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Fotografia Israeliana Contemporanea
Lo sguardo dei fotografi israeliani è caratterizzato da una vivace attitudine alla rielaborazione delle tendenza espressive ed estetiche della fotografia internazionale, di passaggio tra la conclusione del XX secolo e i primi anni del terzo millennio
Comunicato stampa
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Lo sguardo dei fotografi israeliani contemporanei è caratterizzato da una vivace attitudine alla rielaborazione delle tendenza espressive ed estetiche della fotografia internazionale, nel periodo di passaggio tra la conclusione del XX secolo e i primi anni del terzo millennio. Allo stesso tempo, se si analizza in profondità il lavoro dei singoli autori si percepisce la loro capacità di approfondimento concettuale, capacità generatrice di percorsi rigorosamente autonomi.
Nel settore fotografico si spazia dall’attenzione nei confronti del territorio del paese, con particolare riferimento alla rappresentazione del paesaggio, al tema del ritratto, dal reportage sociale alle elaborazioni estetiche più moderne, fino ad una fotografia metaforica e concettuale.
La mostra, curata da Diego Mormorio e Orith Youdovich, presenta undici autori israeliani (Micha Bar-Am, Simcha Shirman, Adi Nes, Gilad Ophir, Elinor Carucci, Michal Chelbin, Roi Kuper, Ori Gersht, Yossi Breger, Ohad Matalon, Leora Laor), attivi sia nel paese che all’estero. I curatori hanno scelto opere di fotografi diversi tra loro con l’intenzione di evidenziare la complessità del movimento artistico del paese e di avvicinare il fruitore ad un universo creativo variegato e ricco di sfumature.
La mostra “Fotografia Israeliana Contemporanea”, allestita nell’ambito di FotoGrafia - Festival Internazionale di Roma, sarà aperta al pubblico da giovedì 5 maggio a domenica 19 giugno 2005 presso il Museo Andersen – Soprintendenza Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Una mostra sulla fotografia israeliana non poteva dimenticare l’apporto del decano dei fotografi di Israele: Micha Bar-Am.
Autore di importanti reportage, testimone della storia del Paese e di eventi bellici, costruttore di scatti dal carattere realistico, ma anche dall’impostazione formale ineccepibile, membro della Magnum, Bar-Am è artefice di una fotografia che trova nell’uso del bianco e nero un elemento cardine di linguaggio visivo e nella sua abilità nel calarsi nella realtà lo strumento ideale per diventare un vero e proprio narratore. Il suo universo creativo deve essere collocato in un contesto molto ampio, comunque non generatore di influenze specifiche né collegabile direttamente agli indirizzi attuali, decisamente concettuali, della fotografia israeliana. La sua presenza nella mostra presso il Museo Andersen di Roma è comunque fondamentale per stabilire una sorta di punto di partenza culturale, punto di partenza ormai metabolizzato dai fotografi di Israele, i quali agiscono in settori spesso lontani dal reportage.
In tal senso, capostipite e maestro di una nuova generazione di autori più portati verso una dimensione metaforica dell’uso dell’immagine è Simcha Shirman.
Shirman usa sia il bianco e nero che il colore. La sua cifra poetica è sospesa e profondamente psicologica. Centro della sua creatività è la sua stessa immagine, il suo corpo spesso usato come elemento narrativo ed utilizzato per evidenziare la collocazione dell’individuo nella realtà, l’indefinibile concetto di tempo, il rapporto tra le azioni umane e il paesaggio, la raffigurazione della sua stessa sfera interiore attraverso la rappresentazione della famiglia e della propria intimità. Le immagini di Shirman sono filosoficamente pure, semplici, dirette. L’autore lavora per sottrazione, toglie di scena piuttosto che mettere in scena, privilegia la nudità come espressione di una verità profonda, involucro delle angosce e delle paure degli esseri umani. In mostra, Shirman è presente con immagini di paesaggio nel quale coglie componenti disturbanti che contribuiscono alla mutazione del senso di un’immagine.
La figura umana è anche al centro dell’universo espressivo di Elinor Carucci, Michal Chelbin, Adi Nes.
