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Franca Formenti – Foodpower
Il primo istinto di qualsiasi essere vivente è di nutrirsi e da questo bisogno primordiale ed irrinunciabile nasce il potere del cibo. Questo è il concetto che la performance FOODPOWER tenterà di mettere in rilievo nello spazio della duetart gallery.
Comunicato stampa
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HACK THE ROOT! ALLA RADICE DEL FOODPOWER
Tatiana Bazzichelli
Food Power. Chi detiene oggi il potere di distribuzione delle risorse alimentari? Chi controlla la proprietà intellettuale e materiale delle nuove tecniche di coltivazione? Cosa sta alla radice del processo di introduzione degli organismi geneticamente modificati (OGM) nel settore agroalimentare?
Per utilizzare una terminologia cara a Gilles Deleuze e Félix Guattari (1976), che in questo caso si adatta perfettamente a livello metaforico alla performance Foodpower ideata da Franca Formenti, siamo di fronte a un bivio fra una concezione rizomatica (da rizo-, radice), e una concezione arborescente della produzione e dell'economia. Letteralmente, la caratteristica propria del rizoma è quella di sviluppare autonomamente nuove piante, anche in condizioni sfavorevoli. Metaforicamente, il pensiero rizomatico è in grado di stabilire connessioni produttive in qualsiasi direzione: in questo modello tutti contano allo stesso modo e nessuno può sentirsi autorizzato a prevaricare sugli altri. Esistono svariati nodi di comunicazione, che non possono essere controllati o gestiti da un unico apparato, anche perché limitandone uno, non viene determinato automaticamente il blocco delle attività degli altri, che risultano di pari importanza nella struttura comunicativa a rete. Invece, il modello arborescente procede gerarchicamente e linearmente, seguendo categorie binarie rigide e dualistiche. La dialettica fra pensiero arborescente e rizomatico si può applicare al dibattito fra copyright e copyleft, tra flusso di informazioni chiuse ed aperte, tra free software e brevetti di prodotti d'ingegno protetti da copyright. Nella concezione del free software, cara a chi si riconosce nell'attitudine e etica hacker, è insita una visione politica dell'uso della tecnologia come veicolo di libertà, attraverso la possibilità di scambiare, manipolare, modificare e distribuire un prodotto/idea senza restrizioni. Un rizoma tecnologico che si apre a una collettività di individui che fa dello scambio e della collaborazione a rete la logica principale. Al contrario, i software protetti da copyright non permettono l'accesso al codice sorgente per modificarlo e ridistribuirlo liberamente, rimanendo così nelle mani dei pochi che ne detengono il monopolio. Questa dinamica si adatta perfettamente al dibatitto insito nella produzione di coltivazioni OGM e alla problematica degli equilibri di potere fra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Da una parte, come i sostenitori della ricerca sugli OGM affermano, tale produzione ha il beneficio di supplire alla carenza di cibo per i paesi meno ricchi, permettendo di gestire il processo di coltivazione in maniera più controllata; dall'altra, rischia di generare una pesante influenza sulle economie agricole deboli o in crisi, con il risultato di colonizzare la produzione alimentare, indebolire l'economia agricola locale e generare potenziali rischi per l'ambiente nelle aree rurali soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Come i software brevettati, le piante OGM non sono riproducibili liberamente, e vincolano i produttori al riacquisto delle sementi di anno in anno. Le grosse compagnie che producono i "codici sorgenti" dei prodotti agricoli, come Roundup Ready e Monsanto, TBA, Bt Corn e Golden Rice, detengono quindi il potere di accesso, di produzione e distribuzione delle risorse, creando una situazione di debito prolungato per i piccoli produttori. Situazione che si aggrava maggiormente se si considera che lo sviluppo di coltivazioni OGM avviene soprattutto in Argentina, Brasile, Sud Africa, India e Cina, in cui l'agricolutura costituisce una gran parte dell'economia nazionale. Foodpower è una dimostrazione, in scala ridotta, di questa colonizzazione delle risorse del pianeta, del contratto che vincola gli agricoltori a ricomprare di anno in anno la semente venduta dalle società monopoliste e dei rapporti di forza fra chi ha accesso alla produzione e mantenimento del cibo e chi invece deve comprare, chiedere o ottenere in posizione subalterna. In Foodpower, alcune persone hanno il privilegio di accesso al cibo, hanno il potere di distribuzione e possono decidere se mantenere il monopolio delle risorse alimentari o aprire un canale di scambio e interazione con gli altri partecipanti attivi nella performance. Questi sono obbligati a interagire con i partecipanti-possessori del monopolio del cibo per potervi accedere e devono ideare degli "hack" per oltrepassare i limiti del flusso alimentare chiuso. Copyright e copyleft trovano qui la loro materializzazione culinaria. Ma come in ogni performace, le reazioni di questo microcosmo possono essere inaspettate, considerando che, come Victor Turner insegna, è proprio durante la "messa in scena" che vengono riscritti, rimodellati e modificati i codici e le categorie condivise in una determinata società. Situazioni attive che potenzialmente si liberano dal concetto di codice e categoria stessi per diventare sperimentazione e improvvisazione. Un'occasione per hackerare le logiche del Foodpower che caratterizzano la società arborescente del nostro presente, gettando i partecipanti della performance nelle trame di una rete interpersonale capace di autoalimentarsi attraverso la collaborazione di una comunità. Una possibilità di rendere i canali di potere aperti attraverso il cibo, permettendo la diffusione della comunicazione in modo orizzontale e reticolare. Un modello di ricerca e sviluppo rizomatico, senza un centro che funga da emittente privilegiato, attraverso un flusso di dati libero da distorsioni o mediazioni ufficiali.
