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La Galleria Dep Art di Milano inaugura il nuovo spazio espositivo con una collettiva “First” con gli otto artisti che in questi tre anni di attività l’hanno rappresentata maggiormente
Comunicato stampa
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La Galleria Dep Art di Milano inaugura il nuovo spazio espositivo con una collettiva “First” con gli otto artisti che in questi tre anni di attività l’hanno rappresentata maggiormente.
La mostra sarà accompagnata da un catalogo contenente una presentazione di Piero Boccuzzi.
Siamo chiari: a che serve un’altra galleria nel mondo già affollato dell’arte? A che serve ripetere un’altra volta tutti i buoni propositi che accompagnano questo tipo di iniziativa? Una galleria d’arte può diventare però un luogo di confronto, magari un luogo di riunione tra più generazioni, tra modi differenti di osservare la realtà o più semplicemente un luogo di incontro come un bar, una sala cinematografica o un ristorante. Ogni forma di arte induce alla discussione, riesce a far appassionare chiunque, anche quelli più schivi al confronto. Riflette il tempo in cui è pensata ideata e prodotta; non ha utenza preordinata e si rivolge democraticamente a tutti; non sopporta distinzioni sociali ne tanto meno controlli mirati. Secondo Sartre la vita di un individuo è definita dalla sua interazione con gli altri che viene in primo luogo stabilita con le parole e di sovente gli strumenti per il confronto partono da una discussione, da una semplice domanda (guarda caso una successione combinata di parole): ti piace? Che ne pensi? È stato di tuo gradimento? Potremmo vedere le opere degli artisti che magari saranno i protagonisti della storia dell’arte di domani esposte vicino ai dipinti dei maestri del novecento. L’arte è bella perché varia e perché genera confronto, quindi dialogo. Una galleria vive se nel suo spazio nascono, mutano, si trasformano e insorgono gli umori di una generazione, di più generazioni. Uno spazio che si libera dalla sua seriosa e austera parvenza pseudo-museale per diventare fruibile; utile ai giovani come agli adulti, utile a chi ha necessità di raffrontarsi, utile – perché no – a chi ha bisogno semplicemente di colorare la propria vita e a chi vuole coprire un muro bianco con un’idea che aiuti a stare bene. Un nuovo spazio, uno spazio da vivere e da scoprire, da frequentare senza remore e preconcetti. Oggi l’arte, quella vera, ha il bisogno di essere sostenuta, ha la necessità di essere protetta e viziata. Per questo ha bisogno di più forze che siano pronte a sostenerla! E tra queste quella di un gruppo di persone che percorrono insieme un pezzettino di strada, magari incontrandosi in un luogo comune, magari in una galleria d’arte qui in via Giuriati, 9 a Milano.
“Dove va l’umanità” – “Boh” (Mao Tze-Tung). E in quali luoghi l’arte italiana si organizza, dove ha intenzione di dirigersi? Quali sono gli spazi in cui è costretta? Quali sono gli strumenti a sua disposizione? …di seguito: È lecito esaltare la preziosità di un virtuosismo a discapito di un’idea? E se è vero che l’arte premia l’idea è altrettanto vero che l’idea ha la necessità del virtuosismo o più semplicemente della mano concreta e laboriosa dell’artigiano per essere espressa. Sono tutti giri mentali che caratterizzano questo inizio secolo e come tutti gli inizi non è chiaro né dove vuole condurci né quali sono i presupposti su cui vuole farci riflettere, forse perché non sono ancora evidenti gli strumenti con cui va interpretata. Oggi non si è più disposti ad essere pazienti, non abbiamo più tempo di aspettare codici e chiavi per compiere tale analisi. Gli artisti non sanno come si evolverà la loro arte, hanno solo la necessità di descrivere, di trovare una propria identità. Come nelle opere di Anna Borghi in cui si avverte una instancabile ricerca della figura umana. La esplorazione le periferie italiane, tra fabbriche, capannoni dismessi e ciminiere abbandonate, tra magazzini fatiscenti e industrie fantasma, la conduce verso la scoperta di una umanità non ancora identificata ma di cui si avverte la presenza spesso nascosta in un rosa pallido o in un azzurro accennato tra le strutture cementate in lontananza. Tra tempere all’uovo, impasti materici, sovrapposizioni e graffi l’artista esibisce un tratto robusto e maturo; il suo segno ricorda vagamente quello di Mario Sironi, quelle delle sue periferie a cavallo tra gli anni trenta e quaranta da cui evince la durezza dei contrasti, dei chiaroscuri. Più incline alla forza delle idee ed alla sua ricerca ossessiva, sembra essere la pittura di