La prima imposta le sue opere attraverso un’operazione di selezione molto netta, immortalando sezioni di corpi e dettagli: occhi, labbra, pieghe della pelle, schiene. Attraverso questo raffinato gioco di scomposizione, la fotografa analizza sentimenti, impulsi amorosi, tensioni erotiche, evitando di cadere in raffigurazioni glamour e puntando invece l’attenzione sulla morbidezza delle linee e sulla morbida normalità dei corpi.
Michal Chelbin cala il proprio sguardo in un mondo fantastico e infantile, ondeggiando tra il realismo magico e la descrizione immaginifica di una società parallela, nella quale la vita di freaks, simili ai personaggi cari a Tod Browning, si manifesta in una normalità compassata ed elegante. La psicologica dell’infanzia è raffigurata da Chelbin con tono fantastico e spirito favolistico, non senza inquietudini contenutistiche che si stemperano però in un solido impianto estetico.
Adi Nes procede attraverso una potente stilizzazione estetizzante. I suoi lavori sono popolati da militari e giovani muscolosi che negano di fatto lo stereotipo del soldato macho e duro ed evidenziano una nascosta e morbida delicatezza dei gesti e degli atteggiamenti. Tra corpi mollemente adagiati su materassi, volto dormienti, sguardi dal respiro classicheggiante, Adi Nes ricompone un mondo irreale nel quale la violenza sembra essere stata esorcizzata dalla rivoluzionaria carica eversiva della bellezza.
Leora Laor, fotografa di formazione cinematografica, situa la propria cifra espressiva in un territorio di tipo oggettivo nel quale la figura umana è isolata in situazioni quotidiane leggere e gioiose. L’infanzia sembra essere la sua principale fonte di ispirazione. Quando gli esseri umani entrano in relazione con un paesaggio non urbano ecco però che le immagini di Leora Laor si fanno più rarefatte, misteriose quasi oniriche anche grazie all’uso non convenzionale della luce del colore.
Il paesaggio non urbano è anche fattore di ispirazione per autori come Ori Gersht e Ohad Matalon. Mentre il primo utilizza simboli mediorientali come gli ulivi e li trasfigura in processo di manipolazione che sfuma misteriosamente i contorni degli oggetti, il secondo colloca il proprio obiettivo nello spazio cercando di esasperare compositivamente il visibile, cogliendo frammenti di vita nonché riflessioni esistenziali collocate nella dimensione sia della natura che della città. Da notare in relazione a Gersht anche la sua produzione di fotografia architettonica incentrata soprattutto su una ricerca oscillante tra il modernismo più tecnologico e la decadenza di una architettura di concezione popolare.
Gli sguardi di Yossi Breger e Gilad Ophir sembrano concentrati nel compimento di un’operazione razionale e indagatrice riguardo l’ambito cittadino e i luoghi che il capitalismo consumista ha strappato agli equilibri della natura. Breger inquadra palazzi anonimi di città israeliane, si sofferma di incroci stradali, angoli dove un’urbanizzazione scomposta si coniuga perversamente con luoghi vuoti occupati da autovetture e improvvise aperture verdi. L’elemento umano sembra assente, un vuoto inquietante riempie le immagini lasciando al fruitore una sensazione di sottile e inesorabile angoscia. Ophir posa i suoi occhi sui segni del passaggio dell’uomo in territori ancora apparentemente vergini. Case in costruzione in zone desertiche mostrano l’azione invasiva degli uomini mentre la fantasmagorica rappresentazione di centri commerciali dimostra la devastante opera della società che ricostruisce un panorama artificiale e cromaticamente molesto, sostituendosi di fatto all’azione armoniosa della natura.
Con le opere di Roi Kuper si ritorna invece ad una concezione pittorico-filosofica dello spazio e del territorio. Le sue serie visuali ci restituiscono una natura, a tratti lunare, nella quale non è percepibile l’azione dirompente dell’uomo. Terreni aridi e piatti, una campagna non curata, un tratto di spiaggia, dei cespugli. Queste opere sembrano nascere dalla ricerca di una armonia quasi perduta, armonia che nonostante la mostruosa distruzione messa in atto dall’uomo ancora, in qualche caso, resiste. Basta guardare questo equilibrio, il gioco delle linee e gli accostamenti dei colori per scoprire un realtà nobilmente estranea alle nevrosi socio-culturali del genere umano.
