dal punto di vista. Avigdor, che lo aveva soprannominato l’Atget piemontese, ne riconosce l’influenza nelle sue ossessioni per la verticalità e le ricognizioni cittadine a piedi per le strade. Una naturale vocazione all’indagine sul territorio con la fotografia che si ritrova anche in Obiso, con i suoi viaggi che vanno dal mondo in una stanza a quelli in paesi lontani. Non sente, invece, legami diretti con Mollino. Eppure viene naturale almeno rifletterci, di fronte agli scatti che raccontano l’Avigdor fotografo di moda, realizzati nei primi anni Sessanta fra Torino e Roma, dove si passa dalle sfilate presso l’Unione Industriale alle vie del centro della capitale, con abiti sculture indossati da modelle come Roberta Stoppa e Ornella Benedetto e un’apparizione cameo di un giovane Valentino. C’è familiarità con le figure femminili ritratte nelle polaroid con cui Mollino declinava in ambienti domestici donne protagoniste di un immaginario erotico colto e simbolico, ironico e trasgressivo. Dee imperfette e sensuali, la cui fisicità enigmatica filtra nelle creature di Avigdor, algide icone di una bellezza perfetta che rispondeva ai nuovi canoni della donna contemporanea.
È una particolare percezione del corpo femminile che scorre fino a Obiso -in lui più libera e manifesta-, come nei volti femminili di “Ritratto di beata bellezza”, che sono un manuale di educazione alla bellezza come principio, un esercizio in atto dalla fine degli anni Ottanta. Nell’opera in mostra, la fotografia, oltre alla stampa e alla cornice, utilizza anche la retroilluminazione, strumento compensativo perché la visione rimanga la stessa sia al buio sia alla luce. Sono presenti anche foto che nascono da viaggi a Cuba e in Vietnam, frammenti di reale incontrati nel vissuto e trasfigurati in visioni pittoriche e scultoree, secondo una pratica di reportage poetico alla ricerca di “object trouvé” iconografici iniziata giovanissimo. Un vaso con fiori sotto un tavolino in Sri Lanka diventa un’allegoria del terremoto del 2004, una ricerca di protezione evocata in una relazione simbolica fra oggetti. E c’è l’inizio di una nuova ricerca, il trasferimento di immagini su oggetti improbabili: con un detournement, un maestoso paravento giapponese ottocentesco si trasforma in un prisma di schermi. Perché la fotografia è vedere e sapere cogliere gli istanti in cui visioni parallele baluginano nella realtà. Gabinio, Mollino, Avigdor ed Obiso lo hanno fatto. Ciascuno a modo suo.
03
maggio 2018
Filorosso
Dal 03 al 31 maggio 2018
fotografia
Location
PAOLO TONIN ARTE CONTEMPORANEA
Torino, Via San Tommaso, 6, (Torino)
Torino, Via San Tommaso, 6, (Torino)
Orario di apertura
Da lunedì a venerdì 10,30-13/14,30-19.
Sabato su appuntamento
Vernissage
3 Maggio 2018, ore 10
Autore
Curatore