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DAL DIRE AL FARE C’È DI MEZZO IL MANGIARE
Antonio Caronia
Mi pare che il modo migliore per commentare il lavoro di Franca Formenti Foodpower sia sottolineare il modo limpido e quasi trasparente (vedremo poi quanto questa sensazione sia ingannevole) con cui esso si collega a una delle tendenze più diffuse e significative dell’arte contemporanea, cioè quella del suo carattere linguistico.
L’arte contemporanea, da Duchamp in poi, e ancora di più da Kosuth in poi, è un’arte prevalentemente concettuale: ma per gli esseri umani “arte concettuale” significa essenzialmente arte linguistica, perché è il linguaggio il tramite, anzi la base su cui gli esseri umani costruiscono i concetti. C’è un equivoco, potrebbe commentare il frequentatore di gallerie d’arte e di vernici di mostre: le arti visive (lo dice il nome stesso) sono fatte di immagini, non di parole. Ma l’equivoco (che non è tale perché storicamente è stato proprio così) che le arti visive fossero arti di immagini, nel corso del Novecento si è a poco a poco dissolto. La storia è stata già raccontata migliaia di volte, non posso fare altro che riassumerla per sommi capi. Le immagini hanno cessato, a poco a poco, di essere il centro delle arti “visive” nel momento (nel lungo processo storico) in cui esse trionfavano in altri campi che non erano più quelli dell’arte tradizionale: grazie alle tecnologie di riproduzione prima, di produzione poi, delle immagini (dalla fotografia alle immagini sintetiche), esse sono diventate il cuore della fotografia appunto, del cinema, della pubblicità, della televisione, dei videogiochi: tutti mezzi espressivi che, d’altra parte, ereditavano il grande patrimonio di materiali e di idee delle arti visive del passato.
Ma nel momento in cui l’immagine trionfava in quei campi, essa veniva a poco a poco perdendo significato e valore sul terreno delle arti tradizionali, tanto che oggi definire “arti visive” le arti contemporanee sarebbe probabilmente equivoco. Non perché non ci siano più immagini nelle arti, ma nel senso che l’immagine non è più il centro delle realizzazioni e dei processi artistici, perché questo centro è diventato un tessuto linguistico e relazionale che certo si intreccia con le immagini, le utilizza, se ne serve come strumento di illustrazione, di delucidazione, di maggiore chiarimento di una sostanza che è però linguistica, per non dire spesso apertamente testuale.
Mi pare che questo valga anche, e principalmente, per le cosiddette performance. Le performance sono tutte azioni e processi che si basano sul linguaggio, sono esplicitazioni di enunciati: raccontano pezzi del mondo, raccontano situazioni del mondo, raccontano storie o non le raccontano, ma in qualche modo condividono con l’operazione linguistica il rapporto di referenzialità con il reale. Cosa che le arti tradizionali avevano anch’esse in un altro senso, sia ben chiaro: le arti visive, come tutte le arti tranne la musica e forse in parte la danza, sono referenziali. Ma nelle arti in cui c’è una presenza semioticamente determinante delle immagini, il rapporto tra macrosignificante e macrosignificato dell’opera in quanto tale non è un rapporto direttamente linguistico, c’è una mediazione ulteriore, quella dell’immagine appunto: apparentemente più immediata e concreta, in realtà anch’essa stratificata e simbolica. Quando parliamo di “linguaggio delle immagini”, perciò, usiamo una metafora, complessa e non priva di relazioni col linguaggio naturale, ma sempre una metafora. Nelle arti visive tradizionali la relazione con il referente, il rapporto simbolico e costruttivo col reale, non è mai direttamente, e neppure principalmente, linguistico, nello stesso modo in cui lo è invece nelle arti basate sul linguaggio naturale, come sono la letteratura e il teatro.