Dario Agrimi che si sviluppa facendo uso delle più svariate tecniche e dei più disparati materiali per raggiungere il risultato preposto: smalti, fotografia, collage, stampe, pvc, forex, telai serigrafici. Figlio di quello che è rimasto della cultura pop; nipotino di quei geni che hanno reso l’arte italiana diversa ed irripetibile negli anni sessanta a Roma, produce immagini aderenti alla realtà giovanile. Lui come Maurizio Cattelan, come Superman o come un qualsiasi cieco in balia delle onde della trasmissione sensoriale, come un maniaco perverso preoccupato solo di dare spazio al suo voyeurismo anche quando l’oggetto non è degno di attenzione. Più rassicurante invece risulta essere la pittura di Hugo Bustamante risponde ai canoni naif di una parte del mondo di cui oramai si stanno perdendo le tracce. Quello rinchiuso sulle soffitte di qualche casolare di campagna in cui si conservano i vestiti della festa e nelle scatole delle calzature le fotografie di un’epoca oramai passata della cultura contadina. L’osservazione sul passato si concentra sul ritrovamento di una serie di reperti utilizzati dall’uomo per il proprio sostentamento e per il lavoro. Hugo Bustamante si concentra sulla loro riscoperta, sul loro ritrovamento, su ciò che è passato e tende ad essere abbandonato a se stesso come i cocci delle civiltà preesistenti. Invece Paolo Maggis indirizza la sua ricerca su di un terreno alquanto difficile: sceglie di confrontarsi con il ritratto. La sua pittura sofferta, dai tratti duri, quasi realistici determina un’avvicinarsi al mondo interiore forzando un analisi che, sulla tela, viene descritta da quegli impasti da cui emergono i volti dei protagonisti.
Suggestive risultano essere anche le proposte degli artisti affermati tra cui troviamo Piero Pizzi Cannella, Franco Rognoni, Salvo e Natale Addamiano. Nel primo, Piero Pizzi Cannella (esponente autorevole della Scuola di San Lorenzo insieme a Marco Tirelli e Bruno Ceccobelli), si assiste ad una reinvenzione costante di tutto ciò che in arte, fin dal periodo romantico, costituisce parte integrante della rappresentazione: tutti gli umori che pur essendo presenti nelle composizione non erano definiti e palpabili come l’umidità, il fumo, la nebbia, il vapore, la bufera, la tempesta. Basti pensare alla pittura sensoriale del ciclo delle mattonelle denominato “Bagno Turco”, a quello dei “Coralli”, delle “Anfore”: gli oggetti escono poeticamente da tutto quel vortice, da quel colore a cui l’artista stesso attribuisce una valenza storica. Anche la pittura di Franco Rognoni si muove nella penombra, a proprio agio, tra i fumi di una civiltà che vive la propria umanità in camere d’albergo illuminate da poca luce. Le figure signorili colte quasi di sorpresa, ben assortite, rappresentano un mondo oramai ridotto ai minimi termini, quello romantico di un epoca che più non esiste. Addirittura la nuova cifra stilistica di Salvo (noto esponente di quella stagione interessante che nacque a Torino negli anni settanta) esalta gli aspetti meno evidenti di una civiltà che tende a sottovalutare dimenticando la cultura che produce. Salvo immobilizza il tempo sotto i riflettori di una luce al neon che altera le tinte e che di notte cattura una situazione di imbarazzante immobilità. Rarissime sono le figure e spesso quella desolazione scintillante fa il verso ai caseggiati che Ottone Rosai dipingeva non molti anni fa. Come i ruderi delle civiltà classiche (spesso soggetti ad attenzioni particolari) anche le imprese architettoniche ultime sono il segno, la presenza del passaggio di una differente umanità, di una umanità che non ha intenzione di lasciare nulla ai posteri; le luci al neon ricoprono e proteggono tutti gli oggetti rappresentati creando una patina caramellata già sinonimo di storicizzabilità perché differenti dalla realtà vissuta. Ultimo, ma solo in senso di apparizione, è Natale Addamiano, già professore all’Accademia di Brera da parecchi anni, con le sue notti murgiane, con i suoi caldi riferimenti al paesaggio pugliese e del sud Italia. I suoi colori notturni, simboli di una ritrovata serenità, dipingono la semplice espressione di una profonda convinzione nella bontà umana, quasi in conflitto con tutto ciò che rappresenta la vitalità meccanicizzata della società attuale. La storia per svilupparsi ha bisogno di radici valide e solide, queste sono quelle che fanno capo ad una civiltà che non ha mai perduto i valori della terra e della zona di appartenenza: Addamiano le identifica sintetizzando al massimo il rapporto che c’è tra terra e cielo, tra reale ed irreale, tra fantasia e realtà, tra sogno e desiderio.