Il volume “Fotografia Israeliana Contemporanea”, pubblicato a tiratura limitata da Edizioni FPM accompagnerà la mostra.
Nel settore fotografico si spazia dall’attenzione nei confronti del territorio del paese, con particolare riferimento alla rappresentazione del paesaggio, al tema del ritratto, dal reportage sociale alle elaborazioni estetiche più moderne, fino ad una fotografia metaforica e concettuale.
La mostra, curata da Diego Mormorio e Orith Youdovich, presenta undici autori israeliani (Micha Bar-Am, Simcha Shirman, Adi Nes, Gilad Ophir, Elinor Carucci, Michal Chelbin, Roi Kuper, Ori Gersht, Yossi Breger, Ohad Matalon, Leora Laor), attivi sia nel paese che all’estero. I curatori hanno scelto opere di fotografi diversi tra loro con l’intenzione di evidenziare la complessità del movimento artistico del paese e di avvicinare il fruitore ad un universo creativo variegato e ricco di sfumature.
La mostra “Fotografia Israeliana Contemporanea”, allestita nell’ambito di FotoGrafia - Festival Internazionale di Roma, sarà aperta al pubblico da giovedì 5 maggio a domenica 19 giugno 2005 presso il Museo Andersen – Soprintendenza Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Una mostra sulla fotografia israeliana non poteva dimenticare l’apporto del decano dei fotografi di Israele: Micha Bar-Am.
Autore di importanti reportage, testimone della storia del Paese e di eventi bellici, costruttore di scatti dal carattere realistico, ma anche dall’impostazione formale ineccepibile, membro della Magnum, Bar-Am è artefice di una fotografia che trova nell’uso del bianco e nero un elemento cardine di linguaggio visivo e nella sua abilità nel calarsi nella realtà lo strumento ideale per diventare un vero e proprio narratore. Il suo universo creativo deve essere collocato in un contesto molto ampio, comunque non generatore di influenze specifiche né collegabile direttamente agli indirizzi attuali, decisamente concettuali, della fotografia israeliana. La sua presenza nella mostra presso il Museo Andersen di Roma è comunque fondamentale per stabilire una sorta di punto di partenza culturale, punto di partenza ormai metabolizzato dai fotografi di Israele, i quali agiscono in settori spesso lontani dal reportage.
In tal senso, capostipite e maestro di una nuova generazione di autori più portati verso una dimensione metaforica dell’uso dell’immagine è Simcha Shirman.
Shirman usa sia il bianco e nero che il colore. La sua cifra poetica è sospesa e profondamente psicologica. Centro della sua creatività è la sua stessa immagine, il suo corpo spesso usato come elemento narrativo ed utilizzato per evidenziare la collocazione dell’individuo nella realtà, l’indefinibile concetto di tempo, il rapporto tra le azioni umane e il paesaggio, la raffigurazione della sua stessa sfera interiore attraverso la rappresentazione della famiglia e della propria intimità. Le immagini di Shirman sono filosoficamente pure, semplici, dirette. L’autore lavora per sottrazione, toglie di scena piuttosto che mettere in scena, privilegia la nudità come espressione di una verità profonda, involucro delle angosce e delle paure degli esseri umani. In mostra, Shirman è presente con immagini di paesaggio nel quale coglie componenti disturbanti che contribuiscono alla mutazione del senso di un’immagine.
La figura umana è anche al centro dell’universo espressivo di Elinor Carucci, Michal Chelbin, Adi Nes.
La prima imposta le sue opere attraverso un’operazione di selezione molto netta, immortalando sezioni di corpi e dettagli: occhi, labbra, pieghe della pelle, schiene. Attraverso questo raffinato gioco di scomposizione, la fotografa analizza sentimenti, impulsi amorosi, tensioni erotiche, evitando di cadere in raffigurazioni glamour e puntando invece l’attenzione sulla morbidezza delle linee e sulla morbida normalità dei corpi.
Michal Chelbin cala il proprio sguardo in un mondo fantastico e infantile, ondeggiando tra il realismo magico e la descrizione immaginifica di una società parallela, nella quale la vita di freaks, simili ai personaggi cari a Tod Browning, si manifesta in una normalità compassata ed elegante. La psicologica dell’infanzia è raffigurata da Chelbin con tono fantastico e spirito favolistico, non senza inquietudini contenutistiche che si stemperano però in un solido impianto estetico.