Nell’arte contemporanea, e in particolare nelle arti performative, io credo invece che la sostanza della referenzialità di questa operazione sia tornata ad essere direttamente linguistica. L’abitudine con lo schermo televisivo (ma adesso anche con quello del computer) potrebbe portarci a obbiettare che anche nelle performance sempre di immagini si tratta: ma questa obiezione non sarebbe che il frutto di una scorretta (e spesso malsana) identificazione del mondo reale (dei mondi reali) con le immagini. Nessuna immagine abbiamo, nelle performance, ma corpi, fermi o in movimento, situazioni, azioni: tutte cose che, per gli esseri umani, si comprendono, si leggono e si gestiscono, con il linguaggio. E quindi, torno a dire, una performance è quanto di più vicino a un’azione linguistica ci sia nell’arte contemporanea. Una performance è, essenzialmente, un enunciato.
Questa lunga premessa mi serviva per arrivare al punto, alla domanda a cui vorrei tentare di rispondere, e cioè: di quale enunciato (di quali enunciati) si tratta nella performance Foodpower? Risponderò che, a quanto mi sembra, Foodpower è un bell’esempio di quelli che il filosofo del linguaggio John L. Austin ha chiamato “enunciati performativi”.
Gli enunciati performativi sono quelli (come ha messo bene in luce Paolo Virno) più vicini alla funzione più basilare del linguaggio, che è quella di segnalare che si sta parlando: ma lo fanno legando strettamente il linguaggio all’azione. Non proprio nello stesso modo in cui lo fanno gli enunciati imperativi, tipo “chiudi quella porta”, “firma questo documento” o “ vaffanculo”, tutti e tre comandi che si danno ad altre persone, e dai quali quindi l’enunciatario si aspetta che altri compiano delle azioni in conformità al suo enunciato. L’enunciato performativo, più sottilmente, realizza un’azione nel momento stesso in cui io lo enuncio, perché quell’azione consiste proprio nel fatto di dirla: è un’azione che consiste nel fatto stesso di enunciarla. Sono enunciati, quindi, che creano direttamente stati di fatto e non indirettamente come gli enunciati imperativi; per esempio “prometto che ti sarò fedele” è un enunciato di questo tipo, perchè nel momento in cui io pronuncio la parola “prometto”, la sostanza dell’azione connessa con il “prometto” sta semplicemente nell’atto di pronunciare questa parola. “Spero promitto iuro”, che, come ci dicevano gli insegnanti di latino, vogliono l’infinito futuro, lo vogliono solo perché le conseguenze della nostra azione stanno nel futuro, ma l’azione di sperare, promettere, giurare, è un’azione compiuta nel presente, nel momento stesso in cui viene enunciata e per il solo fatto di essere enunciata. Ma enunciati performativi sono anche “Io ti battezzo col nome di …” oppure “Io prendo questa donna come mia legittima sposa” (ovviamente se pronunciati nei contesti appropriati).
E allora perchè dico che Foodpower mi pare essere un enunciato performativo? Perché Foodpower non descrive nulla, costruisce una situazione, e la realizza nel momento stesso in cui la enuncia. La performance non consiste in qualcosa che Franca Formenti fa, o dice, o racconta, ma in qualcosa che fanno gli spettatori una volta entrati nella situazione da lei predisposta. L’oggetto della performance è, di tutta evidenza, la situazione del cibo nel mondo, la sperequazione dell’esperienza alimentare, sul piano qualitativo e quantitativo, tra i continenti e i popoli. Ma Formenti non ci dice: guardate che nel mondo c’è l’80% della gente che non mangia, o che è a rischio di non mangiare. Non fa un documentario per dirci questa cosa, non cita cifre né ci mostra immagini, e neppure fa una pièce teatrale in cui ci sono dei professionisti che interpretano una parte che non è la loro (in questo caso la parte dei morti di fame). No. In Foodpower nessuno finge, ma i partecipanti a un evento artistico, a una performance d’arte, vengono messi nella condizione di sperimentare direttamente lo stato di fatto descritto dall’enunciato: “Attualmente nel mondo l’80% delle persone non mangiano, o rischiano di non mangiare, o sono denutrite o sottonutrite, o muoiono letteralmente di fame.” E questo enunciato, attraverso un’azione, si autorealizza nel momento stesso in cui viene proferito.