La mostra sarà accompagnata da un catalogo contenente una presentazione di Piero Boccuzzi.
Siamo chiari: a che serve un’altra galleria nel mondo già affollato dell’arte? A che serve ripetere un’altra volta tutti i buoni propositi che accompagnano questo tipo di iniziativa? Una galleria d’arte può diventare però un luogo di confronto, magari un luogo di riunione tra più generazioni, tra modi differenti di osservare la realtà o più semplicemente un luogo di incontro come un bar, una sala cinematografica o un ristorante. Ogni forma di arte induce alla discussione, riesce a far appassionare chiunque, anche quelli più schivi al confronto. Riflette il tempo in cui è pensata ideata e prodotta; non ha utenza preordinata e si rivolge democraticamente a tutti; non sopporta distinzioni sociali ne tanto meno controlli mirati. Secondo Sartre la vita di un individuo è definita dalla sua interazione con gli altri che viene in primo luogo stabilita con le parole e di sovente gli strumenti per il confronto partono da una discussione, da una semplice domanda (guarda caso una successione combinata di parole): ti piace? Che ne pensi? È stato di tuo gradimento? Potremmo vedere le opere degli artisti che magari saranno i protagonisti della storia dell’arte di domani esposte vicino ai dipinti dei maestri del novecento. L’arte è bella perché varia e perché genera confronto, quindi dialogo. Una galleria vive se nel suo spazio nascono, mutano, si trasformano e insorgono gli umori di una generazione, di più generazioni. Uno spazio che si libera dalla sua seriosa e austera parvenza pseudo-museale per diventare fruibile; utile ai giovani come agli adulti, utile a chi ha necessità di raffrontarsi, utile – perché no – a chi ha bisogno semplicemente di colorare la propria vita e a chi vuole coprire un muro bianco con un’idea che aiuti a stare bene. Un nuovo spazio, uno spazio da vivere e da scoprire, da frequentare senza remore e preconcetti. Oggi l’arte, quella vera, ha il bisogno di essere sostenuta, ha la necessità di essere protetta e viziata. Per questo ha bisogno di più forze che siano pronte a sostenerla! E tra queste quella di un gruppo di persone che percorrono insieme un pezzettino di strada, magari incontrandosi in un luogo comune, magari in una galleria d’arte qui in via Giuriati, 9 a Milano.
“Dove va l’umanità” – “Boh” (Mao Tze-Tung). E in quali luoghi l’arte italiana si organizza, dove ha intenzione di dirigersi? Quali sono gli spazi in cui è costretta? Quali sono gli strumenti a sua disposizione? …di seguito: È lecito esaltare la preziosità di un virtuosismo a discapito di un’idea? E se è vero che l’arte premia l’idea è altrettanto vero che l’idea ha la necessità del virtuosismo o più semplicemente della mano concreta e laboriosa dell’artigiano per essere espressa. Sono tutti giri mentali che caratterizzano questo inizio secolo e come tutti gli inizi non è chiaro né dove vuole condurci né quali sono i presupposti su cui vuole farci riflettere, forse perché non sono ancora evidenti gli strumenti con cui va interpretata. Oggi non si è più disposti ad essere pazienti, non abbiamo più tempo di aspettare codici e chiavi per compiere tale analisi. Gli artisti non sanno come si evolverà la loro arte, hanno solo la necessità di descrivere, di trovare una propria identità. Come nelle opere di Anna Borghi in cui si avverte una instancabile ricerca della figura umana. La esplorazione le periferie italiane, tra fabbriche, capannoni dismessi e ciminiere abbandonate, tra magazzini fatiscenti e industrie fantasma, la conduce verso la scoperta di una umanità non ancora identificata ma di cui si avverte la presenza spesso nascosta in un rosa pallido o in un azzurro accennato tra le strutture cementate in lontananza. Tra tempere all’uovo, impasti materici, sovrapposizioni e graffi l’artista esibisce un tratto robusto e maturo; il suo segno ricorda vagamente quello di Mario Sironi, quelle delle sue periferie a cavallo tra gli anni trenta e quaranta da cui evince la durezza dei contrasti, dei chiaroscuri. Più incline alla forza delle idee ed alla sua ricerca ossessiva, sembra essere la pittura di Dario Agrimi che si sviluppa facendo uso delle più svariate tecniche e dei più disparati materiali per raggiungere il risultato preposto: smalti, fotografia, collage, stampe, pvc, forex, telai serigrafici. Figlio di quello che è rimasto della cultura pop; nipotino di quei geni che hanno reso l’arte italiana diversa ed irripetibile negli anni sessanta a Roma, produce immagini aderenti alla realtà giovanile. Lui come Maurizio Cattelan, come Superman o come un qualsiasi cieco in balia delle onde della trasmissione sensoriale, come un maniaco perverso preoccupato solo di dare spazio al suo voyeurismo anche quando l’oggetto non è degno di attenzione. Più rassicurante invece risulta essere la pittura di Hugo Bustamante risponde ai canoni naif di una parte del mondo di cui oramai si stanno perdendo le tracce. Quello rinchiuso sulle soffitte di qualche casolare di campagna in cui si conservano i vestiti della festa e nelle scatole delle calzature le fotografie di un’epoca oramai passata della cultura contadina. L’osservazione sul passato si concentra sul ritrovamento di una serie di reperti utilizzati dall’uomo per il proprio sostentamento e per il lavoro. Hugo Bustamante si concentra sulla loro riscoperta, sul loro ritrovamento, su ciò che è passato e tende ad essere abbandonato a se stesso come i cocci delle civiltà preesistenti. Invece Paolo Maggis indirizza la sua ricerca su di un terreno alquanto difficile: sceglie di confrontarsi con il ritratto. La sua pittura sofferta, dai tratti duri, quasi realistici determina un’avvicinarsi al mondo interiore forzando un analisi che, sulla tela, viene descritta da quegli impasti da cui emergono i volti dei protagonisti.