Adi Nes procede attraverso una potente stilizzazione estetizzante. I suoi lavori sono popolati da militari e giovani muscolosi che negano di fatto lo stereotipo del soldato macho e duro ed evidenziano una nascosta e morbida delicatezza dei gesti e degli atteggiamenti. Tra corpi mollemente adagiati su materassi, volto dormienti, sguardi dal respiro classicheggiante, Adi Nes ricompone un mondo irreale nel quale la violenza sembra essere stata esorcizzata dalla rivoluzionaria carica eversiva della bellezza.
Leora Laor, fotografa di formazione cinematografica, situa la propria cifra espressiva in un territorio di tipo oggettivo nel quale la figura umana è isolata in situazioni quotidiane leggere e gioiose. L’infanzia sembra essere la sua principale fonte di ispirazione. Quando gli esseri umani entrano in relazione con un paesaggio non urbano ecco però che le immagini di Leora Laor si fanno più rarefatte, misteriose quasi oniriche anche grazie all’uso non convenzionale della luce del colore.
Il paesaggio non urbano è anche fattore di ispirazione per autori come Ori Gersht e Ohad Matalon. Mentre il primo utilizza simboli mediorientali come gli ulivi e li trasfigura in processo di manipolazione che sfuma misteriosamente i contorni degli oggetti, il secondo colloca il proprio obiettivo nello spazio cercando di esasperare compositivamente il visibile, cogliendo frammenti di vita nonché riflessioni esistenziali collocate nella dimensione sia della natura che della città. Da notare in relazione a Gersht anche la sua produzione di fotografia architettonica incentrata soprattutto su una ricerca oscillante tra il modernismo più tecnologico e la decadenza di una architettura di concezione popolare.
Gli sguardi di Yossi Breger e Gilad Ophir sembrano concentrati nel compimento di un’operazione razionale e indagatrice riguardo l’ambito cittadino e i luoghi che il capitalismo consumista ha strappato agli equilibri della natura. Breger inquadra palazzi anonimi di città israeliane, si sofferma di incroci stradali, angoli dove un’urbanizzazione scomposta si coniuga perversamente con luoghi vuoti occupati da autovetture e improvvise aperture verdi. L’elemento umano sembra assente, un vuoto inquietante riempie le immagini lasciando al fruitore una sensazione di sottile e inesorabile angoscia. Ophir posa i suoi occhi sui segni del passaggio dell’uomo in territori ancora apparentemente vergini. Case in costruzione in zone desertiche mostrano l’azione invasiva degli uomini mentre la fantasmagorica rappresentazione di centri commerciali dimostra la devastante opera della società che ricostruisce un panorama artificiale e cromaticamente molesto, sostituendosi di fatto all’azione armoniosa della natura.
Con le opere di Roi Kuper si ritorna invece ad una concezione pittorico-filosofica dello spazio e del territorio. Le sue serie visuali ci restituiscono una natura, a tratti lunare, nella quale non è percepibile l’azione dirompente dell’uomo. Terreni aridi e piatti, una campagna non curata, un tratto di spiaggia, dei cespugli. Queste opere sembrano nascere dalla ricerca di una armonia quasi perduta, armonia che nonostante la mostruosa distruzione messa in atto dall’uomo ancora, in qualche caso, resiste. Basta guardare questo equilibrio, il gioco delle linee e gli accostamenti dei colori per scoprire un realtà nobilmente estranea alle nevrosi socio-culturali del genere umano.
Il volume “Fotografia Israeliana Contemporanea”, pubblicato a tiratura limitata da Edizioni FPM accompagnerà la mostra.
04
maggio 2005
Fotografia Israeliana Contemporanea
Dal 04 maggio al 19 giugno 2005
fotografia
Location
MUSEO HENDRIK CHRISTIAN ANDERSEN
Roma, Via Pasquale Stanislao Mancini, 20, (Roma)
Roma, Via Pasquale Stanislao Mancini, 20, (Roma)
Orario di apertura
martedì-domenica 9-19
Vernissage
4 Maggio 2005, ore 18,30
Autore
Curatore