Per una sera, per un’ora o due, si avrà una situazione nella quale non c’è qualcuno che afferma che l’80% delle persone nel mondo non mangiano, ma realmente l’80% delle persone presenti in quella situazione non mangeranno. Nel momento in cui scrivo non so ancora come andrà la performance, non so quali effetti avrà, però questo è il progetto, l’intenzione dell’artista: realizzare nella pratica, nell’esperienza dei visitatori, una situazione che è quella generale e globale del mondo, non certo quella della ricca e nobile città di Varese, nella quale la percentuale dei veri e propri morti di fame, come in tutto l’occidente sviluppato, è molto minore. Ma la sera di Foodpower, a Varese, nella Duetart gallery, una scelta rappresentanza del benestante mondo industriale avrà la possibilità di sperimentare di persona una situazione di privazione di cibo, e per uscirne sarà indotta a mettere in opera ogni sorta di strategie, di tattiche, di dispositivi relazionali, dalle blandizie alla corruzione a (chissà?) la ribellione. Per uscire da una condizione che, non per l’80% del mondo, ma per una percentuale comunque preoccupante dei suoi abitanti, è abituale e quotidiana.
Mi pare chiaro che Foodpower vada collocata nella categoria dell’arte civile, o sociale (in senso lato anche arte politica), perché opera con efficacia una denuncia di un problema che sta diventando sempre più rilevante. Foodpower, in altre parole, è un episodio interessante dell’utilizzo più elevato e coraggioso del format della cosiddetta “arte pubblica”, realizzata cioè in modo non decorativo, teso a provocare un dibattito e una riflessione non banali. Se non mi sono soffermato tanto su questo aspetto della performance è perché pensavo che altri l’avrebbero fatto, ma anche perché mi interessava di più mettere l’accento sugli aspetti – che non sono solo formali – delle strategie espressive. Sia chiaro, non voglio ipotecare le intenzioni di Franca Formenti né irrigidire il suo lavoro in una lettura che è soltanto mia. Ma mi pare innegabile che l’ideazione e la realizzazione di questa performance riveli un uso molto sapiente delle caratteristiche linguistiche di questo genere artistico. E mi pare anche che (al di là, lo ripeto, delle intenzioni dell’artista), Foodpower abbia anche un terzo livello di lettura, che potrei dire “metalinguistico” o “meta-artistico”. In modo radicale da un punto di vista dell’esito e della situazione che crea, in modo più sommesso dal punto di vista del discorso, Formenti sembra proporci anche un gesto di riflessione sui linguaggi dell’arte oggi, e anche questa riflessione ce la propone con le modalità di un enunciato performativo. L’artista non ci dice, perciò, “adesso vi racconto come penso che sia, o che debba essere, o che sarà, l’arte contemporanea”, ma suggerisce una riflessione sull’arte nel momento stesso in cui realizza la sua azione artistica, ricreando quindi, anche a questo livello, lo stesso legame che c’è tra constatazione del fatto, enunciazione della proposizione, esecuzione dell’azione. Questo, per me, è il modo più concreto e più interessante di riflettere e di discutere sui linguaggi dell’arte, perchè non si muove a livello metalinguistico astratto, separato dall’esperienza del pubblico.
Vedo quindi questi tre livelli in Foodpower, un livello fattuale o dei contenuti, un livello esperienziale o artistico/linguistico, e un livello metartistico o metalinguistico, che non vengono tenuti separati, ma sono collegati in modo intelligente in una sola “macroazione”, nel senso dell’insieme di tutte le azioni che in quella situazione andranno a costituire la performance. Questo non mi pare solo tipico delle esperienze più interessanti dell’arte contemporanea, ma tipico anche di ogni esperienza linguistica, perchè già il linguaggio fonde sempre, entro di sé, un aspetto formale, uno contenutistico/descrittivo, e uno pratico. Il linguaggio, come l’arte, non è semplice rappresentazione, ma esperienza (individuale e collettiva) totale. E mi pare che quando l’arte riesce a sollevare o a ricordarci problemi concreti, a realizzarli linguisticamente in modo acuto e arguto, e anche a introdurre una riflessione sulle proprie modalità espressive, artista e pubblico possano sentirsi abbastanza soddisfatti. Anche se non hanno mangiato. E per usare una di quelle antiche e stratificate metafore che sono i proverbi (e, tanto per stare in tema, un proverbio alimentare), più soddisfatta di tutti sarà Franca Formenti per aver preso tre piccioni con una fava.