Suggestive risultano essere anche le proposte degli artisti affermati tra cui troviamo Piero Pizzi Cannella, Franco Rognoni, Salvo e Natale Addamiano. Nel primo, Piero Pizzi Cannella (esponente autorevole della Scuola di San Lorenzo insieme a Marco Tirelli e Bruno Ceccobelli), si assiste ad una reinvenzione costante di tutto ciò che in arte, fin dal periodo romantico, costituisce parte integrante della rappresentazione: tutti gli umori che pur essendo presenti nelle composizione non erano definiti e palpabili come l’umidità, il fumo, la nebbia, il vapore, la bufera, la tempesta. Basti pensare alla pittura sensoriale del ciclo delle mattonelle denominato “Bagno Turco”, a quello dei “Coralli”, delle “Anfore”: gli oggetti escono poeticamente da tutto quel vortice, da quel colore a cui l’artista stesso attribuisce una valenza storica. Anche la pittura di Franco Rognoni si muove nella penombra, a proprio agio, tra i fumi di una civiltà che vive la propria umanità in camere d’albergo illuminate da poca luce. Le figure signorili colte quasi di sorpresa, ben assortite, rappresentano un mondo oramai ridotto ai minimi termini, quello romantico di un epoca che più non esiste. Addirittura la nuova cifra stilistica di Salvo (noto esponente di quella stagione interessante che nacque a Torino negli anni settanta) esalta gli aspetti meno evidenti di una civiltà che tende a sottovalutare dimenticando la cultura che produce. Salvo immobilizza il tempo sotto i riflettori di una luce al neon che altera le tinte e che di notte cattura una situazione di imbarazzante immobilità. Rarissime sono le figure e spesso quella desolazione scintillante fa il verso ai caseggiati che Ottone Rosai dipingeva non molti anni fa. Come i ruderi delle civiltà classiche (spesso soggetti ad attenzioni particolari) anche le imprese architettoniche ultime sono il segno, la presenza del passaggio di una differente umanità, di una umanità che non ha intenzione di lasciare nulla ai posteri; le luci al neon ricoprono e proteggono tutti gli oggetti rappresentati creando una patina caramellata già sinonimo di storicizzabilità perché differenti dalla realtà vissuta. Ultimo, ma solo in senso di apparizione, è Natale Addamiano, già professore all’Accademia di Brera da parecchi anni, con le sue notti murgiane, con i suoi caldi riferimenti al paesaggio pugliese e del sud Italia. I suoi colori notturni, simboli di una ritrovata serenità, dipingono la semplice espressione di una profonda convinzione nella bontà umana, quasi in conflitto con tutto ciò che rappresenta la vitalità meccanicizzata della società attuale. La storia per svilupparsi ha bisogno di radici valide e solide, queste sono quelle che fanno capo ad una civiltà che non ha mai perduto i valori della terra e della zona di appartenenza: Addamiano le identifica sintetizzando al massimo il rapporto che c’è tra terra e cielo, tra reale ed irreale, tra fantasia e realtà, tra sogno e desiderio.
07
aprile 2006
First
Dal 07 aprile al 06 giugno 2006
arte contemporanea
Location
DEP ART GALLERY
Milano, Via Comelico, 40, (Milano)
Milano, Via Comelico, 40, (Milano)
Orario di apertura
da lunedì a sabato 10-13 16-19
Festivi su appuntamento
Vernissage
7 Aprile 2006, ore 18
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