Tatiana Bazzichelli
Food Power. Chi detiene oggi il potere di distribuzione delle risorse alimentari? Chi controlla la proprietà intellettuale e materiale delle nuove tecniche di coltivazione? Cosa sta alla radice del processo di introduzione degli organismi geneticamente modificati (OGM) nel settore agroalimentare?
Per utilizzare una terminologia cara a Gilles Deleuze e Félix Guattari (1976), che in questo caso si adatta perfettamente a livello metaforico alla performance Foodpower ideata da Franca Formenti, siamo di fronte a un bivio fra una concezione rizomatica (da rizo-, radice), e una concezione arborescente della produzione e dell'economia. Letteralmente, la caratteristica propria del rizoma è quella di sviluppare autonomamente nuove piante, anche in condizioni sfavorevoli. Metaforicamente, il pensiero rizomatico è in grado di stabilire connessioni produttive in qualsiasi direzione: in questo modello tutti contano allo stesso modo e nessuno può sentirsi autorizzato a prevaricare sugli altri. Esistono svariati nodi di comunicazione, che non possono essere controllati o gestiti da un unico apparato, anche perché limitandone uno, non viene determinato automaticamente il blocco delle attività degli altri, che risultano di pari importanza nella struttura comunicativa a rete. Invece, il modello arborescente procede gerarchicamente e linearmente, seguendo categorie binarie rigide e dualistiche. La dialettica fra pensiero arborescente e rizomatico si può applicare al dibattito fra copyright e copyleft, tra flusso di informazioni chiuse ed aperte, tra free software e brevetti di prodotti d'ingegno protetti da copyright. Nella concezione del free software, cara a chi si riconosce nell'attitudine e etica hacker, è insita una visione politica dell'uso della tecnologia come veicolo di libertà, attraverso la possibilità di scambiare, manipolare, modificare e distribuire un prodotto/idea senza restrizioni. Un rizoma tecnologico che si apre a una collettività di individui che fa dello scambio e della collaborazione a rete la logica principale. Al contrario, i software protetti da copyright non permettono l'accesso al codice sorgente per modificarlo e ridistribuirlo liberamente, rimanendo così nelle mani dei pochi che ne detengono il monopolio. Questa dinamica si adatta perfettamente al dibatitto insito nella produzione di coltivazioni OGM e alla problematica degli equilibri di potere fra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Da una parte, come i sostenitori della ricerca sugli OGM affermano, tale produzione ha il beneficio di supplire alla carenza di cibo per i paesi meno ricchi, permettendo di gestire il processo di coltivazione in maniera più controllata; dall'altra, rischia di generare una pesante influenza sulle economie agricole deboli o in crisi, con il risultato di colonizzare la produzione alimentare, indebolire l'economia agricola locale e generare potenziali rischi per l'ambiente nelle aree rurali soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Come i software brevettati, le piante OGM non sono riproducibili liberamente, e vincolano i produttori al riacquisto delle sementi di anno in anno. Le grosse compagnie che producono i "codici sorgenti" dei prodotti agricoli, come Roundup Ready e Monsanto, TBA, Bt Corn e Golden Rice, detengono quindi il potere di accesso, di produzione e distribuzione delle risorse, creando una situazione di debito prolungato per i piccoli produttori. Situazione che si aggrava maggiormente se si considera che lo sviluppo di coltivazioni OGM avviene soprattutto in Argentina, Brasile, Sud Africa, India e Cina, in cui l'agricolutura costituisce una gran parte dell'economia nazionale. Foodpower è una dimostrazione, in scala ridotta, di questa colonizzazione delle risorse del pianeta, del contratto che vincola gli agricoltori a ricomprare di anno in anno la semente venduta dalle società monopoliste e dei rapporti di forza fra chi ha accesso alla produzione e mantenimento del cibo e chi invece deve comprare, chiedere o ottenere in posizione subalterna. In Foodpower, alcune persone hanno il privilegio di accesso al cibo, hanno il potere di distribuzione e possono decidere se mantenere il monopolio delle risorse alimentari o aprire un canale di scambio e interazione con gli altri partecipanti attivi nella performance. Questi sono obbligati a interagire con i partecipanti-possessori del monopolio del cibo per potervi accedere e devono ideare degli "hack" per oltrepassare i limiti del flusso alimentare chiuso. Copyright e copyleft trovano qui la loro materializzazione culinaria. Ma come in ogni performace, le reazioni di questo microcosmo possono essere inaspettate, considerando che, come Victor Turner insegna, è proprio durante la "messa in scena" che vengono riscritti, rimodellati e modificati i codici e le categorie condivise in una determinata società. Situazioni attive che potenzialmente si liberano dal concetto di codice e categoria stessi per diventare sperimentazione e improvvisazione. Un'occasione per hackerare le logiche del Foodpower che caratterizzano la società arborescente del nostro presente, gettando i partecipanti della performance nelle trame di una rete interpersonale capace di autoalimentarsi attraverso la collaborazione di una comunità. Una possibilità di rendere i canali di potere aperti attraverso il cibo, permettendo la diffusione della comunicazione in modo orizzontale e reticolare. Un modello di ricerca e sviluppo rizomatico, senza un centro che funga da emittente privilegiato, attraverso un flusso di dati libero da distorsioni o mediazioni ufficiali.
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DAL DIRE AL FARE C’È DI MEZZO IL MANGIARE
Antonio Caronia
Mi pare che il modo migliore per commentare il lavoro di Franca Formenti Foodpower sia sottolineare il modo limpido e quasi trasparente (vedremo poi quanto questa sensazione sia ingannevole) con cui esso si collega a una delle tendenze più diffuse e significative dell’arte contemporanea, cioè quella del suo carattere linguistico.
L’arte contemporanea, da Duchamp in poi, e ancora di più da Kosuth in poi, è un’arte prevalentemente concettuale: ma per gli esseri umani “arte concettuale” significa essenzialmente arte linguistica, perché è il linguaggio il tramite, anzi la base su cui gli esseri umani costruiscono i concetti. C’è un equivoco, potrebbe commentare il frequentatore di gallerie d’arte e di vernici di mostre: le arti visive (lo dice il nome stesso) sono fatte di immagini, non di parole. Ma l’equivoco (che non è tale perché storicamente è stato proprio così) che le arti visive fossero arti di immagini, nel corso del Novecento si è a poco a poco dissolto. La storia è stata già raccontata migliaia di volte, non posso fare altro che riassumerla per sommi capi. Le immagini hanno cessato, a poco a poco, di essere il centro delle arti “visive” nel momento (nel lungo processo storico) in cui esse trionfavano in altri campi che non erano più quelli dell’arte tradizionale: grazie alle tecnologie di riproduzione prima, di produzione poi, delle immagini (dalla fotografia alle immagini sintetiche), esse sono diventate il cuore della fotografia appunto, del cinema, della pubblicità, della televisione, dei videogiochi: tutti mezzi espressivi che, d’altra parte, ereditavano il grande patrimonio di materiali e di idee delle arti visive del passato.
Ma nel momento in cui l’immagine trionfava in quei campi, essa veniva a poco a poco perdendo significato e valore sul terreno delle arti tradizionali, tanto che oggi definire “arti visive” le arti contemporanee sarebbe probabilmente equivoco. Non perché non ci siano più immagini nelle arti, ma nel senso che l’immagine non è più il centro delle realizzazioni e dei processi artistici, perché questo centro è diventato un tessuto linguistico e relazionale che certo si intreccia con le immagini, le utilizza, se ne serve come strumento di illustrazione, di delucidazione, di maggiore chiarimento di una sostanza che è però linguistica, per non dire spesso apertamente testuale.
Mi pare che questo valga anche, e principalmente, per le cosiddette performance. Le performance sono tutte azioni e processi che si basano sul linguaggio, sono esplicitazioni di enunciati: raccontano pezzi del mondo, raccontano situazioni del mondo, raccontano storie o non le raccontano, ma in qualche modo condividono con l’operazione linguistica il rapporto di referenzialità con il reale. Cosa che le arti tradizionali avevano anch’esse in un altro senso, sia ben chiaro: le arti visive, come tutte le arti tranne la musica e forse in parte la danza, sono referenziali. Ma nelle arti in cui c’è una presenza semioticamente determinante delle immagini, il rapporto tra macrosignificante e macrosignificato dell’opera in quanto tale non è un rapporto direttamente linguistico, c’è una mediazione ulteriore, quella dell’immagine appunto: apparentemente più immediata e concreta, in realtà anch’essa stratificata e simbolica. Quando parliamo di “linguaggio delle immagini”, perciò, usiamo una metafora, complessa e non priva di relazioni col linguaggio naturale, ma sempre una metafora. Nelle arti visive tradizionali la relazione con il referente, il rapporto simbolico e costruttivo col reale, non è mai direttamente, e neppure principalmente, linguistico, nello stesso modo in cui lo è invece nelle arti basate sul linguaggio naturale, come sono la letteratura e il teatro.
Nell’arte contemporanea, e in particolare nelle arti performative, io credo invece che la sostanza della referenzialità di questa operazione sia tornata ad essere direttamente linguistica. L’abitudine con lo schermo televisivo (ma adesso anche con quello del computer) potrebbe portarci a obbiettare che anche nelle performance sempre di immagini si tratta: ma questa obiezione non sarebbe che il frutto di una scorretta (e spesso malsana) identificazione del mondo reale (dei mondi reali) con le immagini. Nessuna immagine abbiamo, nelle performance, ma corpi, fermi o in movimento, situazioni, azioni: tutte cose che, per gli esseri umani, si comprendono, si leggono e si gestiscono, con il linguaggio. E quindi, torno a dire, una performance è quanto di più vicino a un’azione linguistica ci sia nell’arte contemporanea. Una performance è, essenzialmente, un enunciato.
Questa lunga premessa mi serviva per arrivare al punto, alla domanda a cui vorrei tentare di rispondere, e cioè: di quale enunciato (di quali enunciati) si tratta nella performance Foodpower? Risponderò che, a quanto mi sembra, Foodpower è un bell’esempio di quelli che il filosofo del linguaggio John L. Austin ha chiamato “enunciati performativi”.
Gli enunciati performativi sono quelli (come ha messo bene in luce Paolo Virno) più vicini alla funzione più basilare del linguaggio, che è quella di segnalare che si sta parlando: ma lo fanno legando strettamente il linguaggio all’azione. Non proprio nello stesso modo in cui lo fanno gli enunciati imperativi, tipo “chiudi quella porta”, “firma questo documento” o “ vaffanculo”, tutti e tre comandi che si danno ad altre persone, e dai quali quindi l’enunciatario si aspetta che altri compiano delle azioni in conformità al suo enunciato. L’enunciato performativo, più sottilmente, realizza un’azione nel momento stesso in cui io lo enuncio, perché quell’azione consiste proprio nel fatto di dirla: è un’azione che consiste nel fatto stesso di enunciarla. Sono enunciati, quindi, che creano direttamente stati di fatto e non indirettamente come gli enunciati imperativi; per esempio “prometto che ti sarò fedele” è un enunciato di questo tipo, perchè nel momento in cui io pronuncio la parola “prometto”, la sostanza dell’azione connessa con il “prometto” sta semplicemente nell’atto di pronunciare questa parola. “Spero promitto iuro”, che, come ci dicevano gli insegnanti di latino, vogliono l’infinito futuro, lo vogliono solo perché le conseguenze della nostra azione stanno nel futuro, ma l’azione di sperare, promettere, giurare, è un’azione compiuta nel presente, nel momento stesso in cui viene enunciata e per il solo fatto di essere enunciata. Ma enunciati performativi sono anche “Io ti battezzo col nome di …” oppure “Io prendo questa donna come mia legittima sposa” (ovviamente se pronunciati nei contesti appropriati).
E allora perchè dico che Foodpower mi pare essere un enunciato performativo? Perché Foodpower non descrive nulla, costruisce una situazione, e la realizza nel momento stesso in cui la enuncia. La performance non consiste in qualcosa che Franca Formenti fa, o dice, o racconta, ma in qualcosa che fanno gli spettatori una volta entrati nella situazione da lei predisposta. L’oggetto della performance è, di tutta evidenza, la situazione del cibo nel mondo, la sperequazione dell’esperienza alimentare, sul piano qualitativo e quantitativo, tra i continenti e i popoli. Ma Formenti non ci dice: guardate che nel mondo c’è l’80% della gente che non mangia, o che è a rischio di non mangiare. Non fa un documentario per dirci questa cosa, non cita cifre né ci mostra immagini, e neppure fa una pièce teatrale in cui ci sono dei professionisti che interpretano una parte che non è la loro (in questo caso la parte dei morti di fame). No. In Foodpower nessuno finge, ma i partecipanti a un evento artistico, a una performance d’arte, vengono messi nella condizione di sperimentare direttamente lo stato di fatto descritto dall’enunciato: “Attualmente nel mondo l’80% delle persone non mangiano, o rischiano di non mangiare, o sono denutrite o sottonutrite, o muoiono letteralmente di fame.” E questo enunciato, attraverso un’azione, si autorealizza nel momento stesso in cui viene proferito.
Per una sera, per un’ora o due, si avrà una situazione nella quale non c’è qualcuno che afferma che l’80% delle persone nel mondo non mangiano, ma realmente l’80% delle persone presenti in quella situazione non mangeranno. Nel momento in cui scrivo non so ancora come andrà la performance, non so quali effetti avrà, però questo è il progetto, l’intenzione dell’artista: realizzare nella pratica, nell’esperienza dei visitatori, una situazione che è quella generale e globale del mondo, non certo quella della ricca e nobile città di Varese, nella quale la percentuale dei veri e propri morti di fame, come in tutto l’occidente sviluppato, è molto minore. Ma la sera di Foodpower, a Varese, nella Duetart gallery, una scelta rappresentanza del benestante mondo industriale avrà la possibilità di sperimentare di persona una situazione di privazione di cibo, e per uscirne sarà indotta a mettere in opera ogni sorta di strategie, di tattiche, di dispositivi relazionali, dalle blandizie alla corruzione a (chissà?) la ribellione. Per uscire da una condizione che, non per l’80% del mondo, ma per una percentuale comunque preoccupante dei suoi abitanti, è abituale e quotidiana.
Mi pare chiaro che Foodpower vada collocata nella categoria dell’arte civile, o sociale (in senso lato anche arte politica), perché opera con efficacia una denuncia di un problema che sta diventando sempre più rilevante. Foodpower, in altre parole, è un episodio interessante dell’utilizzo più elevato e coraggioso del format della cosiddetta “arte pubblica”, realizzata cioè in modo non decorativo, teso a provocare un dibattito e una riflessione non banali. Se non mi sono soffermato tanto su questo aspetto della performance è perché pensavo che altri l’avrebbero fatto, ma anche perché mi interessava di più mettere l’accento sugli aspetti – che non sono solo formali – delle strategie espressive. Sia chiaro, non voglio ipotecare le intenzioni di Franca Formenti né irrigidire il suo lavoro in una lettura che è soltanto mia. Ma mi pare innegabile che l’ideazione e la realizzazione di questa performance riveli un uso molto sapiente delle caratteristiche linguistiche di questo genere artistico. E mi pare anche che (al di là, lo ripeto, delle intenzioni dell’artista), Foodpower abbia anche un terzo livello di lettura, che potrei dire “metalinguistico” o “meta-artistico”. In modo radicale da un punto di vista dell’esito e della situazione che crea, in modo più sommesso dal punto di vista del discorso, Formenti sembra proporci anche un gesto di riflessione sui linguaggi dell’arte oggi, e anche questa riflessione ce la propone con le modalità di un enunciato performativo. L’artista non ci dice, perciò, “adesso vi racconto come penso che sia, o che debba essere, o che sarà, l’arte contemporanea”, ma suggerisce una riflessione sull’arte nel momento stesso in cui realizza la sua azione artistica, ricreando quindi, anche a questo livello, lo stesso legame che c’è tra constatazione del fatto, enunciazione della proposizione, esecuzione dell’azione. Questo, per me, è il modo più concreto e più interessante di riflettere e di discutere sui linguaggi dell’arte, perchè non si muove a livello metalinguistico astratto, separato dall’esperienza del pubblico.
Vedo quindi questi tre livelli in Foodpower, un livello fattuale o dei contenuti, un livello esperienziale o artistico/linguistico, e un livello metartistico o metalinguistico, che non vengono tenuti separati, ma sono collegati in modo intelligente in una sola “macroazione”, nel senso dell’insieme di tutte le azioni che in quella situazione andranno a costituire la performance. Questo non mi pare solo tipico delle esperienze più interessanti dell’arte contemporanea, ma tipico anche di ogni esperienza linguistica, perchè già il linguaggio fonde sempre, entro di sé, un aspetto formale, uno contenutistico/descrittivo, e uno pratico. Il linguaggio, come l’arte, non è semplice rappresentazione, ma esperienza (individuale e collettiva) totale. E mi pare che quando l’arte riesce a sollevare o a ricordarci problemi concreti, a realizzarli linguisticamente in modo acuto e arguto, e anche a introdurre una riflessione sulle proprie modalità espressive, artista e pubblico possano sentirsi abbastanza soddisfatti. Anche se non hanno mangiato. E per usare una di quelle antiche e stratificate metafore che sono i proverbi (e, tanto per stare in tema, un proverbio alimentare), più soddisfatta di tutti sarà Franca Formenti per aver preso tre piccioni con una fava.
13
settembre 2008
Franca Formenti – Foodpower
13 settembre 2008
arte contemporanea
performance - happening
performance - happening
Location
DUETART GALLERY
Varese, Via Albuzzi, 27, (Varese)
Varese, Via Albuzzi, 27, (Varese)
Orario di apertura
ore 19.30
Vernissage
13 Settembre 2008, ore 19.30
Autore
Curatore